martedì 27 maggio 2014

"MAIGRET NELLA CASA DEI FIAMMINGHI" DI GEORGES SIMENON

Come ogni cultore Simenoniano sa, il ciclo dei romanzi con Maigret si divide in due tronconi; il primo che va dal 1930 al 1933, quando il giovane, prodigioso Simenon riusciva a sfornare anche cinque libri in un anno (ovviamente alternandoli ai roman-roman) fino a quando se ne stufò; ma non aveva, come altri prima di lui, fatto i conti col pubblico, che di Maigret ne voleva ancora, eccome; il pragmatico Belga non fu perentorio come Conan Doyle, niente discese nelle cascate del Reichenbach e successiva clamorosa resurrezione, Simenon alla fine della prima serie si limitò a mandare il pacioso commissario in pensione, per cui gli bastò dimenticarsi della cosa e far tornare in azione il suo antieroe, prima in alcuni splendidi racconti brevi e poi in romanzi che uscirono a un ritmo più umano dal 1941 fino al 1972, e che col passare del tempo saranno sempre meno dei polizieschi e sempre più delle struggenti elegie verso quella Parigi che l’autore, esule volontario dopo le assurde accuse di collaborazionismo a suo danno, rievocherà con crescente rimpianto fissando le desolate lande dell’Arizona o del Texas.
L'autore

Senz’altro, da un punto di vista letterario, la seconda parte della serie di Maigret è di più alta qualità, ma il fascino dei primi romanzi del giovane, ruspante e straripante Simenon è assolutamente inarrivabile. I titoli entrati nella memoria collettiva, dal Cane giallo al Caso di Saint Fiacre fino al Crocevia delle tre vedove, appartengono a questa prima serie, che forse ha per punto di forza principale le ambientazioni; se infatti nella seconda parte delle avventure del commissario non si esce praticamente mai da Parigi, nei primi romanzi si viaggia in giro per il Belgio, L’Olanda, la Germania e soprattutto in quella remota, primitiva, perduta provincia Francese mai così ben rappresentata e descritta.
In quanto alla qualità, basta davvero pescare nel mazzo, uno vale l’altro. Forse il primo, Pietr il Lettone, è magari ancora acerbo e con un Maigret ancora in divenire, forse il secondo, Il cavallante della Providence (O Maigret si commuove) è ancora troppo ancorato al feuilleton frequentato dall’autore nei primissimi anni di attività, quando si firmava col nome di George Sim (cosa darei per leggere qualcuno dei suoi primi scritti..) ma dopo un breve rodaggio arrivano tutti ottimi libri con qualche capolavoro, e per chi scrive nella categoria è compreso anche il poco citato ma bellissimo “La casa dei fiamminghi”.


Copertina di Pinter

Siamo in un paese di frontiera tra Francia e Belgio, chiamato Givet. Un paesino minuscolo, dove tutti si conoscono, dove la convivenza tra Francofoni, Fiamminghi e Valloni è spesso difficile, ci si tollera ma a malapena.
In questo microcosmo spazato dal vento del mare del nord, pieno di facce imbronciate e poco socievoli, scoppia un dramma; i Peeters, una famiglia Fiamminga tra le più ricche, invidiate e odiate del posto, è accusata di aver fatto sparire la giovane Germaine, una ragazza di umili origini che era stata l’amante del rampollo Jacques, e da lui aveva avuto un figlio. La scomparsa della ragazza, avvolta nel più fitto mistero, si protrae ormai da giorni e da Parigi, in forma non ufficiale, arriva proprio Maigret a indagare sulla spinosa faccenda.
Inutile dire di più della trama, il plot poliziesco in Simenon vale poco o nulla (tranne in rari casi, come Un’ombra su Maigret) in questo libro sono straordinari altri fattori. Innanzitutto i personaggi femminili, su tutti Anna Peeters, giovane donna robusta, forte e dall’aria mascolina seppur non priva di attrattiva, che in pratica gestisce il menage familiare e adora in modo morboso il fratello Jacques; sua sorella Maria, terrorizzata dal mondo e in preda a segreti tormenti; la giovane Marguerite, frivola e delicata fidanzata di Jacques, che lo adora ciecamente tanto da perdonargli la relazione con Germaine e offrendosi perfino di adottare il frutto della colpa, e anche la stessa Germaine, solo rievocata, descritta come una giovane fragile e tisica ma con un suo fascino sanguigno.
Alla fine Maigret, per risolvere il caso, dovrà solo entrare nella psiche di queste donne, ricostruire la loro storia, le loro emozioni; da quel momento il nome del colpevole viene quasi automatico, e come spesso in Simenon si tratterà di un assassino che è a sua volta vittima, meritevole di umana pietà.
Un romanzo stupendo, che si legge in una sera, preferibilmente uggiosa e piovosa  per immedesimarsi meglio nell’atmosfera brumosa e inquietante di Givet, piccolo mondo antico che è la risposta Francese al villaggetto British teatro di tanti gialli della Golden Age, magari meno divertente ma infinitamente più credibile.

