lunedì 25 maggio 2015

"LO STRANGOLATORE DI SEDGEMOOR" DI PETER LOVESEY.


 

Peter Lovesey, classe 1936, è senz’altro uno dei giallisti contemporanei più giustamente famosi ed elogiati, e tra i viventi credo sia il miglior continuatore, assieme a Paul Halter, della tradizione del grande poliziesco classico.
 
l'autore
 

Anche se Lovesey non ha scritto nessun poliziesco per cui usare l’impegnativo titolo di capolavoro, raramente una sua  pagina mi ha annoiato o fatto cascare le braccia. Dotato di una penna leggera e accattivante, le sue opere possiedono, se non gli intrecci, una leggibilità degna della Christie. Ho letto ancora poco dell’autore, ma “Morire dal ridere” giallo “storico” ambientato nel mondo delle comiche della Keystone di Mack Sennett, mi era sembrato un romanzo assolutamente impeccabile, così come “Colpo di scena” uno dei romanzi più recenti in cui compare Peter Diamond, il suo investigatore più noto. Ambientati in una Inghilterra contemporanea smaliziata e profondamente trasformata rispetto a quella dei romanzi della Golden Age (credo che in nessun posto come l’Inghilterra le cose siano cambiate così radicamente negli ultimi decenni) Lovesey, come Colin Dexter, ci regala però storie non troppo morbose e orripilanti come i gialli Svedesi che tirano oggigiorno, ma scrive i libri che scriverebbe la Christie se vivesse nel nostro tempo; e se negli ultimi suoi romanzi dame Agatha aveva cominciato a suggerire temi ai tempi proibiti come l’amore saffico o i rapporti familiari morbosi, adesso non avrebbe problemi a rendere il tutto esplicito; ormai niente è tabù, basta solo non esagerare con la brutalità, e Lovesey, almeno nei libri che ho letto, non tracima certo di effettacci pur non risparmiandoci i pugni nello stomaco.

L’opera che presento in questo post non è un romanzo, ma un racconto di quaranta pagine circa, che da il titolo a un bel supergiallo (caro, vecchio, estinto supergiallo…) del 2003 curato da Mauro Boncompagni e che comprendeva parecchi racconti di Lovesey, tra cui un apocrifo Sherlockiano.
 
 

Il racconto mi ha conquistato fin dalla prima riga soprattutto a causa dell’ambietazione, ossia quel Somerset paludoso e misterioso con quelle contee coi nomi che terminano in “moor”, luoghi resi mitici non solo dal Conan Doyle del Mastino dei Baskerville, ma anche da Edgar Wallace, che in più di una sua storia fa evadere prigionieri dalla famigerata prigione di Dartmoor, siano essi poveri innocenti in cerca di riabilitazione o criminali incalliti che fuggono per vendicarsi di chi, in quel posto, ce li ha mandati.

Lovesey però ci racconta il Somerset di un secolo dopo gli eventi del Mastino; siamo infatti nel 1995, data facilmente intuibile visto che due dei protagonisti della vicenda vanno al cinema a vedere “Seven” l’agghiacciante pellicola di David Fincher con Brad Pitt e Morgan Freeman che rimarrà come uno dei classici di fine millennio.

Le atmosfere tetre delle paludi di giuncaglie non mancano, ma Lovesey ci descrive realtà molto più prosaiche, ossia una coppietta che si apparta per consumare uno squallido rapporto sessuale in mezzo agli acquitrini, con lei, una ragazzina ben lontana dalle composte fanciulle di Wallaciana memoria, che si spazientisce perché il suo lui non viene subito al dunque e lei, completamente nuda nella brughiera notturna, prende freddo. Quindi ragazze incoscienti, che si appartano nella notte buia con uno sconosciuto, e infatti, perché anche se adesso i tabù sono caduti alla gente bisogna lo stesso fare attenzione, la ragazza viene strangolata senza pietà.

Ci spostiamo poi un uno dei molti pub di quella landa desolata, quasi una “bassa” Inglese, dove la giovane cameriera Alison Harker, di una bellezza quasi preraffaellita, sprecata a servire drink e birra ai rozzi sfaccendati della zona, fa conoscenza con Tony, un uomo affascinante, distinto e facoltoso che gira in Mercedes e passa da quelle parti per caso. Tra i due c’è subito attrazione, lui la invita ad uscire e lei accetta, e passa una bella serata anche se si stupisce del fatto che lui non la porti subito a letto; lo sguardo di Lovesey sui rapporti di coppia, almeno in questo racconto, è desolante; sembra che, tra uomini e donne, ci si avvicini solo per un motivo, e qualsiasi romanticismo diventa quasi sospettoso. Infatti, quando un altro cadavere, sempre di una giovane donna, viene ritrovato, e un poliziotto suppone che l’omicida sia un maniaco seriale il cui raptus omicida scatta quando riceve delle avances da una donna consenziente, Alison viene sfiorata dal terribile sospetto che lo strangolatore di Sedgemoor sia proprio il suo Tony, che ha tutti i requisiti per esserlo, cosa che finisce per pensare anche la popolazione del luogo, che, killer o non killer, non gradisce chi viene a corteggiare le loro donne…

