Dopo i primi tre Halter (ne parlavo lo scorso marzo)che mi avevano soddisfatto con qualche riserva, è proseguita incessante la caccia ad altri titoli dell’autore Alsaziano, specialmente dei titoli consigliati nei blog di alcuni appassionati che tengono Halter in grande considerazione; a ragione, visto che con tutti i suoi difetti più o meno vistosi è senz’altro il giallista “classico” più dotato tra i viventi.
Di Halter avevo letto La quarta porta, che era stupendo ma fin troppo arzigogolato, Il demone di Dartmoor, bella fiaba gotica senza però grandi guizzi a livello di intreccio, e La maledizione di Barbarossa, che mi è piaciuto moltissimo ma che presenta nella trama una forzatura del tutto inaccettabile per un autore come Halter; ma era il primo suo libro e ci stava.
Quindi mi ero divertito, ma mancava ancora il capolavoro, il libro da dieci e lode che mi convincesse profondamente e senza riserve; e mentre lo leggevo, credevo che questo obiettivo potesse essere raggiunto con Nebbia rossa, e invece è stata finora la mia più cocente delusione Halteriana; un libro che fino a pagina 120 è un raffinatissimo enigma degno del miglior Carr (e non è che sia poco), ma bruscamente diventa poi un delirante viaggio nella Londra funestata da Jack lo squartatore; proprio delle “imprese” del notissimo e inafferrabile (e inafferrato) Killer seriale si occupa seconda parte di questo libro, dandone una interpretazione che vorrebbe essere innovativa ma che a me è apparsa solo forzata, prevedibile e in contrasto troppo stridente con la splendida, elegante prima parte.
Quindi, dicevo, una delusione tremenda, che per qualche mese mi ha allontanato dall’autore, ma ieri, rimettendo in ordine la libreria, mi sono imbattuto in “La lettera che uccide”, e oggi pomeriggio me lo sono letto d’un fiato, grazie anche alla brevità del libro in questione, a tutti gli effetti un romanzo breve; e se anche in questo caso il capolavoro è stato solo sfiorato, è bastato e avanzato per riconciliarmi con l’autore.
Bisogna proprio dirlo; Halter, come Wallace ai suoi tempi (ora un po meno) anche nelle prove meno riuscite si legge davvero d’un fiato, tanto da dimenticarsi letteralmente del mondo attorno a noi; e questo La lettera che uccide è senz’altro un gioiello da porre tra i suoi titoli migliori, un grandissimo esercizio di mistificazione, una sfida continua alla logica, sempre vinta.
In questo romanzo, nell’Inghilterra depressa del secondo dopoguerra un giovane, Ralph Conroy, riceve da un caro amico una stranissima, inquietante missiva, dove gli si ordina di fare delle cose assolutamente senza senso; pur perplesso, fidandosi dell’amico Ralph esegue le istruzioni alla lettera, e si trova catapultato dentro a un incubo spaventoso quanto grottesco.
Impossibile anticipare alcunchè, se trovate questo libro in giro prendetelo senza indugi e preparatevi a un’ora e mezzo di lettura frenetica ed esaltante, e a un romanzo che finalmente non presenta o quasi sbavature; niente situazioni troppo complicate, niente rompicapi, niente cadute di stile o svolte troppo brusche…ma purtroppo, anche in questo caso, non si ha un capolavoro, perché nelle ultime dieci pagine l’autore esagera, strafà e finisce per macchiare una tela altrimenti perfetta, come se Leonardo, a dipinto ultimato, avesse voluto fare i baffi alla Gioconda. Ma è un brutto vizio di Halter, quello di rovinare i finali; senza spoilerare nulla, sappiate però che almeno nelle opere da me lette l’autore non contempla mai, ma proprio mai, il lieto fine, tradendo uno dei dogmi del poliziesco classico, ossia quello che i gialli sono fiabe per adulti dove il bene deve trionfare e l’ordine essere ristabilito; mi vanno bene le eccezioni (Dieci piccoli indiani, per dirne una) ma quando i finali tragici o comunque drammatici diventano la regola, non apprezzo davvero.
Quindi de La lettera che uccide sarebbero da strappare le ultime 10 pagine, ma le restanti 140 sono di primissimo livello. Nebbia rossa invece lo dimezzerei senza alcuna pietà. Ma una cosa è certa; continuerò a frequentare questo autore, nella fiduziosa attesa del romanzo perfetto, che se ancora non c’è forse ci sarà in futuro.
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