mercoledì 21 maggio 2014

NOSTALGIA IN GIALLO ; LA SERIE DI NANCY DREW


C’era una volta un ragazzino di 12 anni e una biblioteca comunale, unico edificio aperto al pubblico (assieme alla chiesa e due bar) in un rovente agosto di periferia. Questo ragazzino (ovviamente il sottoscritto) arrivava in bici dalla campagna, a cercare il mezzo per sognare in un altro giorno vuoto e spensierato prima che Settembre riportasse la scuola e la pioggia. E quando finirono gli Agatha Christie, cominciai a rivolgere la mia attenzione a una collana che sulle prime snobbavo quasi; era il giallo dei ragazzi Mondadori, di cui la biblioteca aveva molti titoli (Dico aveva perché questa biblioteca non esiste più, ora è una sala polivalente con tutti pc e pochissimi libri, chissà che fine hanno fatto quelli che leggevo io..)  e scrutando con diffidenza le belle copertine di Marco Rostagno rimasi, lo ammetto, folgorato all’istante da una graziosa giovane donna dai capelli rossi che indossava gonne ben sopra il ginocchio. A quei tempi mi parve grande, quasi adulta, ma volli saperne di più. Non rimasi deluso; oltre che bella, buona e virtuosa, incarnazione perfetta di quella verginella americana messa poi alla berlina negli Horror anni settanta/ottanta, Nancy era simpatica, tosta, faceva in una settimana cose che le ragazze di Casalguidi e dintorni non avrebbero fatto in tutta la vita; una ragazza ideale, perfetta, troppo perfetta per essere vera, ma tanto al tempo non me ne rendevo conto, il mio mondo era ancora piccolino.
Passai dei bei momenti a leggere quei libri lievissimi, impalpabili, eppure divertenti e scorrevoli, a suo modo  affascinanti. Quando finirono i Nancy Drew provai altri libri della collana (Il giallo dei ragazzi Mondadori fu edito negli anni settanta e arrivò alla ragguardevole cifra di 181 uscite, e presentava perlopiù personaggi fissi come Nancy, i Detective adolescenti “Hardy Boys” e altri autori anche Italiani ora dimenticati) ma i giovani detective del mio stesso sesso non mi interessavano, come Charlie Brown ero innamorato di una fanciulla dai capelli rossi.



