martedì 26 gennaio 2016

"IL CAPPELLO DEL PRETE" DI EMILIO DE MARCHI.

Siccome a marzo mi recherò finalmente a Napoli, città nella quale alla bella età di 33 anni non sono ancora mai stato, mi sono ricordato di questo libro del Milanese Emilio de Marchi, indicato da molti come un proto-giallo. Lo avevo comprato tempo fa, ma sinceramente avevo paura di un feuilleton un poco pesante, o comunque molto datato, ma che invece è risultata una delle letture più piacevoli degli ultimi mesi.
SI diceva di De marchi, del quale anni fa ho amato "Demetrio Pianelli", uno dei romanzi più belli e delicati mai scritti, e sinceramente non lo credevo capace di scrivere un romanzo Napoletano credibile; ma, come per il De Andrè di Don Raffaè, a volte accade che un "forestiero" senza troppi pregiudizi sappia capire una città alla perfezione, e regalarci quello che rimane un gioiello assoluto della narrativa Italiana.
E poi, davvero, questo romanzo giovanile concepito come una "rispostina" nostrana a Delitto e castigo, è un grande thriller; non un giallo a enigma, ma piuttosto una perfetta inverted story, ossia il sottogenere tanto caro a Hitchcock in cui si sa chi ha commesso il delitto ma del quale poi si segue con palpitazione le vicende, per vedere come verrà, o non verrà, smascherato.


Il libro è disponibile in varie edizioni, di cui la più comune è questa Rizzoli.


Siamo nel 1888, anno in cui la inverted story è ignota anche a coloro che pretendono di averla inventata ( i soliti anglosassoni, NDR), e De Marchi ha l'intuizione geniale di ambientare il suo thriller nella città già al tempo più affascinante e misteriosa d'Italia, che nell'età postrisorgimentale doveva avere un fascino addirittura esotico; una Napoli di maniera, certo, ripresa pari pari dai romanzi di Mastriani (I misteri di Napoli, La cieca di Sorrento, La sepolta viva) ma certamente efficace e funzionale alla storia narrata.
La trama è molto semplice; il dissoluto Barone Carlo Coriolano di Santafusca, bell'uomo di mezza età ormai ridotto senza il becco di un quattrino, raggira e uccide barbaramente u'prevete Don Cirillo, un prete usuraio e colluso con la camorra (si, esisteva già) che nella città ha fama di negromante, in quanto regala i numeri del lotto con straordinaria precisione. Dopo averlo ucciso e derubato di una notevole somma, il Barone ne occulta il corpo nella sua fatiscente villa fuori Napoli, ma si dimentica il cappello di Don Cirillo, voltato lontano durante la colluttazione. Sarà proprio questo cappello, in una girandola di trovate narrative straordinarie, a spuntare e rispuntare fuori inopitamente, finendo per inchiodare il diabolico nobilastro alle sue colpe.

Si è parlato di epigono di Delitto e castigo, ma a mio avviso il paragone non ci sta; nel capolavoro di Dostoevskij Raskolnikov cade in un delirio causato dai sensi di colpa, mentre il Barone di Santafusca non ha il minimo senso di colpa, spende e spande il denaro rubato, corteggia donne e fa la bella vita; il castigo poi avviene attraverso vie quasi magiche, che hanno senso solo in una cornice Napoletana, come se il prete dall'aldilà tramasse per inchiodare il suo assassino; in ogni caso nessun ricorso dichiarato al soprannaturale, anzi, quasi un ballo scatenato nel gioco assurdo e bizzarro del caso, nelle coincidenze nemmeno troppo improbabili.
Solo il finale, forse, inceppa un poco il perfetto meccanismo thrilling, in quanto il colpevole più che essere smascherato dalla giustizia si tradisce da solo, dopo un collasso nervoso, ci fosse stata una trovata prettamente poliziesca in più sarebbe stato un romanzo perfetto.
Ma anche così, il romanzo resta una vera gemma del poliziesco Italiano, un libro divertente e godibilissimo e sapidamente Napoletano; mi divertirò, quando sarò in loco, a risalire Via Toledo in cerca del fosco Barone di Santafusca, u'prevete Don Cirillo, Filippino il cappellaio con la sua Chiarina, il Cavalier Martellini (che ricopre il ruolo del detective) e tanti altri personaggi del romanzo; chissà, forse li intravedrò veramente, tutto è possibile in una città magica...

giovedì 21 gennaio 2016

TUTTO IL 2016 DEL GIALLO MONDADORI.

