martedì 30 settembre 2014

"GLI OMICIDI DELLA Z" DI JEFFERSON FARJEON.


Anche se il tempo di leggere in fondo non è molto e per questo cerco di andare sul sicuro e soprattutto di evitare autori che in un primo momento non mi avevano convinto appieno, a volte l'istinto mi "costringe" a scegliere libri dei quali, razionalmente, sono poco convinto.

Dopo l'interessante ma troppo altalenante e bizzarro "La casa dei sette cadaveri" non avevo una gran voglia di leggere ancora un Farjeon; ma la scorsa settimana mi sono trovato tra le mani questo "The Z murders", dalle premesse molto allettanti; già dal risvolto, sempre stuzzicante, del volume Polillo si intuiva una storia movimentata ed elettrizzante, non un giallo statico come molti altri; poi un libro scritto nel 1932, in piena Golden age, mi attira come il miele all'orso. Quindi senza riflettere troppo l'ho fatto mio, perchè avevo voglia di qualcosa di simile a un Wallace, o al "Sigillo grigio" di Packard; avevo voglia di divertirmi tanto e impegnarmi poco, per intendersi.
 
 

E sinceramente arrivato a metà romanzo ero veramente entusiasta,  tanto da convincermi di avere tra le mani un vero gioiello.

Le prime pagine sono bellissime, tra i migliori inizi di tutta la storia del genere; vediamo infatti il protagonista, il giovane, aitante e simpatico Richard Temperley, uno di quei gentiluomini dalle maniere impeccabili ma sprezzanti del pericolo come il Richard Hannay dei 39 scalini, scendere alla stazione di Euston nel primo mattino, ossia nella "fredda ora grigia" dove tutto è immobile ma un nuovo brulicare di vita è imminente; il tutto viene descritto in modo particolareggiato, creando una bellissima istantanea che ricorda alcune straordinarie riprese del giovane Hitchcock, specie quelle di film come Blackmail o Sabotaggio.

Temperley è stanco e piuttosto nervoso, visto che un anziano e scorbutico signore che condivideva con lui la cuccetta di un treno proveniente dal nord ha russato tutto il tempo; ma a Euston, oltre a loro due, scende anche una bellissima ragazza, e l'autore ci dice senza mezzi termini che Temperley, più che il suo volto o i suoi capelli, si attarda a osservare il suo bel fondoschiena. Gentiluomo si, ma anche l'occhio vuole la sua parte.

Siccome è ancora molto presto per i rispettivi affari, i tre viaggiatori decidono di riposarsi in una sala fumatori col camino acceso; Temperley si attarda per badare ai bagagli, e quando raggiunge la sala vede la ragazza andarsene con passo spedito, ed entrando nota che il vecchio non russa più...perchè è morto. Accanto al cadavere, Temperley nota prima della polizia due cose; la borsetta della ragazza con tanto di biglietto da visita col suo indirizzo, e una "Z" scarlatta.

Dopo questo folgorante inizio Temperley, incosciente, spavaldo e già innamorato, decide di indagare per suo conto, tanto da sfidare la polizia, in una specie di simpatica quanto inverosimile sfida aperta a distanza; le schermaglie con l'ispettore James e il poliziotto Dutton sono del tutto assurde, ma estremamente divertenti.

Quindi, per tutta la prima parte del libro osserviamo Temperley che cerca di rintracciare la bella sconosciuta, e c'è davvero di che divertirsi, un concentrato di azione, colpi di scena e tanto adorabile Understatement di stampo British che ti incolla alle pagine. Questo, dicevo, la prima parte; ma quando poi la storia ha una svolta brusca, il tutto diventa un action noioso e tirato per le lunghe oltre ogni soglia di sopportazione del lettore, il fantomatico "Z" è un cattivone diabolico visto mille volte e soprattutto, tra lunghissimi inseguimenti in Taxi e di corsa, viene a mancare del tutto la componente gialla, e il romanzo diventa un puro thriller che si trascina abbastanza stancamente fino a un finale diligente ma senza guizzi alcuni.

