venerdì 26 febbraio 2016

IN MEMORIA DI UMBERTO ECO; "IL NOME DELLA ROSA".


La recente scomparsa di Umberto Eco ha lasciato non solo un vuoto culturale enorme (l'autore era ancora attivo e aveva molto da dare, ed inoltre era l'unico autore nostrano che ancora poteva aggiudicarsi il premio Nobel per la letteratura, ormai una chimera in perpetum) ma ha lasciato soli anche due generazioni di lettori (ce ne sarà una terza?) che, per piacere o per pura sfida letteraria, hanno affrontato i suoi libri.
Ho molto caro Umberto Eco, perchè  rappresenta una tappa importante nella mia vita letteraria, ovvero la prima sfida vinta con i libri "Impegnativi"; all'abbastanza tenera età di tredici anni e mezzo, durante la terza media, folgorato dal film di Annaud (che rivisto ora non è questo gran che, ma all'epoca mi avvinse per le atmosfere gotiche innegabilmente ben rese) mi recai nella biblioteca di Casalguidi (il mio paesello natio, provincia di Pistoia) e ne reperii l'unica copia disponibile. Sulle prime, pensai di gettare la spugna; citazioni di un Latino che mi era del tutto estraneo (e anche ora non è che gli dia del tu...) la visione di Adso nel portale che mi confuse, nozioni storiche abbastanza pesanti; ma, proprio prima del ko, il libro finì per avvincermi, e lo terminai proprio uno o due giorni prima del mese a disposizione.


Negli anni l'ho riletto varie volte, e a ogni nuovo incontro con questo testo favoloso trovo nuove sfumature, cose che mi erano sfuggite oppure avevo dimenticato, e mentre leggo una parte di me rievoca ancora il preadolescente che muove i primi passi nel sentiero sfavillante della cultura letteraria. Poi, negli anni successivi, ho letto altri suoi romanzi, dal "Pendolo di Foucault" che si, come si sa è abbastanza ostico ma se si arriva fino in fondo ci si accorge che forse è addirittura superiore al Nome della rosa, o ancora l'incantevole "L'isola del giorno prima" romanzo che è piaciuto a pochi ma che ho adorato proprio per quella sua aria fintamente snob ma in realtà giocosissima, per quel suo rifarsi agli scatenati  testi narrativi avventuroso-illuministici alla Voltaire; così come è eccezionale la scanzonata epica medievale di "Baudolino", fino alla "Misteriosa fiamma della regina Loana", libro grazioso e senza troppe pretese dove un uomo affetto da amnesia cerca di ricostruire il suo passato attraverso le sue letture di fanciullo (potrei farlo anch'io un giorno, chissà), Poi ho perso interesse, e gli ultimi due romanzi non li ho ancora letti, ma forse è il momento di cominciare a recuperarli.

In ogni caso il romanzo più  famoso di Eco resta il primo, quello più letto, amato, citato anche dai giovani lettori; infatti, almeno negli anni novanta Il nome della rosa (assieme a L'insostenibile leggerezza dell'essere e Il giovane Holden)  era forse il romanzo prediletto dai liceali che volevano "darsi un tono", cosa più che capibile, visto che lo facevo anch'io.

La trama del libro è abbastanza nota; l'acutissimo e molto stimato frate Francescano Guglielmo da Baskerville (L'omaggio al capolavoro di Conan Doyle è ovvio e voluto) , un'autorità religiosa dall'oscuro passato, si reca col novizio a lui affidato, il Benedettino Adso da Melk, in una imponente abbazia "della quale è bene tacere anche il nome" da qualche parte nel nord  Italia; in essa si consumano una serie di morti misteriose legate a un'oscura profezia apocalittica, e Guglielmo sembra proprio la persona adatta a sbrogliare l'intricatissima matassa; chiave del tutto è un misterioso libro gelosamente custodito nell'inaccessibile biblioteca dell'abbazia, un libro che avrebbe un potere terribile...

Inutile raccontare di più, questo è il classico libro che chi lo ha letto ricorda benissimo, e chi non lo ha letto deve saperne il meno possibile per non rovinarsi il piacere di una lettura di rara bellezza sotto tutti i registri, ovviamente non classificabile come giallo puro ma più come romanzo storico- politico, pamphlet filosofico, commedia di costume dell'epoca e molto altro; tanti generi frammisti che ne rendono impossibile ogni classificazione, destino di tanti grandi libri.

In ogni caso, che Il nome della rosa sia anche un grande thriller, è fuori discussione; una serie di morti impossibili e grandguignolesche da far invidia a Fantomas o al primo Carr dei romanzi di Bencolin; spiegazioni dei delitti abbastanza improbabili come vale per quasi tutti i grandi gialli, ma in ogni caso plausibili e non di rado geniali; atmosfera gotica opprimente come raramente accade, tutti i topoi del medioevo tenebroso sono sfruttati con calcolata maestria, e il romanzo riesce davvero a dare quei piacevoli brividi quasi da horror che in fondo ogni vero lettore di gialli apprezza.

