Credo che tutti i giallofili concordino con me sul
fatto che Anthony Berkeley Cox (assieme a John Rhode, Henry Wade e Richard
Austin Freeman) meriterebbe una fama ben maggiore di quella che ha e un posto
in quell’olimpo occupato da quelle 4 o 5 divinità la cui opera e la cui memoria
è tramandata con più “spinta” alle nuove generazioni. Se Agatha Christie e
Conan Doyle li conoscono anche i bambini, se Chandler e Hammett sono emblema di
un’epoca, se Ellery Queen e Carr sono i beniamini di coloro che amano i
virtuosismi del poliziesco, Berkeley e gli altri sopra citati si ricordano poco
e male; sconosciuti ai non appassionati del genere, ignorati dalla grande
comunicazione mediatica, in pratica bisogna andarseli a cercare con fatica e
sudore. E anche se Berkeley , grazie a Mauro Boncompagni e la redazione del GM
odierno, viene riproposto spesso anche con inediti, la sua fama resterà per
sempre circoscritta agli amatori.
Peccato, è come avere un Platini o uno Zidane e farlo
giocare in serie B, tanto per capirsi. Se fossi nello staff della Mondadori mi
batterei per ristampare Berkeley negli oscar, memore della felicissima, recente
riproposta dei romanzi di Josephine Tey.
Un esempio della grandezza di Berkeley è questo
misconosciuto “Silk stocking murders” Pubblicato nel 1928 e quarto romanzo con
protagonista l’originalissimo scrittore e investigatore dilettante Roger
Sheringham, che nel corpus dei detective del poliziesco fa storia a se; uomo
molto diretto, quasi rozzo, senza quegli orpelli e quei vezzi che facevano
tendenza all’epoca; in pratica, nella sua normalità, Sheringham al tempo era
quasi rivoluzionario, perché un uomo della strada ai tempi dei Poirot o Van
Dine non era roba da poco.
Ma Berkeley con questo romanzo crea anche uno dei primi
archetipi sul tema dei delitti seriali; ben prima de “La serie infernale”
e “Il gatto dalle molte code” l’autore
ci presenta infatti un assassino che uccide alcune giovani donne con la stessa
inquietante modalità (le impicca con una calza tolta alla vittima stessa;
notare la componente erotico-fetish per l’epoca abbastanza forte), vittime che
apparentemente non hanno alcun nesso tra loro, che appartengono a ceti e
ambienti assai diversi (un’attricetta, una prostituta, una lady ricca e snob) e
hanno in comune solo il fatto di essere cadute nella trappola di un diabolico
assassino che si aggira nel formicaio Londinese.
La polizia, assai miope, pensa che i primi omicidi del
maniaco siano solo banali suicidi. Ma Sheringham, che tramite il quotidiano di
cui cura la pagina di cronaca nera ha ricevuto una pietosa lettera dal padre di
una delle ragazze scomparse, inizia a indagare su tutta la faccenda e capisce
subito che le coincidenze tra i delitti sono troppe, e intraprende quindi un’indagine
molto complicata, coadiuvato da amiche e
parenti delle donne uccise (bellissima l’amicizia che nasce tra
Sheringham e Anne Manners, una timida ma risoluta ragazza di campagna sorella
della prima vittima) e dopo un certosino procedimento di eliminazione dei
sospetti giunge all’individuazione del colpevole, che smaschererà in un
finalone di grande suspense.
Il ritmo del libro, è giusto sottolinearlo, è
abbastanza lento; somiglia in questo a un romanzo di Austin Freeman o di
Crofts, ogni indizio viene vagliato, ogni coincidenza verificata con
un’attenzione estrema; ma in questo caso lento non significa noioso, perché
Berkeley sa sempre tenere desta l’attenzione, riuscendo a intrigare anche il
lettore più superficiale, e col passare dei capitoli l’empatia verso i
personaggi aumenta, ci sentiamo a disagio per come possa andare a finire; ed è
proprio in quel senso di disagio che si avverte la grandezza di questo
splendido ibrido di giallo classico e thriller puro, purtroppo disponibile
nella sola edizione dei classici del giallo n. 846, e ottimamente tradotto da
Mauro Boncompagni, grandissimo esperto dell’autore che ha curato anche le
recentissime ultime uscite dei romanzi dell’autore nei GM.
Un libro bello quanto importante, assolutamente da
avere e da leggere, come tutti gli altri Berkeley.
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