Quindi opera nettamente spaccata in due; piccolo capolavoro la prima parte, un mezzo (anzi tre quarti) disastro la seconda; in ogni caso un libro che non riesco a disprezzare, anzi a cui continuerò a volere bene nonostante tutto; e quando lo rileggerò, e capiterà prima o poi, mi fermerò a metà libro, comunque felice di 140-150 pagine assolutamente incantevoli.

Se ve lo consiglio? fate voi.

venerdì 26 settembre 2014

LE PALMINE DIMENTICATE 4; “IL TALISMANO DEI DANGERFIELD”, DI J.J. CONNINGTON.


 

Ormai da qualche mese, uno degli obiettivi che mi sono posto per questo blog, per evitare che esso risulti troppo dispersivo, è quello di parlare di quei vecchi gialli mondadori (lo ridico per chi ancora non lo sapesse; per “palmine” si intendono i libri gialli della prima collezione dal 1929 al 1941, così denominati dal logo della casa editrice che al tempo era una piccola palma)  dimenticati e irristampati, talvolta senza una ragione, fin dagli anni trenta.

Ci sono ancora molti, troppi titoli da riscoprire della leggendaria collana, tesori che Mondadori ha in archivio e non si decide, tranne rare eccezioni, a ristampare. Grazie all’aiuto dell’impagabile signora Giuseppina del blog “L’oeil de lucien”, sto cercando di individuare, tra i titoli orfani di ristampa, quelli davvero meritevoli di rilettura o quelli che invece è giusto lasciare tra le spire dell’oblio; una volta individuati e letti, i romanzi verranno poi recensiti per come meritano. Con questo “buon proposito” (ma post di diverso argomento non mancheranno, ci mancherebbe) inizio un nuovo corso per questo blog dopo qualche mese un poco stagnante dovuto principalmente a molti impegni concomitanti, ma anche a un calo di ispirazione.

In questo 2014 ho già recensito tre palmine dimenticate; il capolavoro “Una voce dalle tenebre” di Eden Phillpotts, il bellissimo “La dama di compagnia” di Marie belloc Lowndes” e l’affascinante ma anomalo “Il terrore nel castello” del Tedesco Rudolf Stratz.

Stavolta è il turno di un autore abbastanza famoso, onorato anche dell’attenzione della Polillo che gli ha dedicato ben 3 bassotti; sto parlando dello scienziato e romanziere Alfred Walter Stewart, conosciuto dagli appassionati del poliziesco con lo pseudonimo di J.J. Connington. Di questo celebrato scrittore qualche anno fa avevo letto, sempre edito da Polillo, “Un caso con nove soluzioni” uscito per Mondadori col titolo “Il segreto di una notte” e mi parve uno dei gialli più raffinati e soprattutto adulti che avessi mai letto; una struttura narrativa robustissima, particolari parecchio scabrosi lasciati intendere senza troppi giri di parole e soprattutto una soluzione del tutto convincente.



l'autore
 
 
Dopo questo capolavoro, ho preso in mano questo “Talismano dei Dangerfield”, opera più giovanile dell’autore targata 1926, con aspettative abbastanza alte; le quali non sono state del tutto disattese, ma certo è che ogni confronto tra i due libri è abbastanza improponibile, in quanto questo Talismano è un’opera molto più distesa, rilassata, senza morti e senza arresti.

Siamo da qualche parte sulla costa Inglese, in un bellissimo maniero con proprietari adeguati ad esso, e un gruppo di amici e conoscenti (una bella banda di scrocconi, per come la vedo io) vi sta passando l’estate ospite dell’austera e titolata famiglia Dangerfield.
 