Certo, se si asciuga il romanzo dalle digressioni storico-filosofico-mistico-romantico- scientifiche per cercare il puro thriller, esso non sarebbe più lungo di un normale romanzo della Christie; ma, come scrisse lo stesso Eco a proposito del Conte di Montecristo di Dumas, è proprio a causa di ciò che la grande macchina romanzesca funziona, ci sono opere splendide proprio perchè sembrano eccessive, perchè paiono squilibrate e disorganiche e cambiano continuamente registro narrativo; lo stesso Eco rimane forse il romanziere contemporaneo d'intrattenimento (perchè, non dimentichiamolo, i libri di Eco sono di alta fattura e piuttosto impegnativi, ma restano opere d'evasione) più caotico e disorganico, ma mai (o quasi) un caos fine a se stesso, per dimostrare al pubblico quanto è colto, cosa che puntualmente fanno notare i moltissimi suoi detrattori; tutto, almeno nel nome della Rosa, funziona perfettamente al fine di realizzare non tanto un affresco quanto un imponente e splendido arazzo, con innumerevoli robusti fili che creano una struttura di grande robustezza e finezza al tempo stesso.

Insomma, un capolavoro della letteratura tout-court che è anche una delizia per noi giallofili, con innumerevoli tentativi d'imitazione (ha aperto un vero e proprio filone) che mai avranno la bellezza del grande capostipite: lo si ami o lo si odi, di Umberto Eco ce n'era  solo uno, unico e, ahimè, credo ineguagliabile. Ciao, Umberto, e grazie di tutto.

martedì 16 febbraio 2016

UNA RILETTURA NOIR DI "UN AMORE" DI DINO BUZZATI.


Il compianto Dino Buzzati è uno dei letterati Italiani del secolo scorso che più mi è caro, per parecchi motivi; è stato uno dei pochi a rompere gli schemi dell’asfittica letteratura del tempo votata principalmente al realismo, e soprattutto non si è mai fatto problemi nell’elogiare la cosiddetta letteratura popolare; grande estimatore di fantascienza e horror, cultore di fumetti Disney e in particolare di Carl Barks (famosa la sua splendida prefazione all’Oscar Mondadori Vita e dollari di Paperon de Paperoni, prima raccolta organica realizzata in Italia delle storie del genio dell’Oregon) questa passione per il fantastico e le tinte forti si ritrova anche nei suoi racconti più giustamente famosi, da “Sette piani” a “Il colombre” fino all’agghiacciante “Il sogno della scala”, uno dei miei preferiti, nel quale un uomo vede pian piano svanire la lunga scalinata che sta salendo.


I suoi romanzi furono pochi, ma sempre di grande effetto; e se il suo più famoso è senz’altro “Il deserto dei tartari” quello che però sento più mio e a cui sono più affezionato è senz’altro “Un amore” romanzo del 1963 che a detta di tutti è il suo capolavoro “Realistico” ma che, dopo una terza rilettura, il sottoscritto reputa a tutti gli effetti un vero e proprio noir alla James Cain, che del genere ha dato forse gli esempi più alti, lucidi e disperati; da “Il postino suona sempre due volte” a “La fiamma del peccato” , per proseguire con “Serenata” e fino a “Mildred pierce” , i capolavori si sprecano, e mi piace immaginare che Buzzati li avesse bene in mente quando stese il suo romanzo.
Parliamo, appunto, di questo “Un amore”. Nella suggestiva cornice di una Milano alle soglie del boom economico, città già proiettata verso un luminoso futuro ma non ancora  metropoli o “da bere” (Le descrizioni dei vecchi quartieri pian piano fagocitati dalla ristrutturazione edilizia sono un vero documento d’epoca, oltre che estremamente emozionanti) si consuma il dramma di Antonio Dorigo, cinquantenne pubblicitario di successo che perde pian piano ma inesorabilmente la testa per una giovane prostituta diciottenne, Adelaide detta Laide, fino a diventare consapevolmente suo schiavo, scendendo tutta la scala della degradazione morale.