Alcune copertine deliziosamente "Seventies" di Rostagno


Poi, come il ragazzino protagonista di “Cuori in atlantide” di Stephen King che leggendo “ Il signore delle mosche” rinnegherà per sempre proprio Nancy e gli Hardy Boys, passai oltre ben presto. Ma a differenza del ragazzo del libro di King, diventato adulto mi sono ricordato di ciò che leggevo e trovandone qualcuno in un mercatino a prezzi ridicoli, mi sono portato a casa qualche piccolo frammento del  passato, finendo per concludere l’operazione nostalgia rileggendo qualcosa, a dire il vero dando una scorsa vista l’estrema semplicità delle trame, che davvero non possono dire nulla a chi ormai conosce a menadito la Christie e altri grandi, ma siccome la mia speranza remota è che oltre a voi vecchi bacucchi mi legga anche qualche ragazzino/a , ritengo sia giusto invogliare alla lettura della serie di Nancy Drew, perché sono libri che possono piacere molto.
Inanzitutto, chi è Nancy Drew? È una sedicenne-diciottenne (propendo per i 18 visto che comunque guida l’auto e ha per fidanzato platonico uno studente universitario) orfana di madre che vive col Padre avvocato credo in California o giù di li, ma non sono sicuro. Come detto ha una bella chioma fulva, è alta e slanciata, frequenta un giovane studente di nome Ted e in molte sue avventure ha al suo fianco le cugine Bess e George, la prima cicciotta e simpatica e la seconda energica e mascolina come il suo nome.
All’atto pratico Nancy è una nullafacente, che però si diletta a fare l’investigatrice, e ovviamente tutti i misfatti possibili capitano sotto i suoi occhi e quindi la giovane, ardita e intraprendente, indaga e risolve, in modo del tutto disinteressato (anche se poi non dice certo di no a qualche sostanzioso bonifico emesso per pura riconoscenza).
Negli States il personaggio non ha certo bisogno di presentazioni, visto che è una specie di eroina nazionale, che ha resistito al tempo e alle generazioni (solo nel 2007 è uscito al cinema un film con le sue avventure, per non parlare di videogiochi, gadgets, etc.) sempre adattandosi al mutare dei gusti ma al tempo stesso rimanendo il più possibile uguale a se stessa.
Il primo libro con protagonista Nancy uscì, pensate, nel lontano 1930, anno importante che vide gli esordi di Carr e Ellery Queen, oltre che la prima apparizione di Miss Marple; tra queste sequoie,  nella foresta degli autori di gialli spuntò questo alberino di nome Carolyn Keene (ma era una firma fittizia dietro la quale si celavano vari autori, come nel caso di Patrick Quentin) che in un libro intitolato “The secret of the old clock"  ed edito da noi solo da Salani negli anni novanta (visto che nella collana del giallo per ragazzi i titoli venivano tradotti alla rinfusa, senza rispettare nessuna cronologia, come del resto succedeva anche per i giallisti più affermati) col titolo "Il mistero dell'orologio".
 A questo esordio seguirono decine di altre avventure, che sfruttavano appieno tutti i cliches del tempo, aggiornandosi poi col passare del tempo; se nei primi libri Nancy aveva a che fare con presunti fantasmi, licantropi, inventori pazzi e altre suggestioni dell’epoca, poi inizierà a viaggiare in giro per il mondo e ad agire in contesti più realistici. Per il fortunato ragazzino che riuscisse ad apprezzarli (magari trovandoli in casa, conservati da qualche genitore avveduto) sarebbe un modo per approcciarsi ai libri e alla loro piacevolezza, ma a dire il vero le avventure di Nancy Drew possono essere lette anche da un adulto in cerca di una lettura pacata e rilassante, magari scontata ma non per questo meno godibile. I buoni prodotti alla fine non hanno età, e sinceramente mi sono divertito a ripercorrere i miei primi passi di lettore in compagnia di Nancy e la sua banda. Certo, fa un poco effetto pensare che la ragazza che all’inizio mi pareva già una donna e della quale mi ero preso una cotta ora, visto che al contrario di lei io sono stato meno furbo e sono invecchiato, mi appare come una ragazzina ingenua, spensierata, con tutte le certezze ben salde e nessuna illusione perduta nel passivo del bilancio dell’esistenza; è la fortuna di tutti gli eroi di carta, che vivono nella loro perpetua primavera senza nubi o con nubi solo passeggere, disposti a condurti nel loro mondo se si riesce ancora a trovare la strada per arrivarci; io la strada per adesso la so ancora, e ne sono felice.

martedì 13 maggio 2014

"IL BACIO D'UNA MORTA", DI CAROLINA INVERNIZIO.

Se avessi la macchina del tempo vorrei passare una settimana o due nell'Italia di Carolina Invernizio; quell'Italia Giolittiana dove si respirò una eco lontana della belle epoque Europea, dove tutto era (almeno in superficie) pulito e ordinato, dove ancora si parlava di titoli nobiliari e la società era rigidamente divisa in ceti; vorrei, insomma, conoscere gli Italiani di quel tempo, sapere come parlavano, come ridevano, e perchè leggevano Carolina Invernizio; ma non è che la leggevano, la divoravano, le domestiche e le portinaie apertamente (da qui il soprannome "Carolina di servizio") e le signore dei piani alti di nascosto, come un peccatuccio di cui vergognarsi anche se non troppo.
Una giovane Carolina

La Invernizio fu, assieme a Emilio Salgari, la grande pennaiola di consumo dell'Italia dei notabili, e proprio come quell'era gloriosa e irripetibile morì nel 1916. Non era una povera vittima del sistema editoriale come Salgari (che finì suicida per disperazione), ma comunque scriveva troppo, e spesso male. Orientarsi nella sua bibliografia e trovare delle opere ancora potabili è impresa ardua e faticosa, ma visto che la Lucchi e la Salani negli anni settanta e ottanta hanno reso possibile averne una buona parte a prezzi popolari, quando trovo dei suoi libri nelle bancarelle li prendo, e talvolta sono abbastanza coraggioso da affrontarli anche. "La sconosciuta", già recensito su questo blog nello scorso Luglio, era disastrosamente inverosimile ma mi divertì, "I misteri delle soffitte", dopo un ottimo e audacissimo inizio (una bellissima sposa tradita che per vendicarsi sceglie a caso tra la folla del carnevale un bel giovanotto e se lo porta a casa con l'intenzione di passarci la notte, salvo poi ovviamente ripensarci all'ultimo momento perchè è troppo buona...) si perde in un mare di melensaggini insulse; quindi,con Carolina ero a un bivio, mi sono detto "Proviamone un altro e se non va allora basta". Per andare più sul sicuro ho scelto un titolo tra i più famosi, anzi sicuramente il più noto in assoluto, l'unico che tuttora viene ristampato anche da case editrici di primo piano come Einaudi (anche se adesso risulta esaurito); sto parlando de "Il bacio d'una morta" che, ve lo anticipo subito, mi è piaciuto senza riserve e ha fatto schizzare verso l'alto le quotazioni della Invernizio tra gli autori a me graditi.
Dunque, partiamo da questo presupposto;  questo thriller d'antan è ridondante, ha una prosa datatissima, personaggi odiosamente stucchevoli e un mucchio di artificiosità. Quindi si deve assolutamente far presente che è un libro mal scritto; ma al tempo stesso è anche uno dei romanzi più tesi, ricchi di suspense e di superbe agnizioni che possano esistere, la quintessenza del feuilleton macabro e goticheggiante: e di fronte a una storia tanto avvincente, i vistosi difetti finiscono per venire coperti, per passare sullo sfondo.