Solita copertina meravigliosa di Abbey
 

Dopo una parecchio sommaria (ma credo purtroppo dovuta ai vistosi tagli operati dal traduttore Berto Cerlenchi) presentazione della varia umanità presente al castello, l’autore ci informa che la famiglia possiede un cimelio di rara bellezza, un bracciale tempestato di pietre preziosissime noto appunto come “Il talismano dei Danfgerfield”, che vale 50000 Sterline dell’epoca ma che il vecchio Rowland Dangerfield (Rollo nell’edizione Italiana…) non vuole assolutamente vendere per ragioni affettive. Strano è che lasci questo prezioso in una teca senza nessun allarme, e senza nemmeno preoccuparsi di chiuedere la porta, in quanto sembra che, ogni volta che il talismano viene rubato da mano ignota,  dopo al massimo una settimana esso ritorna al legittimo proprietario. Gli ospiti, tra cui un Americano che vorrebbe acquistare il talismano, sono perplessi e quasi inorriditi per il pressappochismo del signore del maniero, ma Rowland è irremovibile nella sua cieca fiducia verso la provvidenza.

Poi, ovviamente, una sera il talismano viene rubato davvero, e da qui parte una complicata girandola di accuse e controaccuse tra i vari ospiti dei Dangerfield, che porterà a equivoci, depistamenti e accuse infamanti (si insinua perfino che una delle ragazze ospiti dei Dangerfield, che la sera prima aveva perso forte al gioco, si sia procurata dei soldi da uno dei ricconi presenti attraverso il metodo più antico del mondo), il tutto senza esclusione di colpi. Ma questo mistero, e altri misteri legati alla dimora dei Dangerfield, saranno svelati dal giovane ingegnere Westhanger e dalla sciocca e sventata ma in fondo angelica Renata, i due protagonisti meno anonimi e funzionali della vicenda.

Come detto, niente delitti e niente investigatori (se non gli stessi ospiti di Dangerfield che giocano a fare gli Sherlock Holmes fino a riuscirvi), forse per questo il romanzo non è più stato riproposto dal 1932, a parte una ristampa ma nella disastrosa collana dei “capolavori del giallo Mondadori”, che usciva negli anni cinquanta e nella quale si sforbiciavano senza criterio i testi per far entrare più pubblicità possibile tra le pagine, per cui evitate tutti i titoli di quest’ultima collana e ricercatevi le Palmine, molto più curate e complete, con l’unica pecca dei nomi Italianizzati ai quali però si fa presto l’abitudine.

 Un romanzo lento, avvolgente e e rilassato da leggere come un problema enigmistico, i quanto non mancherà nemmeno un tesoro da scoprire all’interno del castello con tanto di sciarade e problemi scacchistici ( e qui l’amico Fabio Lotti potrebe essere interessato), anche se poi l’importanza degli scacchi risulta molto più marginale del previsto.

Un romanzo che sarà praticamente impossibile vedere ristampato, troppo fuori dal tempo e soprattutto troppo compassato, adesso il pubblico ha bisogno di un minimo di emozioni forti. Forse la Polillo potrebbe proporci questo come quarto Connigton, sarebbe una divertente vacanza in un giallo più ludico e meno serioso; mai dire mai.

martedì 16 settembre 2014

“IL MISTERO DI JACOB STREET” , DI RICHARD AUSTIN FREEMAN.


 

Con Freeman, prima di adesso, ero andato in perfetto ordine cronologico; avevo recensito prima il suo buon romanzo d’esordio “L’impronta scarlatta” e poi il capolavoro “L’occhio di Osiride”, il suo secondo romanzo col geniale Anatomopatologo- detective John Thorndyke.

Invece, ora, faccio un salto di ben trentasette anni, dal 1912 al 1949, per andare a recensire l’ultimo dei suoi romanzi polizieschi con Thorndike, letto d’un fiato in una domenica di pioggia. Il libro si intitola “Il mistero di Jacob Street”, ed è un oggetto davvero singolare.
 

Innanzitutto per lo stile, per la tematica, per la Londra del secondo dopoguerra che rappresenta, lontana anni luce da quella dell’occhio di Osiride, cosi come remoti sono gli amori edoardiani come quello tra, che confidano i propri sussurri del cuore davanti alla statua di Artemidoro al British museum (che cosa splendida, chi non ha questo volume recentemente ristampato dalla Polillo corra a procurarselo); no, tra questi due libri c’è un salto ancora più netto tra quello che può esserci, parlando ad esempio della Christie, tra “Poirot a Styles court”, quintessenza della vecchia Inghilterra, e “Un delitto avrà luogo”, il romanzo dell’amarezza e delle disillusioni post-conflitto.