Il romanzo inizia quasi in sordina, coi loro incontri clandestini nella sartoria-casa d’appuntamenti di madama Ermelina (la legge Merlin che sancì la fine delle case chiuse legalizzate era stata da poco approvata) Dorigo è un tipico uomo del boom, arido e pragmatico, che guadagna bene col suo lavoro, si permette settimane bianche e incontri con prostitute. Paradossalmente, Laide (che in Francese peraltro significa “brutta”, e credo che con ciò l’autore voglia descriverla in un solo aggettivo) non è nemmeno una ragazza per cui vale la pena perdersi; creatura di rara sgradevolezza, sgarbata, ignorante e di una meschinità troppo esemplare per non essere autentica, per giunta nemmeno bellissima, ha solo un fascino ambiguo quasi da bambina (e qui si va sul perturbante, in quanto si può immaginare una pedofilia latente da parte di Dorigo…) e la furbizia della cortigiana che considera da stupide lavorare quando con meno fatica si può guadagnare il triplo. Laide, bugiarda nel sangue, non arretra davanti a niente; non esita a farsi accompagnare da altri clienti o amanti da Dorigo, si inventa scuse sempre meno plausibili per giustificare le sue assenze, è sempre maligna e imbronciata, incapace di qualsiasi tenerezza. Nel corso del romanzo, Dorigo viene a sapere verità sempre più sconvolgenti;  Laide posa per foto pornografiche, eccelle in pratiche “proibite”, addirittura viene fatto capire che si prostituisce anche con donne (Cosa, per l’Italiano medio del tempo, oltre ogni immaginazione) ;ma Dorigo, proprio come gli antieroi di Cain, più è cornuto e mazziato e più si innamora follemente e si degrada fino al parossismo, rifiutando in blocco la realtà delle cose, e  finendo per ricordare l’assurdo protagonista de “La ballata dell’amore cieco” di De Andrè. Certo, Laide non chiederà a Dorigo di uccidere qualcuno, “solo” di uccidere se stesso; manca l’elemento strettamente criminale quindi, ma il pathos di una vita che lentamente si brucia a causa questa improbabile e francamente ripugnante dark lady (avesse almeno il fascino di una Lana Turner o di una Barbara Stanwyck…)  è appunto degno dei migliori neri Americani.
E anche il finale, confuso e sfuggente, non fa che amplificare la dimensione desolante in cui il protagonista è precipitato; Laide vuole tenerlo a se, sembra aver capito i suoi errori, sembra decisa a cambiare vita e gli dice addirittura di aspettare un figlio da lui; tutto rimane in sospeso, chi ci vuole credere ci creda sembra voglia dirci Buzzati, ma il lettore smaliziato non può fare a meno di pensare che questo non sia altro che l’ennesimo inganno della perfida ragazza, che il figlio è di chissà chi altro, e possiamo immaginare per Dorigo solo altri dolori, altre umiliazioni, e perché no, anche un epilogo tragico, alla Cain appunto; dove c’è degrado e disperazione il delitto germoglia quasi di conseguenza, come un seme malefico.
Insomma, questo romanzo di Buzzati è non solo un capolavoro della letteratura Italiana “seria”  ma anche un grande noir, teso e coinvolgente, che anticipa tutta la grande stagione della Milano violenta di Scerbanenco; per descrivere l’orrore metropolitano e la solitudine umana non sempre servono il sangue e le pistole.

mercoledì 3 febbraio 2016

IL CORRIERE DELLA SERA PRESENTA "I GIALLI ANGLOSASSONI"



Ieri mattina nella mia edicola di fiducia, per puro caso, mi sono imbattuto nel secondo volume di una nuova interessantissima proposta del Corriere della sera, che mi ero perso nei giorni scorsi per un battage pubblicitario non proprio serrato; meglio tardi che mai, in ogni caso.

L'iniziativa, da me largamente auspicata, di riproporre ancora dei Bassotti Polillo a prezzi popolari come successo nel 2013  si è finalmente concretizzata; tornano infatti in edicola venti nuovi titoli, sempre a 6,90.

Come detto, tutti i titoli proposti sono del catalogo Polillo, e ci sono veramente cose ottime, che potete visionare sul sito del corriere store-i gialli anglosassoni (non capisco perchè non mi dia un'url per potervici mandare direttamente da qua...)

Il primo numero in edicola era "L'enigma dell'alfiere" di Van Dine, questa settimana troviamo invece "La signora scompare" di Ethel Lina White; da non perdere la prossima uscita, "Luomo della cuccetta numero 10" della Rinehart, e molte delle successive.

Ora, il mio entusiasmo per l'iniziativa è leggermente smorzato dal fatto di aver fatto incetta di titoli nei reimanders (dove si trovano tuttora) dove molti Bassotti sono tuttora proposti a metà prezzo, ma in ogni caso alcuni titoli (Assassinio nella brughiera, Il mistero del villaggio) si trovano solo a prezzo pieno e vale la pena recuperarli in questa sede.

Una bellissima novità editoriale, che merita molto seguito e molta attenzione, e per me poi che adoro i libri in edicola, è sempre un piacere immenso.