Copertina dell'edizione Lucchi in mio possesso.

Vediamone velocemente la trama; come sempre nella Invernizio, l'inizio è veramente stupendo; tutto si poteva dire dell'autrice ma aveva il grande dono di saperti portare subito dentro al libro, anche se poi le premesse non erano sempre mantenute.
Siamo nei dintorni di Firenze, per la precisione verso l'Antella e  Ponte a Ema; una Toscana Umbertina ancora selvaggia e contadina, che richiama quella del Pinocchio di Collodi. Qui arrivano Alfonso, un bellissimo ragazzo ventenne, e la sua dolcissima sposa Andalusa Ines; i due si sono conosciuti e sposati in America, e ora si recano dall'amatissima sorella di lui, Clara, un'angelica creatura che vive col marito, il Conte Guido Rambaldi, e la loro piccola figlia Lilia. Alfonso è inquieto, a causa di una lettera inviatagli dalla sorella, in cui essa esterna serie preoccupazioni, ossia che il marito non la ami più e che voglia addirittura la sua morte; i timori del giovane riguardo alla sorella si rivelano subito ben fondati, in quanto la contessa Clara Rambaldi è spirata appena due giorni prima il suo arrivo. Il marito è partito portandosi via la bambina, e alla villa ci sono solo i domestici, che informano Alfonso che la sorella non  è ancora stata interrata, lo sarà soltanto la mattina dopo, e che se vuole può recarsi a darle un ultimo saluto.
Dopo due o tre svenimenti ( essi non si contano durante tutto il libro; svengono tutti almeno una volta, compresi i personaggi secondari) il disperato Alfonso va al cimitero e convince a suon di moneta un becchino a riaprire la bara; Clara giace immobile, avvolta in un bianco sudario, e nonostante la rigidità i suoi lineamenti non si sono ancora arresi alla degenerazione della morte. Alfonso si getta sul corpo inanimato, lo inonda di lacrime e lo bacia più volte sulle labbra (uno dei punti di forza del racconto è il rapporto quasi incestuoso tra i due fratelli, che avrebbe fatto la gioia di Freud; la loro storia familiare è molto complicata in quanto Alfonso era stato disconosciuto dal padre perchè creduto erroneamente figlio non suo, e i due fratelli si sono ritrovati dopo molti anni di nascosto la loro severo padre, e amati di un amore abbastanza morboso ed esclusivo, tanto che il marito di Clara anni dopo, seppur sbagliandosi, avrà ben donde di crederli due innamorati) e d'un tratto...la morta rispode al bacio! ma certo, era solo catalessi, e Alfonso, fuori di se,  porta la sventurata sorella  al sicuro facendo quasi impazzire di terrore il becchino del cimitero che la mattina dopo l'avrebbe sepolta viva (la scena del pover'uomo che si immagina  fantasmi urlanti che lo accusano di averli sepolti vivi è assolutamente di grande effetto) e una volta in salvo e riacquistata la salute fisica e mentale, la povera donna racconta la sua odissea, che si può riassumere poche righe; il marito che l'amava con tutto se stesso è caduto nelle grinfie di una bella e terribile maliarda di nome Nara (addirittura di oscure e misteriose origini Giavanesi...) che lo convince a sopprimere la moglie, e lui, che grazie ai maneggi di Nara crede la dolce e angelica Clara dissoluta e fedifraga (perchè ovviamente lui era un candido giglio..) seppur riluttante esegue, ma per fortuna il veleno non agisce fino in fondo (medici e scienziati, lasciate perdere..) e Alfonso evita alla sorella di essere seppellita viva; ora che il pericolo è passato, restano da punire i colpevoli, nel frattempo fuggiti a Parigi a godersi i soldi della presunta morte. Da qui inizia una rivincita degli offesi con travestimenti e tranelli stile Conte di Montecristo, una partita tesa e serrata contro una cattivaccia (il Conte alla fine è solo un povero minchione..) veramente creepy e ben riuscita, che ovviamente viene sconfitta ma non senza grandi sacrifici e pericoli.
Questo un riassunto veloce della trama, ma state pur certi che il meccanismo tra gotico, thriller e infine poliziesco è molto più complesso e sfaccettato di quanto si possa pensare, con mille indovinati comprimari e una narrazione incalzante che non concede tregua al lettore. Certo, non di rado sbufferete (le smancerie tra i buonibuonissimi sono insopportabili) ma vi divertirete anche molto. Insomma, per una volta tanto la nostra modesta e umile Carolina non sfigura al confronto di un Collins, un Sue o un Dumas, e da Italiano sono orgoglioso di annunciare  che, contro tutte le aspettative, anche da noialtri è stato scritto un Feuilleton coi controfiocchi.