Fino a pochi giorni fa, uno dei momenti migliori di inizio mese era quello in cui, vedendo in edicola il nuovo giallo ancora fresco di stampa, andavo a spulciare con aria furtiva i titoli del mese successivo; questo rituale però è destinato a cessare almeno per il 2016, in quanto l'editor della collana Franco Forte ha pubblicato un post nel quale vengono svelate tutte le 36 uscite di quest'anno.

Tra il serio e il faceto, sul blog del GM ho ironizzato sul fatto che abbiano pubblicato il post per tacitare noialtri appassionati che ogni mese si auguravano un autore o un titolo che avrebbero voluto rivedere in edicola; ma non è che scherzassi poi molto, visto che alla redazione non parrà vero di non leggere più commenti come "Pubblicherete i Francesi classici?" "E Halter?" "E il mostro del plenilunio in una nuova traduzione?" ma sinceramente a me dispiace, era un modo per aggregarsi, per socializzare, per parlare di gialli.

Vabbè, in ogni caso la lista esiste, ormai il dado è tratto, quindi non resta che fare una veloce valutazione del materiale che ci attende nei prossimi mesi,

SI profila un'annata nel complesso buona, sulla falsariga della precedente; pochi lampi di luce, ma nemmeno zone d'ombra. Si sperimenta poco, pubblicando tutti autori già noti, serie già avviate (a parte una) e anche i classici, a parte la perla del Freeman inedito, puntano su titoli ben collaudati, già proposti fino allo sfinimento (qualcuno sentiva il bisogno di un'ennesimissima ristampa de "La strana morte del signor Benson" ?) ma certamente di grande qualità, rivolti più che altro ai lettori giovani che seguono da poco la collana.

Dunque, la collana del giallo inedito (Per tutti i titoli in dettaglio , vedere l'editoriale sul blog del GM "Il giallo che verrà" di questo mese) presenterà soprattutto autori Anglosassoni di grande fama (Anne Perry, Ruth Rendell, Bill Pronzini, Rhys Bowen, Tessa Harris, Maureen Jennings) altri che conosceremo a partire da quest'anno (Hamrick ed Edwards) e anche ben 4 libri di autori Italiani, con Andrea Franco, Anna Maria Fassio, RIno Cammilleri e il consueto premio Tedeschi di Ottobre. Per chi ama il giallo classico, la perla di Agosto è un altro inedito di Ngaio Marsh, "Tied up in tinsel".
Insomma, direi che ci possiamo ampiamente stare, anche se il Rendell che pubblicheranno, "End in tears" non è affatto un inedito.
Si nota come si pubblichino soprattutto libri di autrici donne, ma questo vuol sire solo che attualmente il genere è meglio rappresentato dall'altra metà del cielo; viva la meritocrazia. Bene anche la corposa presenza di autori Italiani (in una collana, come si sa, da sempre Anglofila) ai quali auguro molta fortuna.
Rimpianti? beh, si , volendosi lamentare, a me un nuovo Paul Halter a 2 anni dall'ultimo e un altro Lovesey non sarebbero dispiaciuti affatto, così come negli Italiani avrei visto parecchio volentieri un altro romanzo di Cristiana Astori o di Stefano de Marino (evidentemente non ne hanno scritti di nuovi...peccato, datevi da fare, vi rivogliamo sui GM!!)