Tutta la prima parte del racconto, l’evolversi del rapporto tra Alison e Tony e il tarlo del sospetto che divora la giovane donna, è di una intensità eccezionale, con una suspense degna della “Scala a chiocciola” di Ethel lina White; peccato però che nella parte conclusiva il racconto inizi a sfilacciarsi un poco e diventare inverosimile; infatti, con tutta la mia buona volontà, non mi riesce immaginare, nell’Inghilterra di venti anni fa, un branco di ragazzotti che perpetra linciaggi stile ku klux klan col beneplacito del resto della popolazione,  come anche l’identità del colpevole finisce per essere assai prevedibile per un lettore un minimo smaliziato; tutti elementi che finiscono per deturpare una vicenda che, con una ventina di pagine in più e senza esagerazioni, poteva risultare un piccolo gioiello prezioso, ma che così resta “solo” una buona storia.

Però, lasciatemelo dire; so che ormai i rapporti tra uomini e donne sono come li descrive Lovesey (se non peggio) e non ho nulla in contrario, ma che nostalgia, che nostalgia per le virginali ragazze in pericolo di Wallace, in fondo molto più sexy di una Alison qualsiasi proprio per quel loro reiterato, provocante pudore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sabato 2 maggio 2015

“IL MISTERO DEL CASTELLO” DI NALIM (BIBLIOTECA DEI MIEI RAGAZZI SALANI)


Ogni buon bibliofilo che si rispetti conosce le antiche, prestigiose collane della casa editrice Salani sita in Firenze, da più di 150 anni uno di fiori all’occhiello della nostra editoria. Per un bibliofilo Fiorentino, poi, averne in casa dei volumi è quasi un obbligo; collane di romanzi popolari entrate nella storia come “I romanzi”, “La biblioteca delle signorine”, “La biblioteca delle giovinette” che pubblicavano nella stessa collana non solo autori e autrici di genere ma anche Manzoni, D’azeglio e molti grandi classici Francesi e Inglesi, sono rimaste nella storia. Erano volumi con sovraccoperte eleganti, finemente illustrate da maestri come Micheli e Cavalieri, che sono una vera gioia per gli occhi e per la mente. Ma tra tutte le collane del periodo di maggior fulgore della casa editrice (dagli anni dieci agli anni trenta) quella che oggi è più ricercata, specialmente qui a Firenze dove per i volumi in ottime condizioni alcuni collezionisti non esiterebbero a incrociare le spade in un duello rusticano, è una collana che fu pensata per i giovani, la “Biblioteca dei miei ragazzi”.

Cosa ha di speciale questa collana? Molto. In origine ne uscirono 99 volumi, che costituirono il vero e proprio diletto maximo per quelli che erano bambini/ragazzi negli anni trenta a Firenze; un signore ultranovantenne che conosco mi ha confessato che quegli eleganti volumetti dalla sovraccoperta “continua”, ovvero un’unica illustrazione che dalla prima di copertina di estendeva alla quarta, dorso compreso, erano il regalo natalizio più desiderato dai fanciulli di allora, e, ridendo, ha ammesso di collezionarli in tarda età perché, ottanta o quasi natali prima, ne aveva desiderati alcuni senza poterseli permettere.

Erano perlopiù storie romanzesche a lieto fine, ma mai pedanti o zuccherose come altri romanzi per ragazzi, bensì avventurose, accattivanti e con traduzioni scattanti e ancora fresche (C’erano autori Italiani come Chelazzi e Pessina, ma per il resto erano quasi tutti autori Francesi) e spesso, come si vedrà, venate di mistero oltre che di garbato umorismo, elementi indispensabili nei libri per la gioventù.

Insomma, almeno per qualche altro decennio (almeno spero) la collana sarà ancora ricercata accanitamente perlopiù da persone ben lontane dall’essere ragazzi; io, famoso ormai tra i libri di Firenze come l’unico giovane che la cerca, evito gli esosi librai da collezionisti e la cerco in bancarelle e mercatini (o alla libreria della signora Deanna in via Ghibellina, vero paradiso di meraviglie a prezzi onesti) e senza spendere cifre alte ne ho già in casa una ventina.