PS;Informo l'amica Anna Comnena che nella bancarella dove ho preso questo libro avevano anche "La sepolta viva" e "La vendetta di una pazza" (che tu mi dicesti essere direttamente collegati al Bacio d'una morta), con calma li leggerò poi ti faccio sapere se sono degni del primo episodio, e se la perfida Nara saprà ancora ordire trame delittuose  degne della sua fama.

giovedì 8 maggio 2014

ECCO CORNELL WOOLRICH; "VERTIGINE SENZA FINE".


Se, invece di parlare di libri letti sul momento, per questo blog avessi seguito il mio percorso di lettore di gialli dall’adolescenza ad oggi, avrei parlato del grande Cornell Woolrich già da parecchio tempo,e più di una volta. Ma questo autore, che mi sono letto e riletto anni fa, da qualche anno lo avevo un poco accantonato; ma per fortuna non sono uno di quei lettori che ha una memoria di ferro, e a distanza di qualche anno mi piace tornare a leggere un libro che ho apprezzato in passato, e con Woolrich la cosa è doppiamente consigliabile, visto che i suoi plot febbrili e angoscianti si bevono a una velocità tale da non aver certo la voglia di apprezzare le sfumature e le sottigliezze psicologiche, cosa che invece si può fare a una rilettura più distesa…ma non troppo, visto che il gorgo fatale delle sue storie finisce sempre per avviluppare il lettore senza pietà alcuna.

L'autore.

Innanzitutto, due parole su questo autore geniale quanto tormentato, che a parer mio non si può definire a pieno titolo un giallista; no, in lui il Whodunit è presente poco o nulla, fa solo capolino in alcuni dei suoi romanzi più convenzionali e con meno pretese come “Dinastia di morti” o “L’alibi nero”. Ma se non era un giallista classico, non era nemmeno un seguace di Chandler o Hammett, visto che non si trovano nelle sue pagine romantici detective alla Marlowe ne tantomeno gangster spavaldi e pieni di coraggio; i personaggi di Woolrich erano come lui, degli “sbagliati”, dei disadattati in balia degli eventi della vita, spesso per loro stessa colpa. Quindi, a quale corrente del poliziesco ascrivere Woolrich? A nessuna, lui fa storia a se. Era un autore di Suspense, anzi era ed è IL suspense; con la sua opera ha ispirato Hitchcock in modo palese, e i grandi film del maestro nella seconda metà degli anni cinquanta devono molto al suo universo(non solo per il soggetto della finestra sul cortile, molto Woolrich entrerà ancora nei suoi film più maturi e disincantati, vedi Il ladro o Frenzy) e ha dato inizio a un filone letterario (dopo di lui frequentato in modo approssimativo quando non maldestro, come l’horror made in Usa dopo la lezione di Lovecraft) in cui l’angoscia, l’orrore e la violenza si mescolano talvolta mirabilmente alla poesia, e tanti suoi romanzi e racconti possono infatti leggersi come dei poemi sui bassifondi di quelle metropoli americane anni ’40 delle quali ormai è diventato mitico anche il degrado.
L’autore è conosciuto universalmente per la sua serie nera, ossia quei romanzi in cui appare nel titolo la parola “Nero” (Angelo nero, Appuntamenti in nero, L’alibi nero, L’incubo nero, La sposa era in nero,Sipario nero) ma per chi scrive, e forse solo per lui, pur essendo libri di primissimo livello non sono la parte migliore della sua produzione; no, il sottoscritto ha un vero debole per quei romanzi che uscirono a firma William Irish (pseudonimo dovuto al fatto che l’autore collaborava presso due diiversi case editrici nello stesso periodo)  ossia Vertigine senza fine, Ho sposato un’ombra, La donna fantasma, Si parte alle sei e Dinastia di morti; ora, a parte l’ultimo citato che è un simpatico Whodunit dalle tinte horror che da ragazzino ho adorato ma che è palesemente un prodotto più commerciale e fuori dalle corde dell’autore, i restanti quattro sono dei veri capolavori, anche se per me la vera vetta assoluta di Woolrich è il magnifico “La notte ha mille occhi”, una storia nel quale l’attesa spasmodica di un evento di morte predetto da un sensitivo diventa quasi intollerabile, tanto che ne consiglio la lettura solo ai cuori forti.
Però, è bene tenere a mente una cosa molto importante; Woolrich è sempre uscito in traduzioni vergognosamente mutilate e censurate , uno scandalo a cui per fortuna si pose fine negli anni ottanta, quando tutti i romanzi dell’autore vennero ritradotti da sicurezze come Boncompagni e la Francavilla, traduzione uscite prima in Omnibus (adesso piuttosto rari) e poi, fortunatamente, nei più comuni e accessibili classici del giallo…quindi buttate a mare tutte le edizioni precedenti al periodo suddetto e procuratevi le ritraduzioni, farete un favore a voi stessi.
E di tutti i libri di Woolrich, il più dilaniato in sede di traduzione è proprio il bellissimo Vertigine senza fine (Waltz into Darkness, 1948) un vero e proprio viaggio nella degradazione morale, nel crimine  e nella follia di un americano tutto d’un pezzo e di sanissimi principi che incontra un vero demonio in gonnella, in un’ambientazione da brividi, ossia la New Orleans di fine ottocento ( unico libro dell’autore non ambientato in scenari a lui contemporanei).
Come vedremo, questa è una storia illogica, totalmente assurda; ma tutto il mondo di Woolrich in teoria lo sarebbe, anche se a dire il vero lo trovo più vero di tanti altri romanzi del periodo, anche non polizieschi; e se si può parlare di vicende assurde, i personaggi e le loro angosce sono credibilissimi, ed è questo che conta.