I classici presentano, come detto, autori stra-noti; Le prime due uscite pescano autori molto classici come Wallace e Helen Reilly, ma come già detto in precedenza temo che dei loro romanzi siano presentate versioni ampiamente rimaneggiate. Poi abbiamo Stout, Queen, il bellissimo "Una croce era il segnale" di Carr, Gardner (uno solo, per chi temeva troppi titoli di questo autore, tra l'altro anche abbastanza raro) poi una raccolta di racconti di Woolrich, un Charlotte Armstrong apparso nei gialli Garzanti, e un Chase. Per chi scrive, le usicte migliori assieme al Carr sono il meraviglioso "Occhi nel buio" di Margaret Millar e soprattutto l'inedito di Austin Freeman “Dr. Thorndyke Intervenes”, a un anno esatto da "La statuetta di terracotta". Molto bene. E un'altra perla; il giallo Oro estivo presenta "Grido di morte" di Fredric Brown, da prendere al volo.

Lo dico? per chi ancora non li ha, quest'annata dei classici è assolutamente ESALTANTE, un neofita farebbe bene, specialmente da Marzo in poi, a prenderli tutti.

Un poco sottotono, a mio avviso, sono i tre speciali, che pubblicano materiale a mio avviso non imprescindibile, a parte "Gorgo fatale" sempre di Fredric Brown, un racconto di Francis Iles (ovvero Anthony Berkeley) e "Venerdi nero" di David Goodis.

Anche l'annata degli Sherlock è buona; si prosegue a pubblicare gli autori più apprezzati lo scorso anno come David Stuart Davies, (davvero il migliore per trame e aderenza allo stile di Doyle) la giovane Amy Thomas e Kieran Macmullen (con due titoli per ciascuno) e alcune new entry. Interessante in dicembre, a cura di Luigi Pachì, la raccolta di racconti "Sherlock Holmes in Italia" vedremo cosa ne verrà fuori.

Insomma, mi azzardo a dire che questo 2016, che molti dicono un anno di ripresa su molti fronti (speriamo) lo sarà anche per la nostra amata collana dei Gialli Mondadori, grazie a una gestione attenta che guarda ovviamente al grande pubblico ma senza scordarsi di appassionati e intenditori. E tenete a mente una cosa; se leggete un Freeman o un Marsh inedito, lo dovete agli introiti di una Perry o di una Rendell o di una Bowen, ovvero al giallo contemporaneo "di massa" tanto snobbato da alcuni, ma che tiene in vita la collana.

venerdì 15 gennaio 2016

"SHERLOCK - THE ABOMINABLE BRIDE" FILM BBC 2016



Ormai si può dire che la serie Inglese Sherlock, uno dei prodotti sicuramente più innovativi e intelligenti degli ultimi anni, sia famosa a livello planetario, con schiere di fan ovunque e un gran seguito anche tra i puristi di Conan Doyle, che, pur essendo la serie ambientata in epoca contemporanea, apprezzano molto i continui rimandi al canone originario. Gli interpreti principali, gli eccezionali Benedict Cumberbatch e Martin Freeman sono ormai due divi, e ogni nuova puntata scritta da Steven Moffatt e Mark Gatiss (che interpreta anche Mycroft Holmes) un evento mediatico.

Non fa eccezione questo ultimo "The abominable bride" trasmesso la sera di capodanno dalla BBC e da noi addirittura al cinema (ma solo per due giorni, il 12 e il 13) tanto per ribadire il successo della serie. Io me lo sono visto ieri sera e mi è piaciuto...in parte.



Ora, metto una cosa in chiaro; seguo questa serie fin dal suo esordio e mi è piaciuta a tratti moltissimo, ma non ne sono certo un fan incondizionato. Dei dieci episodi usciti fino ad adesso (3 stagioni da tre episodi l'uno, che sembrano pochi ma bisogna tener conto che sono tutti lungometraggi di novanta minuti) ho trovato eccellenti il primo, il terzo, il quarto "Uno scandalo a Belgravia" con l'introduzione del personaggio di Irene Adler (un vero capolavoro) e il sesto; tutta la terza stagione, a parte alcune spassose scene nel primo episodio (Sherlock "redivivo" e le reazioni di Watson, le varie teorie su come si sia salvato dalla caduta che equivale a quella nelle cascate del Reichenbach, etc), mi è risultata abbastanza stucchevole, in pratica si sono alzati i toni e lo Sherlock della BBC, che voleva essere una risposta intelligente e un filo sostenuta ai pop-corn movie fracassoni e molto infedeli al canone diretti da Guy Ritchie con Robert Downey Jr. (che comunque non riesco ad odiare, delle simpatiche cavolatone)  è diventato ancora più improbabile e spericolato, finendo, proprio per questo reiterato voler stupire ad oltranza, per annoiare lo spettatore.