Ma io, al contrario dei nostalgici, se colleziono dei libri non è per far fare loro bella mostra negli scaffali ma per leggerli; per cui, senza pregiudizio alcuno verso la letteratura etichettata per ragazzi, ho già letto qualche titolo, dando la precedenza, dati i miei gusti, ai titoli dall’aria più “misteriosa”, ovvero romanzi dai titoli come “Il segreto dell’uomo di ferro”, “La teleferica misteriosa” (uno dei più noti e ristampati della collana, un vero e proprio giallo molto carino di cui parlerò prossimamente) e soprattutto “Il mistero del castello”, uno di quei titoli evocativi al quale il sottoscritto non ha mai saputo resistere, visto che adoro sia i castelli che i misteri. Scritto dal misterioso “Nalim”, pseudonimo di un autore (o autrice?) Francese di libri di genere, la lettura di questo romanzo si è rivelata assolutamente deliziosa anche per un ex-ragazzo (ma non troppo ex, dai…) del 2015.
 
Copertina originale nel formato "continuo" di cui vi parlavo (fonte; sito Libreria Marco Polo)
 
 
Siamo nel nord della Francia, più o meno ai tempi dei tre moschettieri. Infatti si inizia quasi come un cappa e spada, con gentiluomini a cavallo dal temperamento fermo e ardito, raccontando la storia del Cavalier di Brenne, uomo molto buono e onesto ma sul cui onore pesa un grosso sospetto, sospetto che gli ha inviso una parte dei suoi vecchi conoscenti e amici, compreso il migliore di essi che, incontrandolo in una taverna, non vuole nemmeno stringere la mano che il cavaliere gli porge, lasciandolo addolorato  e con gli occhi pieni di lacrime.

La macchia sull'onore del Cavalier di Brenne, proprietario del piccolo Kerjonc, un grazioso castello confinante con il più vasto grande Kerjonc, appartenente a un signorotto con la puzza sotto il naso, risale a un enigmatico fatto avvenuto alcuni anni prima; durante una notte di tempesta, un messo che trasportava una ingente somma di denaro destinata al Re chiese ospitalità al signor di Brenne, che ovviamente lo soccorse e gli destinò una stanza per la notte tra le migliori del castello; la mattina dopo però, nonostante il messo avesse chiuso a chiave la porta dall'interno e sulla neve sotto la finestra (peraltro chiusa) non ci sia orma alcuna, il sacco coi denari risulta scomparso, e anche se poi l'indagine non ha portato a niente, l'onta sul capo del Cavaliere è rimasta, e pesante.

Un inizio, quindi, da giallo della camera chiusa in piena regola; ma "Nalim" non è certo Carr, e infatti trasgredisce alla prima ferrea regola degli enigmi di camera chiusa, ossia "Non ci devono essere passaggi segreti di nessun tipo", ma invece esso, per la delusione dei giallofili, c'è eccome, seppur abilmente celato.

Il passaggio, che tra l'altro collega i due castelli, verrà scoperto per caso, anni dopo, da Matilde, simpatica e irrequieta figlia del proprietario del grande Kerjonc, che lo utilizza per andare a trovare la piccola, adorabile amichetta Renata, orfanella pietosamente adottata dal Cavaliere di Brenne; le due bambine, le vere protagoniste del romanzo, indagheranno assieme sul mistero del castello (anzi, dei due castelli) e se tutto alla fine, compresa l'identità del colpevole, sarà abbastanza scontato, (curioso però il risvolto psicologico; costui ruba non per sete di ricchezza ma per pura cleptomania, non spende un soldo delle sue rapine ma adora passare il tempo a contemplare le monete nel forziere, quasi un antenato di Paperon de Paperoni) il lettore con la giusta empatia verso questo tipo di libri troverà lo stesso di che emozionarsi e divertirsi, perchè il ritmo è eccellente e non conosce cedimenti, i personaggi, a cominciare dalle bambine, sono adorabili, il decor è gustoso ed  bello perdersi in passaggi segreti tenebrosi che conducono chissà dove...forse da qualche parte nell'immaginario della nostra infanzia, che per quanto mi riguarda talvolta provo piacevole ritrovare.

Insomma, alcuni di questi volumi della Biblioteca dei miei ragazzi sono assolutamente da leggere, e non solo da collezionare per le copertine o per vantarsene (con chi poi?), storie senza tempo che possono ancora dare molto.

Tra l'altro, questo e altri titoli tra i più noti della collana come "Otto giorni in una soffitta", "La piccola pantofola d'argento", "Il fanciullo che venne dal mare", "Lupo, ci sei?", "La teleferica misteriosa", "Sussi e Biribissi"  e altri ancora, furono ristampati dalla Salani in vari formati anche nel dopoguerra, e non sono impossibili da trovare nelle bancarelle, anche se il fascino dei volumi anni trenta resta irraggiungibile.

Insomma, Biblioteca dei miei ragazzi? no, figuriamoci se i ragazzi ora leggono questi libri, non fosse altro perchè non sanno cosa siano; Biblioteca per adulti senza pregiudizi e snobismi letterari, direi.