Chiunque dica che Daphne du Maurier era una buona scrittrice di neogotici del novecento, sbaglia. E sbaglia anche chi dice che era un’ottima scrittrice romantica del secolo scorso; no, la verità è che la Du Maurier era un GRANDE narratrice, una delle migliori del ventesimo secolo. Certo, non sarà mai stata apprezzata dall’intellighenzia ne mai è stata candidata al Nobel, ma ciò non dovrebbe interessare alla grande porzione dei lettori che leggono per il puro piacere di leggere, di evadere dalla tetra quotidianità grazie a una bella storia; e di belle storie oh, se la Du Maurier ce ne ha regalate. Storie fosche, intense, assolutamente non sdolcinate ma anzi spesso dure e violente, capaci di far sognare ma anche sgomentare. “La prima moglie” è un capolavoro dell’ambiguità, e lo è anche “Mia cugina Rachele”, e se poi preferite storie più realistiche allora provate a leggere “I parassiti”, spietata radiografia (parzialmente autobiografica) di una famiglia fuori dagli schemi, più odiosa e snervante che affascinante, uno dei suoi libri più sentiti e impegnativi.
Una giovane, graziosissima Daphne du Maurier
Ma soprattutto Daphne scrisse, specialmente nella prima parte della carriera, romanzi di ambientazione ottocentesca, ambientati nella sua amatissima Cornovaglia, libri in cui le tinte forti e delicate si alternano e fondono mirabilmente; “Spirito d’amore”, “Donna a bordo” e questo “Taverna alla Giamaica” ne sono gli esempi più felici.
Ora, io “ Jamaica inn” lo conoscevo già da ragazzo, ovviamente grazie al film che Hitchcock ne trasse nel 1939, solo tre anni dopo l’uscita del romanzo (anche Rebecca fu filmato quando praticamente era ancora fresco d’inchiostro), il suo ultimo film Inglese prima del grande salto a Hollywood. Io, che a quel tempo di Hitch collezionavo le mitiche VHS della De Agostini attendendo ogni uscita come un evento, ricordo che “La taverna della Giamaica” mi deluse un poco. Visivamente era strepitoso, con quella fotografia brumosa e cupa, ma la sceneggiatura era abbastanza scadente, e il gigionesco supercattivo Charles Laughton era un pesce fuor d’acqua nel film di un regista che esigeva dagli attori un basso profilo e pochissima improvvisazione, e infatti schiacciava con la sua mole (non solo interpretativa) i due protagonisti Maureen o’Hara e Robert Newton, creando un forte squilibrio; semplicemente, fu un film fuori dalle corde di Hitchcock (ma tutte le sue opere in costume sono dei mezzi disastri), diretto in fretta e senza troppa convinzione.
L'edizione Oscar Mondadori
Poi, qualche anno dopo, trovai a un mercatino il libro, nella bella edizione Oscar Mondadori con copertina di Karel Thole e la traduzione di Alessandra Scalero, da sempre una garanzia; e, ora che sono passati parecchi anni e stuzzicato dal recentissimo sceneggiato BBC con la bellissima Jessica Brown Findley ( la Lady Sybil di Downton Abbey, ora attrice lanciata anche sul grande schermo grazie a Storia d’inverno) che si può trovare con sottotitoli in Italiano, mi sono deciso a leggerlo; e ancora una volta ho avuto la riprova di quanto le vie della lettura siano misteriose, visto che non riesco a capire quale demonietto malefico mi abbia tenuto per così tanto tempo lontano da un simile gioiello. Lo dico subito, “Jamaica inn” non raggiunge le vette di romanzi come Rebecca e My cousin Rachel o di racconti come Don’t look now, ma rimane comunque una montagnola di tutto rispetto.
"Audace" copertina dellaprima edizione Italiana
La storia è la seguente; la giovane Mary Yellan, ventitreenne orfana senza prospettive e tutt’altro che una fanciulletta smorfiosa, dopo aver seppellito la madre decide di andare a vivere dalla di lei sorella Patience, una donna che Mary aveva conosciuto da bambina rimanendone molto affezionata, e che ora sa moglie di un taverniere di una locanda immersa nella brughiera della Cornovaglia, vicina al mare; ora, Mary si immagina di trovare un ambiente confortevole e gente quantomeno dignitosa, ma invece si scopre, ancor prima di giungere in loco, immersa in un terribile incubo; la taverna, luogo del quale tutti i bravi cittadini del posto hanno una paura folle e che al dispetto del nome esotico è di aspetto triste e deprimente, si rivela un sordido ricettacolo di attività illecite, la Zia Patience, da lei ricordata come una signora vestita di seta e dai modi affettati, è una povera creatura sfiorita e terrorizzata dal gigantesco, brutale e mefistofelico marito Joss, che la tratta letteralmente come un cane. Nessun avventore si recherebbe mai alla taverna, che infatti accoglie gente solo al sabato sera, tipi loschi e violenti che rispettano Mary solo per paura di suo zio, col quale la ragazza ha un rapporto al tempo stesso di odio e disprezzo e di una certa perversa, inattesa affinità, che porta i due a rispettarsi a vicenda, infatti la ragazza, anziché fuggire come avrebbe voluto in un primo momento, decide di sfidarlo, di restare per aiutare sua zia, per proteggerla il più possibile da ulteriori angherie.
Jessica Brown Findlay nello sceneggiato BBC
La ragazza si rende ben presto conto che lo zio è immerso fino al collo in qualcosa di losco, e crede che di tratti di un traffico di merce di contrabbando gestito su larga scala, ma le cose in realtà stanno molto, molto peggio di quanto Mary supponga..
Non voglio davvero svelare di più per non guastare all’eventuale lettore il piacere di una bella storia goticheggiante sanguigna e passionale (Mary troverà in quella desolazione qualcuno da amare con tutta se stessa e dessere riamata, anche se questo ha ben poco del principe azzurro) ma soprattutto un autentico Thriller di alta scuola, con misteri disseminati con maestria, ottimi colpi di scena e un grande uso del suspense, e un enigmatico, sfuggente mister x da individuare; infatti appare chiaro che Joss è troppo stupido per essere il capo di tutta l’organizzazione, che qualche insospettabile nell’ombra maneggia i fili dall’alto.
Mi sono reso conto, a lettura ultimata, di quanto le mie impressioni di sceneggiatura mediocre del film Hitchcockiano fossero esatte; innanzitutto, ed è un peccato, il segreto dei contrabbandieri viene svelato fin dalla prima scena, rinunciando al suspense in crescendo del romanzo; molti personaggi sono espunti, banalizzati o del tutto snaturati, e nonostante la trama sia ridotta all’osso il film riesce a essere a volte noiosetto, cosa che il libro non è mai.
Lo sceneggiato BBC, pur se impreciso in alcune caratterizzazioni ( se la Brown-Findley nella parte della sensuale e contadinesca Mary è senz’altro più indicata della troppo virginale Maureen O’Hara, per gli altri ruoli gli attori del film del 1939 erano assai più azzeccati) ed esagerato in alcune soluzioni visive, è assai più fedele al testo, anche perché la lunghezza ( tre puntate di un’ora l’una) consente senz’altro un maggiore approfondimento.
In ogni caso, se non conoscete questa storia e ne siete interessati, il mio consiglio è questo; prima procuratevi (non è difficile) il libro, poi casomai guardatevi lo sceneggiato BBC e solo in ultima battuta, ma solo per apprezzarne gli scenari e la fotografia, il film Hitchcockiano. Ma ripeto, prima il libro, per rendersi conto appieno dell’arte sopraffina di quella grande autrice che era Daphne du Maurier.
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