La sposa abominevole del titolo.


Questo ultimo lavoro prosegue certamente questa falsariga, ma si distingue per l'ambientazione, ovvero una "variante in epoca vittoriana" con una prima parte che è una vera gioia per noi Conandoyliani, in quanto si ripropone con una fedeltà quasi assoluta l'incontro tra Holmes e Watson come è narrato in "Uno studio in rosso", con tanto di personaggi della serie contemporanea truccati in modo da somigliare agli originali (Compreso Gatiss con uno spassoso make-up che lo rende molto grasso come il vero Mycroft del canone), con rimandi azzeccati e intelligenti al mondo meraviglioso creato da Doyle e mille altre cosette sfiziose che rendono la prima parte del film assolutamente memorabile. Anche l'enigma della "Sposa abominevole" una donna che dopo essersi suicidata torna dall'oltretomba per uccidere il marito, è molto affascinante e la sua soluzione per niente scontata; insomma, tutta la parte in epoca Vittoriana ammetto di averla adorata.
Ma ovviamente, trattandosi dello Sherlock targato BBC, fare "solo" un ottimo film alternativo alla solita serie pareva brutto, e allora ecco che si inizia ad incasinare il tutto; nell'ultima mezz'ora si salta dall'ottocento al presente (ovvero da dove si  interrotta la terza stagione), poi di nuovo nell'ottocento, poi ancora presente, non si sa mai quando i fatti narrati sono attendibili o solo fantasie di Sherlock, si ripropone un po' pretestuosamente il Moriarty dell'insopportabile  Andrew Scott come eterna nemesi di Sherlock (l'avevamo già vista in precedenza..) e quindi il finale è un gran casino, che apre le porte alla quarta stagione con estrema furbizia ma sciupa irrimediabilmente un film "ottocentesco" che per un'ora buona era filato alla grande e liscio come l'olio, e meritava di serbare una sua autonomia diventando così un cult alternativo.

Mi aspetto, con questo, che molti di voi non concordino con me, ma io sono uno spettatore abbastanza "limitato", in quanto mi piacciono si le cose contorte ma fino a un certo punto, e forse non so capire fino in fondo l'universo creato da Moffatt e Gatiss; per me questa serie sta sconfinando sempre più pericolosamente nell'autorialità snob e fine a se stessa tipica di quando si ha ormai poco da dire e per destare l'interesse si deve ricorrere agli effetti speciali per strappare "oh" esterrefatti allo spettatore in barba a ogni logica e verosimiglianza (oltre che di aderenza al canone, vessillo della serie fin dal suo apparire), ma spero di sbagliarmi.

domenica 10 gennaio 2016

SU "CAROL" DI PATRICIA HIGHSMITH, E IL FILM OMONIMO DI TODD HAYNES.


Uno dei titoli più giustamente attesi per questo periodo era il grande ritorno al cinema di Todd Haynes, forse il regista contemporaneo che più si ispira, sempre con grande raffinatezza, al cinema classico.

Infatti, dopo il bellissimo “Lontano dal paradiso” dove omaggiava il melò alla Douglas Sirk, il biopic Dylaniano “Io non sono qui” e l’eccellente miniserie “Mildred Pearce” tratta dal romanzo di James Cain con una ottima Kate Winslet sulle orme di Joan Crawford, Haynes ha deciso di portare sullo schermo un libro non solo leggendario per la comunità LGBT, ma un vero grande romanzo Americano del novecento, ovvero “Carol” romanzo giovanile della già grande Patricia Highsmith, per chi scrive uno dei pochissimi libri per capire fino in fondo l’America del secondo dopoguerra.
 
La giovane Highsmith
 

La ruspante young-lady Patricia mise tutta se stessa in questo romanzo semiautobiografico, uno dei suoi pochissimi scritti non di genere Thriller, anche se a ben vedere l’elemento che genera autentico suspense, il “MacGuffin” per dirla alla Hitchcock, è ben presente, ovvero “Riusciranno due donne ad amarsi e vivere felici nell’America bigotta e perbenista sull’orlo del Maccartismo?” se ci si immedesima un filo con le protagoniste, la lettura è da cuore in gola quanto quella di “Sconosciuti in treno” (L’altro mio Highsmith preferito) o “Vicolo cieco”.
 