Abbiamo un uomo ancora nel fiore degli anni, Louis Durand, ricco possidente nel sud appena liberato dalla schiavitù. Un uomo provato da una terribile esperienza in gioventù (la sua promessa sposa era morta di febbre gialla poco prima del loro matrimonio) che a trentasette anni, più maturo e consapevole, decide di rivolgersi a un’agenzia che mette in contatto agiati gentiluomini e gentildonne perché questi possano avviare una corrispondenza  ad eventuale scopo matrimoniale. E Durand la sua anima gemella sembra trovarla nella mite Julia, una zitella sua coetanea che vive a Saint Louis e come lui aspira a un’unione serena e senza mondanità. La foto che lei gli invia nel corso delle loro fitte missive mostra una donna non brutta ne bella, dall’aria posata e remissiva, proprio il tipo di moglie che Durand vorrebbe. Ma quando il battello da Saint Louis attracca a New Orleans, la donna che Durand si trova davanti non è affatto quella che aspettava, ma una bellissima ventenne bionda, minuta, sensuale e altamente desiderabile, una Brigitte Bardot prima maniera per intendersi. La ragazza riesce a convincere Durand di essere proprio lei la Julia che attendeva, di averle inviato la foto di una zia perché lui la accettasse non per la sua bellezza ma per altre doti, e finisce così  per convincere lo straniato ma compiaciuto futuro marito a fidarsi delle sue parole, e i due si sposano il pomeriggio stesso dell’arrivo di lei.
All’inizio le cose sembrano andate benissimo tra i due colombi; Durand è al settimo cielo, è ammirato e invidiato sia per la sua fortuna che per la bellissima e giovane moglie, e  Julia diventa  la donna più bramata della città. Ma la loro felicità inizia pian piano ad essere turbata da eventi dapprima minimi ma sempre più inquietanti; perché Julia beve avidamente il caffè, quando nelle lettere diceva di odiarlo? Perché la costumata figlia di buona famiglia assume pose sconvenienti e tiene sigari nel cassetto? Perché lascia morire di fame e di sete il canarino che tanto diceva di adorare? E soprattutto, perché non si fa viva con l’adorata sorella Bertha, da lei tanto amata?
Da qui prende il via il viaggio all’inferno di Louis Durand, un antieroe che più che i personaggi del coevo Hard-boiled finisce, per un’idiozia totale e pietosa, per ricordare il protagonista della “Ballata dell’amore cieco” di Fabrizio de Andrè. E anche la misteriosa Julia (che ormai avrete capito non essere ciò che si pensava) non somiglia per nulla alla Femme Fatale stile Barbara Stanwych, perché pur essendo un personaggio totalmente negativo e quasi mostruoso ha in se un poco dell’ingenuità e della fragilità di una bambina capricciosa, e il lettore non potrà mai odiarla per come merita, non fose altro per la carica erotica e la sensualità di cui Woolrich (che pur essendo dichiaratamente omosessuale seppe descrivere le donne come nessun altro) la ammanta. Anche perché nel palpitante, umanissimo finale verrà a galla una verità che, se nulla ha a che fare con l’intreccio vero e proprio, sorprende il lettore come un colpo di teatro, e getta un inopinato, imprevedibile raggio di sole nelle tenebre di quel nerissimo fiore prodotto da quell’amore estremo e maledetto.
 Questo dramma d’anime umanissimo e profondo raccontato senza rinunciare a una struttura thriller di prim’ordine fanno di “Waltz into Darkness” un vero capolavoro della letteratura Americana del Novecento, da leggere e rileggere in attesa che qualcuno si svegli e si accorga che Woolrich è un grande classico da portare nelle librerie,  onde essere comodamente disponibile per ogni lettore. Nel frattempo, se vi va, potete cercare il classico del giallo numero 1138 del novembre 2006 , con Banderas e Angelina Jolie in copertina, visto che da questo romanzo fu tratto il dimenticabilissimo “Original sin” con le due star come protagonisti, e negli anni sessanta ne fu fatta anche una riduzione anche da Francois Truffaut
 (il cui orrendo titolo Italiano recita “La mia droga si chiama Julie)  senz’altro di buona fattura ma molto modificata rispetto al romanzo, e con un tocco Francese che con Woolrich ci incastra abbastanza poco.