Il mistero di Jacob Street è un romanzo strano, sbilenco, pieno di difetti e approssimativo in molti punti, ma è forse un romanzo unico, con un fascino “malato” che anche oggi lo rende estremamente interessante.

Le prime cinquanta delle 130 pagine del volume della Compagnia del giallo Newton (edizione integrale tradotta per l’occasione) sono dedicate al mondo dei pittori della Londra dell’epoca; come in altre occasioni (Cinque piste false di Dorothy Sayers, Artisti in delitto di Ngaio Marsh) viene dato ampio spazio all’affascinante microcosmo degli artisti, ai tempi ancora più intrigante in quanto gli artisti erano spiriti molto più maudit e misteriosi di adesso, dove ormai la trasgressione non accompagnata da talento alcuno è alla portata di chiunque.

Dopo tutta questa introduzione, nella quale in pratica un pittore fa amicizia con una strana donna, affascinante e imperscrutabile, amica che poi sembra preferire alla sua compagnia quella di un gentiluomo di colore (anche questo amore interrazziale adombrato più volte è un elemento abbastanza forte, che certo non poteva essere proposto nei primi libri) e a un certo punto la donna sparisce nel nulla. Dopo questa premessa, la storia poliziesca prende lentamente forma fino ad arrivare, con un poco di fatica e parecchi tempi morti, a una verità scioccante, addirittura perturbante, che ai tempi non avrà mancato di stupire e magari agitare il sonno di qualche benpensante.

Romanzo verboso, disilluso, con un mistero macchinoso e non sempre avvincente, abbastanza cupo pur nell’atmosfera svagata e conviviale della prima parte, “The Jacob Street Mystery” va preso come il lavoro senile di una persona che era anche troppo cosciente dei tempi irrimediabilmente cambiati, e volesse intraprendere un nuovo percorso creativo, una nuova espressività, una piccola rivoluzione che la morte ha giocoforza interrotto. Un Freeman, come detto,  comunque affascinante e da leggere,  ma per ultimo, prima godetevi i capolavori degli anni dieci e dei primi anni venti, il periodo in cui Freeman era forse il miglior giallista in circolazione, un perfetto ponte tra Doyle e Chesterton e Van Dine e la Christie.

 

lunedì 1 settembre 2014

GLI APOCRIFI DI SHERLOCK HOLMES, TRA FREUD E SALE EGIZIE.


 

Finite le vacanze estive, rieccoci gagliardi sul blog!
 
Ricominciamo la "stagione" con una bella novità; come molti di voi già sapranno, da questo mese il Giallo Mondadori proporrà una nuova collana a cadenza  mensile dedicata agli apocrifi di Sherlock Holmes, ossia tutti quegli innumerevoli ( e in continuo proliferare, visto il gran momento che sta godendo il personaggio tra film e serie tv) romanzi dove agisce il grande detective col fido Watson che ovviamente non sono stati scritti da Conan Doyle. Come sappiamo, il “canone” originario comprende 4 romanzi brevi e 56 racconti, usciti tra il 1886 e il 1928,  mentre gli apocrifi non si contano. L’iniziativa Mondadoriana mi da piacere a prescindere, ben venga qualcosa di nuovo nel panorama attualmente abbastanza asfittico della collana, e sicuramente proverò a seguirla almeno inizialmente.

Ora, non so cosa ne pensasse lo stesso Doyle del fatto che il suo personaggio potesse essere sfruttato fino al secolo ventunesimo e oltre, fatto sta che gli apocrifi iniziarono grazie al suo stesso figlio Adrian, che pubblicò due raccolte di racconti brevi molto vicini allo spirito delle opere del padre anche se qualitativamente altalenanti, pubblicate in Italia coi titoli “Le imprese di Sherlock Holmes “ e “Nuove imprese di Sherlock Holmes”; la seconda raccolta, scritta in collaborazione nientemeno che con John Dickson Carr, presenta alcuni pezzi davvero pregevoli, su tutti “I giocatori di cera”, più bello di molti racconti del canone stesso.