 
Dicevamo, storia autobiografica almeno nella parte iniziale,  in quanto la Highsmith, come la protagonista Therese, da giovanissima lavorò per un periodo come  commessa ai grandi magazzini, dove l’incontro fortuito con un’affascinante signora le ispirò la trama del romanzo.

E il libro inizia proprio così, quasi in sordina, con la giovane e delicata diciannovenne Therese che percorre i primi passi nel mondo degli adulti collaborando ai grandi magazzini Frankenberg (microcosmo questo rievocato in maniera sublime, una vera testimonianza d’epoca). Il romanzo segue la sua vita ordinaria tra incontri con colleghe invecchiate e incolori, flirt indecisi, sogni e incertezze; tutta la bellezza, la poesia e la difficoltà di quell’età solo apparentemente dorata.

L’incontro casuale con Carol Aird, donna affascinante ma che potrebbe  essere sua madre, già esperta delle cose della vita e sicura di se, apre alla giovane Therese nuovi orizzonti, non ultimo quello del grande amore; con Carol, attraverso numerose prove tra cui la persecuzione del di lei marito, Therese troverà il coraggio di ammettere con se stessa il proprio orientamento sessuale, e soprattutto il coraggio di viverlo contro tutto e tutti.

Raccontata così, sembra una storia semplice da filmare, ma invece c’è voluta tutta la bravura di Haynes per riuscire a realizzare un prodotto che, pur non essendo compiuto come il libro, riesce tuttavia a renderlo ottimamente nell’unico modo possibile; girarlo come fosse un film del 1949, presentando persone e situazioni verosimili per quel periodo, senza concessioni all’attualità; il pregiudizio è reso alla perfezione, i vari caratteri non sono addolciti da una visione più “contemporanea”, nessuno viene troppo demonizzato o troppo santificato (il difetto di praticamente tutti i romanzi/film a tematica gay; i protagonisti sono poveri martiri e gli antagonisti biechi come villains da feuilleton; diciamo che la vita vera è fatta di grigi più che di bianchi e neri, e questo la Highsmith, che pur viveva sulla propria pelle le difficoltà di essere “diversa” in un mondo dove la normalità era una religione, lo sapeva benissimo).
 
l'incontro
 
E come un film del 1949 è realizzato anche tecnicamente, a partire dallo splendido omaggio iniziale a “Breve incontro” di David Lean, con la leggendaria  mano che preme sulla spalla come doloroso saluto di commiato. Erano anni che non vedevo movimenti di macchina così sinuosi, studiati e volutamente artificiosi (Le due protagoniste sono “amate” dalla cinepresa come accadeva alle dive di una volta) e anche la scena di sesso è resa in maniera molto raffinata e Hitchcockiana (tutt’altro spessore rispetto  alla sequenza urlata e semipornografica de “La vita di Adele”) e si sposa perfettamente col tono della pellicola.

Le due attrici forniscono una prova semplicemente strepitosa: ormai Cate Blanchett è aldilà di ogni conferma, quindi la vera sorpresa è Rooney Mara, assolutamente incantevole e che attraversa tutto il film come un aquilone cullato dal vento.
 
Rooney Mara
 

Se proprio si vuole trovare un difetto all’opera cinematografica, perlomeno rispetto al romanzo, è il minore spessore del personaggio di Therese; nel libro è lei la vera protagonista e la sua vita viene descritta molto dettagliatamente prima dell’incontro con Carol, mentre nel film esso avviene qausi subito. Ma sono dettagli, perché davvero se tutti i film fossero come questo di Haynes il cinema rivivrebbe una seconda epoca d’oro.

Per cui, un consiglio per i prossimi giorni; prima leggetevi con calma il romanzo (è lungo più o meno quanto un normale giallo) e poi andate a vedere il film; chiunque ama il cinema e la letteratura non potrà che rimanerne soddisfatto.

venerdì 8 gennaio 2016

I GIALLI MONDADORI DI GENNAIO 2016.