venerdì 2 maggio 2014

"TAVERNA ALLA GIAMAICA" , DI DAPHNE DU MAURIER

Chiunque dica che Daphne du Maurier era una buona scrittrice di neogotici del novecento, sbaglia. E sbaglia anche chi dice che era un’ottima scrittrice romantica del secolo scorso; no, la verità è che la Du Maurier era un GRANDE narratrice, una delle migliori del ventesimo secolo. Certo, non sarà mai stata apprezzata dall’intellighenzia ne mai è stata candidata al Nobel, ma ciò non dovrebbe interessare alla grande porzione dei lettori che leggono per il puro piacere di leggere, di evadere dalla tetra quotidianità grazie a una bella storia; e di belle storie oh, se la Du Maurier ce ne ha regalate. Storie fosche, intense, assolutamente non sdolcinate ma anzi spesso dure e violente, capaci di far sognare ma anche sgomentare. “La prima moglie” è un capolavoro dell’ambiguità, e lo è anche “Mia cugina Rachele”, e se poi preferite storie più realistiche allora provate a leggere “I parassiti”, spietata radiografia (parzialmente autobiografica) di una famiglia fuori dagli schemi, più odiosa e snervante che affascinante, uno dei suoi libri più sentiti e impegnativi.

Una giovane, graziosissima Daphne du Maurier

Ma soprattutto Daphne scrisse, specialmente nella prima parte della carriera, romanzi  di ambientazione ottocentesca, ambientati nella sua amatissima Cornovaglia, libri in cui le tinte forti e delicate si alternano e fondono mirabilmente; “Spirito d’amore”, “Donna a bordo” e questo “Taverna alla Giamaica” ne sono gli esempi più felici.
Ora, io “ Jamaica inn” lo conoscevo già da ragazzo, ovviamente grazie al film che Hitchcock ne trasse nel 1939, solo tre anni dopo l’uscita del romanzo (anche  Rebecca fu filmato quando praticamente era ancora fresco d’inchiostro), il suo ultimo film Inglese prima del grande salto a Hollywood. Io, che a quel tempo di Hitch collezionavo le mitiche VHS della De Agostini attendendo ogni uscita come un evento, ricordo che “La taverna della Giamaica” mi deluse un poco. Visivamente era strepitoso, con quella fotografia brumosa e cupa, ma la sceneggiatura era abbastanza scadente, e il gigionesco supercattivo Charles Laughton era un pesce fuor d’acqua nel film di un regista che esigeva dagli attori un basso profilo e pochissima improvvisazione, e infatti schiacciava con la sua mole (non solo interpretativa) i due protagonisti Maureen o’Hara e Robert Newton, creando un forte squilibrio; semplicemente, fu un film fuori dalle corde di Hitchcock (ma tutte le sue opere in costume sono dei mezzi disastri), diretto in fretta e senza troppa convinzione.