Un bell’omaggio a SH lo abbiamo anche dal duo Lee- Dannay alias Ellery Queen, che in un loro tardo romanzo, “Uno studio in nero”, contrappongono Holmes nientemeno che a Jack lo Squartatore, cosa fatta anche da Michael Dibdin in un altro apocrifo riuscito, “L’ultima avventura di Sherlock Holmes”; c’è da divertirsi nel leggerli entrambi e confrontare le due soluzioni proposte.

L’apocrifo forse più noto e di maggior livello artistico è “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, che rilegge in chiave moderna e psicanalitica (SH incontra Freud) alcune peculiarità della personalità Holmesiana, come la dipendenza da cocaina e il rapporto ambivalente verso Moriarty. In questo libro comunque importante lo spirito di Conan Doyle, scrittore piuttosto superficiale e diretto, viene giocoforza meno, e per questo non sono mai riuscito ad amare questo testo, ma devo ammettere una cosa; fino a pochi anni fa ero un Conandoyliano “integralista” e la sola idea di apocrifo mi infastidiva e avviliva, ma ora mi sono molto ammorbidito (l’età portà duttilità mentale) e se un apocrifo lo trovo divertente lo leggo con piacere e senza pregiudizi.

Ecco, però è anche giusto fare una netta distinzione tra gli apocrifi stessi, visto che ce ne sono fondalmentalmente di due tipi,

 

1-        Quelli che seguono in modo più o meno pedissequo lo stile e le atmosfere di Doyle, tanto che se l’autore è bravo si riescono a prendere per originali,  oppure

 2 - I “Pastiches”, che vedono SH in situazioni altamente improponibili come lottare contro Hitler (Doyle morì nel 1930, mentre il futuro fuhrer era ancora un oscuro giovane esaltato) contro spie atomiche,oppure approdare in America; o anche lavorare a fianco di personaggi famosi più o meno noti, da Virginia Woolf a Churchill agli Zar Romanoff.

 Insomma, di queste due tipologie sarò sempre portato a preferire la prima, perché posso accettare una penna diversa da quella di Doyle ma non un personaggio diverso da Sherlock Holmes, lui almeno dovrebbe restare unico e fedele a se stesso, e non potrei mai leggere di lui che ride, fa all’amore o va in vacanza al mare.

Tra i non molti che ho letto, il mio apocrifo “Ideale” finora è “Sherlock Holmes e il mistero della sala egizia” di Val Andrews, un romanzo breve edito prima dal Minotauro e poi dalla Fabbri nella bellissima collana dedicata a Holmes e Doyle (Con le proposte sia del canone che degli apocrifi, oltre di altre opere di Doyle fuori da SH)  del 2005.

Ambientato nella Londra vittoriana di Doyle splendidamente resa dall’autore, qui abbiamo un bel mistero che si svolge perlopiù in un piccolo teatro dedicato alla prestidigitazione e alla magia (la sala egizia del titolo), i cui numeri vengono descritti con dovizia di particolari, divertendo assai il lettore. In questa sala viene ucciso un prestigiatore dal passato misterioso e dalla condotta non irreprensibile, e Holmes troverà pane per i suoi denti. Dello spirito di Doyle non manca nulla, dalle schermaglie con un Watson in gran forma, le proverbiali deduzioni e una soluzione che più che a Doyle si rifà a un capolavoro Carriano, ma che comunque risulta impeccabile nella sua semplicità.
Insomma, questi sono gli apocrifi che vorrei e che comprerò, dei pastiches credo di poterne fare a meno. Ma in ogni caso vi invito a seguire la nuova iniziativa Mondadori, perché parrebbe una collana che potrebbe accontentare tutti. Il primo volume si intitola  "Sherlock Holmes e il diario segreto di Watson", già pubblicato nel 2012 da Delos Book.
QUesta la copertina


COme sarà? lo scopriremo solo vivendo, anzi leggendo.