Anno nuovo, vecchi GM, nel bene e nel male.

Le uscite interessanti non mancano, o meglio, non mancherebbero, se non si fosse sempre alle prese coi soliti annosi, vecchissimi problemi.

Vabbè, cominciamo dalle note liete. Il Giallo inedito presenta un'opera di un autore Italiano, Andrea Franco, che già aveva esordito con successo  nel 2013 con il romanzo "L'odore del peccato", che inaugurava la curiosa serie del prelato-investigatore Monsignor Verzi, dal fiuto infallibile (letteralmente). Anche in questo secondo titolo con Verzi, l'"Odore dell'inganno", ci si muove col religioso nella misteriosa e affascinante Roma ottocentesca; come nel recente (e molto lodato) "La collera di Napoli" di Diego Lama, siamo quindi in pieno secolo diciannovesimo, e da ciò ci si rende conto di come il giallo storico sia un sottogenere che non conosce momenti di stanca ormai da parecchi anni.





Purtroppo questo blog si occupa quasi solamente di gialli d'antan e non è in grado di dare un giudizio obiettivo su questi titoli (anche se questo romanzo di Franco, a leggerne la trama, sembra davvero interessante) mi limito solo a fare una scommessa "al buio"; vogliamo infatti scommettere che questi giovani autori nostrani, se vogliono, in fatto di thriller possono fare meglio degli ormai inflazionatissimi Svedesi o dei vecchi ronzini d'oltreoceano? Speriamo che il pubblico Italiano dia fiducia ai suoi conterranei, che si affranchi dall'anglofilia esasperata che dal dopoguerra affligge la letteratura poliziesca nel nostro paese. Io questo lo prendo, come ho preso il romanzo di Diego Lama e quello di Stefano de Marino, e spero di riuscire a leggerlo entro questa era geologica. Nel frattempo, un grosso in bocca al lupo all'autore.

Lo Sherlock del mese invece è scritto a quattro mani; "SH e gli omicidi del boia" vede infatti la collaborazione di Kieran McMullen, già in edicola il mese scorso, con Dan Andriacco. Anche questo titolo sembra piuttosto carino, meno spionaggio e più giallo classico. E a quanto pare c'è il giovane Alfred Hitchcock tra i personaggi, mi attira solo per quello, lo ammetto.

E adesso veniamo alla nota dolente. Che in teoria non doveva essere la nota dolente, ma l'evento del mese; infatti "La grande idea" di Edgar Wallace, uscito per la prima volta nella collezione dei libri gialli nel  1931, è uno dei suoi libri meno noti e per chi scrive più belli (non un giallo classico, ma una di quelle grandi avventure barocche con dottori pazzi, sette segrete, ragazze in pericolo, inseguimenti e chi più ne ha più ne metta)  viene riproposto dopo decenni in una versione ampiamente rimaneggiata, non quella originaria del 1931 ma quella ristampata (negli anni cinquanta) nella famigerata collana dei  capolavori, sforbiciata senza pietà per farla rientrare in un certo numero di pagine, stravolgendo inevitabilmente il testo.

Il confronto dei due testi è impietoso; l'edizione 1931, libro alla mano, presenta un testo di trecento pagine con caratteri piuttosto piccoli, e il testo è elegantemente diviso in capitoli; il libro in edicola questo mese di pagine ne ha 173, non riporta il nome del traduttore (viziaccio già della collana dei capolavori, ripresentare i testi senza credits) mentre la Palmina ci dice che il testo è tradotto da Marcella Pavolini Hannau, e ovviamente manca la suddivisione in capitoli. Ora, io non so cosa possa rimanere di un'avventura che per funzionare ha bisogno di tutti gli ingredienti, probabilmente la versione in edicola sarà un condensato pastrocchio che scontenterà il pubblico che ci capirà poco o nulla e se la prenderà per questo col povero, incolpevole Wallace. Volete un consiglio? recuperate questa opera nella versione Garden o Newton, che porta il titolo "Il segno del potere" (Il titolo originale del romanzo è The hand of Power) perlomeno è una traduzione ex-novo e penso proprio integrale.