L'edizione Oscar Mondadori

Poi, qualche anno dopo, trovai a un mercatino il libro, nella bella edizione Oscar Mondadori con copertina di Karel Thole e la traduzione di Alessandra Scalero, da sempre una garanzia; e, ora che sono passati parecchi anni e stuzzicato dal recentissimo sceneggiato BBC con la bellissima Jessica Brown Findley ( la Lady Sybil di Downton Abbey, ora attrice lanciata anche sul grande schermo grazie a Storia d’inverno) che si può trovare con sottotitoli in Italiano, mi sono deciso a leggerlo; e ancora una volta ho avuto la riprova di quanto le vie della lettura siano misteriose, visto che non riesco a capire quale demonietto malefico mi abbia tenuto per così tanto tempo lontano da un simile gioiello. Lo dico subito, “Jamaica inn” non raggiunge le vette di romanzi come Rebecca e My cousin Rachel o di racconti come Don’t look now, ma rimane comunque una montagnola di tutto rispetto.


"Audace" copertina dellaprima edizione Italiana

La storia è la seguente; la giovane Mary Yellan, ventitreenne orfana senza prospettive e tutt’altro che una fanciulletta smorfiosa, dopo aver seppellito la madre decide di andare a vivere dalla di lei sorella Patience,  una donna che Mary aveva conosciuto da bambina rimanendone molto affezionata, e che ora sa moglie di un taverniere di una locanda immersa nella brughiera della Cornovaglia, vicina al mare; ora, Mary si immagina di trovare un ambiente confortevole e gente quantomeno dignitosa, ma invece si scopre, ancor prima di giungere in loco, immersa in un terribile incubo; la taverna, luogo del quale tutti i bravi cittadini del posto hanno una paura folle e che al dispetto del nome esotico è di aspetto triste e deprimente, si rivela un sordido ricettacolo di attività illecite, la Zia Patience, da lei ricordata come una signora vestita di seta e dai modi affettati, è una povera creatura sfiorita e terrorizzata dal gigantesco, brutale e mefistofelico marito Joss, che la tratta letteralmente come un cane. Nessun avventore si recherebbe mai alla taverna, che infatti accoglie gente solo al sabato sera, tipi loschi e violenti che rispettano Mary solo per paura di suo zio, col quale la ragazza ha un rapporto al tempo stesso di odio e disprezzo e di una certa perversa, inattesa affinità, che porta i due a rispettarsi a vicenda, infatti la ragazza, anziché fuggire come avrebbe voluto in un primo momento, decide di sfidarlo, di restare per aiutare sua zia, per proteggerla il più possibile da ulteriori angherie.

Jessica Brown Findlay nello sceneggiato BBC

La ragazza si rende ben presto conto che lo zio è immerso fino al collo in qualcosa di losco, e crede che di tratti di un traffico di merce di contrabbando gestito su larga scala, ma le cose in realtà stanno molto, molto peggio di quanto Mary supponga..
Non voglio davvero svelare di più per non guastare all’eventuale lettore il piacere di una bella storia goticheggiante  sanguigna e passionale (Mary troverà in quella desolazione qualcuno da amare con tutta se stessa e dessere riamata, anche se questo ha ben poco del principe azzurro) ma soprattutto un autentico Thriller di alta scuola, con misteri disseminati con maestria, ottimi colpi di scena e un grande uso del suspense, e un enigmatico, sfuggente mister x da individuare; infatti appare chiaro che Joss è troppo stupido per essere il capo di tutta l’organizzazione, che qualche insospettabile nell’ombra maneggia i fili dall’alto.
Mi sono reso conto, a lettura ultimata, di quanto le mie impressioni di sceneggiatura mediocre del film Hitchcockiano fossero esatte; innanzitutto, ed è un peccato, il segreto dei contrabbandieri viene svelato fin dalla prima scena, rinunciando al suspense in crescendo del romanzo; molti personaggi sono espunti, banalizzati o del tutto snaturati, e nonostante la trama sia ridotta all’osso il film riesce a essere a volte noiosetto, cosa che il libro non è mai.
Lo sceneggiato BBC, pur se impreciso in alcune caratterizzazioni ( se la Brown-Findley nella parte della sensuale e contadinesca Mary è senz’altro più indicata della troppo virginale Maureen O’Hara, per gli altri ruoli gli attori del film del 1939 erano assai più azzeccati) ed esagerato in alcune soluzioni visive, è assai più fedele al testo, anche perché la lunghezza ( tre puntate di un’ora l’una) consente senz’altro un maggiore approfondimento.
In ogni caso, se non conoscete questa storia e ne siete interessati, il mio consiglio è questo; prima procuratevi (non è difficile) il libro, poi casomai guardatevi lo sceneggiato BBC e solo in ultima battuta, ma solo per apprezzarne gli scenari e la fotografia, il film Hitchcockiano.  Ma ripeto, prima il libro, per rendersi conto appieno dell’arte sopraffina di quella grande autrice che era Daphne du Maurier.