Niente da fare, fino a che i classici del giallo continueranno a proporre testi già precedentemente maltrattati e rimaneggiati, rimarrà una collana che scontenta i collezionisti e delude i lettori occasionali. E mi dispiace molto dire questo, perchè amo i GM di un amore viscerale, ma in ogni caso non cieco.

E il mese prossimo viene presentata un'altra interessantissima vecchia Palmina, "Il segreto del milionario" di Helen Reilly; ne sarei stato entusiasta, ma credo proprio che anche questo sarà ripreso dai capolavori, quindi rimaneggiato, quindi arrivederci e grazie e aspetto di mettere le mani sul testo anni trenta. naturalmente incrociamo le dita, sperando di essere smentiti...





sabato 2 gennaio 2016

"AND THEN THERE WERE NONE" LA MINISERIE BBC TRATTA DA "DIECI PICCOLI INDIANI" DI AGATHA CHRISTIE.


Erano parecchi anni che del capolavoro di Dame Agatha auspicavo una riduzione cinematografica nella quale veniva proposto il finale originale del romanzo, anziché  quello edulcorato e semi-lieto della versione teatrale; più che altro mi auguravo, oltre a quello, anche una versione fedele e letterale del testo, visto che nelle quattro precedenti occasioni  (Molto bello il film del 1945 di Rene Clair, grazioso quello del 1965 con la gold-girl Shirley Eaton, barbosetto quello degli anni settanta, terribile quello del 1989) si era svariato anche nelle ambientazioni; tranne che per il superclassico di Clair, la seconda versione era ambientata sulle Alpi Svizzere, la terza in Persia (!) e la quarta addirittura nell’Africa nera (!!!), un gran guazzabuglio che non ha fatto altro che disperdere lo spirito dell’opera originaria. Dulcis in fundo, mi auguravo che questa sospirata riduzione coi controfiocchi venisse realizzata non a Hollywood ma in Inghilterra, dove le opere della Christie vengono sceneggiate (quasi) sempre con  competenza e aderenza al testo, rispettando l’autrice fino in fondo.
 
I dieci protagonisti.
 

Ed ecco che nei giorni scorsi, vero miracolo natalizio, sono stato accontentato; è stata realizzata dalla BBC una riduzione FEDELE con il FINALE DEL ROMANZO, in tre comode puntate da un’oretta  l’una, così da riproporre il romanzo sequenza per sequenza. Una volta in mio possesso i sottotitoli Italiani realizzati da quegli angeli di Subsfactory (grazie ragazzi, di cuore), me lo sono visto tutto d’un colpo.

Dunque, che dire? Un mezzo sogno che si realizza da una parte, e una mezza occasione sprecata dall’altra.

La storia è notissima, ma l’accenno comunque per coloro che non la conoscono (ma esistono?); Dieci persone, ognuna colpevole di un qualche reato ma scampata alla legge, vengono radunate con uno stratagemma in un’isola, dove qualcuno li vuole morti e cerca di ucciderli uno ad uno, rispettando una macabra filastrocca di dieci piccoli indiani che fanno determinate cose e ogni volta uno di loro muore o resta indietro, finchè ne resta solo uno.

Bene, ora analizziamo la miniserie (OCCHIO, POSSIBILI MINI-SPOILER!!);
 
 Partiamo, come sempre, dai pregi, che sono comunque molti;u na buonissima regia per nulla televisiva, ambientazione e location perfette, e un cast di attori splendidi e davvero ben assortito (Seppur qualche personaggio risulti stravolto; Il Generale MacArthur nel romanzo è un vecchio rudere, e anche se Sam Neill non risulta più un giovincello non può certo definirsi tale, e anche Lombard è un filino troppo giovane e bello) con il veterano Charles Dance nella parte del giudice Wargrave, Toby Stephens in quella del dottor Armostrog, Anna Maxwell Martin (la dolcissima Esther di Bleak house, decisamente invecchiata ma sempre bravissima) che impersona un’inquietante e spaurita Mrs Rogers, Miranda Richardson che rende al meglio l’odiosa bigotta Emily Brent, e la bellissima e  sensuale Maeve Dermody Nella parte di colei che anche nel romanzo è il personaggio più significativo, quella Vera Claythorne sempre in bilico tra vittima spaurita e terribile carnefice (visto che le si imputa addirittura un presunto infanticidio); insomma, ottimi attori British e Americani, perlopiù caratteristi all’ombra dei divi ma spesso più bravi di questi ultimi (Ma cosa sarebbe il cinema senza i caratteristi?...).
 
Gli inquietanti coniugi Rogers.
 

Il romanzo, a parte qualche  significativa licenza della quale parleremo nel capitolo “difetti”, è seguito assai fedelmente, la sceneggiatura è molto ben calibrata e la suspense non viene mai meno fino all’ultima scena; impossibile smettere di vederlo una volta iniziato.

Insomma, questi gli innegabili meriti di una versione che si può senz’altro considerare come quella definitiva, ogni altra riduzione di Dieci piccoli indiani sarebbe veramente pleonastica, e potrebbe solo far peggio. Perché, allora, prima ho parlato di mezza occasione sprecata? perché vi sono delle magagne vistose, dei difetti che era facilissimo evitare semplicemente  restando fedeli al testo così com’era.

Vediamo con ordine queste pecche;

-Innanzitutto il fastidiosissimo politically correct, con “Nigger Island” che diventa “Soldier Island”, ossia isola dei soldati; di conseguenza, anche la filastrocca dei Dieci piccoli “negretti”  diventa quella di dieci piccoli soldatini, risultando stravolta; che noia.

-Come detto, qualche personaggio è troppo giovane, e nel caso di Lombard troppo aitante, ma questo forse per

-Creare una sorta di love-story malata con l’altrettanto irresistibile Vera, cosa che nel romanzo non avviene proprio (mentre nella versione teatrale sarà proprio l’attrazione tra i due a mandare parzialmente all’aria i piani dell’omicida) e della quale non si sentiva il bisogno se non per mostrare al pubblico addominali scolpiti e curve provocanti.
 
 
Maeve Dermody e Aidan Turner (Lombard)
 
 

-Come al solito, il tema dell’omosessualità (una vera e propria ossessione degli sceneggiatori anglosassoni) viene utilizzato in modo gratuito e fuori luogo; nel romanzo, Emily Brent è solo una puritana inflessibile, non risulta affatto che provasse sentimenti per la sua protetta che scaccia di casa perché incinta (spingendola così al suicidio) così come Blore massacra di botte un sospetto, non un giovane guardone omosessuale; certamente è sempre un bene denunciare un crimine odioso come questo, ma si tratta di una riduzione da Agatha Christie, non da Spillane o McBain, e la cosa appare davvero una forzatura. Ma questi sono peccati veniali, mentre non si può proprio perdonare

-La scena dell’orgia a base di alcool e cocaina di alcuni tra gli ultimi superstiti, una  scena davvero ridicola e puerile che la Christie non si sarebbe nemmeno sognata, tre minuti di follia buttati li per “attualizzare il testo” ma che sono invece un saggio di comicità involontaria.

-In ultimo, il finale appare si molto fedele e inquietante nel modo giusto, ma ci sono troppe cose non spiegate; nel romanzo, la Christie ci dice come l’omicida sia arrivato a conoscere i segreti di ciascuna vittima, cosa tralasciata nella miniserie, così come non viene fornita una spiegazione per l’assenza prolungata del barcaiolo; certo, cose non trascendentali, ma se i tre minuti dell’insulso festino fossero stati invece impiegati per qualche spiegazione in più, non ce ne saremmo avuti a male; non tutti, nemmeno nel Regno Unito, hanno letto il libro.

Insomma, tirando le somme abbiamo un prodotto molto buono, ma che con un poco più di accortezza nel mantenere intatto il mondo di Agatha e soprattutto di fiducia nello spettatore medio (che di fronte a una storia così bella avrebbe fatto tranquillamente a meno di love story passionali o altro) ci poteva davvero scappare il capolavoro assoluto.

Spero, in ogni caso, che passi anche sulle nostre reti, in quanto credo sia il classico TV-movie destinato al successo ovunque.