mercoledì 26 febbraio 2014

ANCORA LA SAYERS; "GLI OCCHI VERDI DEL GATTO".

Non è mia abitudine commentare su questo blog due libri consecutivi di uno stesso autore, semplicemente perché non è mia abitudine leggerne. A me piace fare il girotondo degli autori che più amo inframmezzandoli a nuove scoperte, per cui succede che tra un bis e l’altro dello stesso scrittore passino almeno dieci o venti altri libri.
Stavolta però, con la Sayers, ho sentito il bisogno del “repetita iuvant” immediato;  un po’ perché avevo trascurato troppo la scrittrice, un po’ perché “Lord Peter e l’altro” è il più bel romanzo letto negli ultimi mesi (a parte Dombey e Figlio di Dickens, che però sto assumendo a piccole dosi), ho subito optato per la lettura di un altro suo libro, e ho scelto “Gli occhi verdi del gatto”, il secondo romanzo con protagonista Peter Wimsey, sia perché è uno dei libri del cuore del mio mentore Sayersiano Yue Lung sia perché introduce alcuni dei personaggi che torneranno nella continuity delle avventure di Lord Peter, come sua sorella Mary, l’Hon. Freddy Aburthnot, il principe del foro Impey Biggs e altri; inoltre è in questo libro che inizia, seppur molto blandamente, l’idillio tra Mary e l’ispettore Parker, ispettore di polizia grande amico di Lord Peter.

si, caro yue, è proprio la tua , te l'ho fregata.

Insomma, un romanzo importante per molti motivi, che però, forse perché ero partito con aspettative altissime, pur essendomi piaciuto non mi ha entusiasmato come credevo.
Innanzitutto, è un libro che, nonostante sia scritto benissimo e con tocchi di Humour davvero deliziosi per tutta la sua durata, non ha la struttura Dickensiana e l’originalità stilistica di Lord Peter e l’altro. E’ un libro più lineare, anche perché si svolge quasi tutto nella tenuta dei Wimsey  chiamata Riddlesdale, nello Yorkshire, che non permette all’autrice grandi palcoscenici per miriadi di personaggi come un’ambientazione Londinese.
E soprattutto è la presa sul lettore che sulle prime difetta; si inizia con un processo un poco lunghetto (ma qui sono io che non amo i procedural, la Sayers non ha colpe), poi si prosegue con un minuziosissimo esame della scena del crimine, poi bisogna prendere confidenza coi personaggi, molti dei quali snob terribilmente calati nel loro ruolo; insomma, almeno per le prime novanta pagine il libro non sembra decollare o meglio, a parte le belle descrizioni e i momenti di Humour davvero brillanti, pare un giallo a enigma un po’ freddo e schematico. Ma quando la storia decolla ( dalla visita alla fattoria Grimethorpe attorno a pagina 90) decolla davvero, e vola felicemente fino alla fine.
Questa la trama; Lord Gerald Wimsey, duca di Denver e fratello maggiore di Lord Peter, è formalmente accusato di aver ucciso il fidanzato della sorellina Mary, un equivoco giovanotto di bella presenza e dal passato misterioso di nome Denis Catchcart; Lord Gerald appare come principale sospettato perché poche ore prima aveva avuto una lite col futuro cognato talmente aspra da spingerlo a gettarlo fuori di casa e porre il veto al suo rapporto con Lady Mary, e poi perché è stato trovato vicino al cadavere, durante la scoperta di esso nel bel mezzo della notte. Il mistero appare subito molto complicato; omicidio o suicidio?  Perché un gentiluomo come Lord Peter dovrebbe aver perso la testa in modo tale da ucciderlo? E se non è stato lui, è stata forse la stessa Lady Mary? O magari uno degli ospiti di Riddlesdale?

Una amletica Dorothy Sayers

A rispondere a tutte queste domande riuscirà, con l’aiuto dell’ispettore Parker e del formidabile valletto Bunter , Lord Peter Wimsey, che oltre a risolvere il mistero contribuirà a mantenere intatto l’onore di molti personaggi della vicenda, sia uomini che donne.
I punti di forza del romanzo sono molti; innanzitutto dopo le prime fatidiche 90 pagine lo scenario si fa mosso, abbonda l’azione e il ritmo è sempre più serrato, e ci sono sequenza davvero riuscite e irresistibili, iniziando dalla burrascosa visita di Lord Peter in una fattoria dove un uomo rozzo e brutale tiene praticamente prigioniera la giovane e bellissima moglie, amara riflessione dell’autrice sulla triste condizione della donna (specialmente nelle campagne), per continuare con l’incursione di Lord Peter in una specie di club di simpatizzanti comunisti duri e puri (che l’autrice mette ferocemente alla berlina, con un’arguzia davvero impareggiabile) e proseguendo con  la tragicomica disavventura di Lord Peter che rischia di affondare nelle sabbie mobili di una palude, salvato poi in extremis soprattutto grazie all’opera del fedele Bunter, che nemmeno in mezzo al fango infido perde il suo aplomb e si rammarica che il vestito di sua signoria possa uscire malconcio da quella traversia; proprio Bunter, che in Lord Peter e l’altro fa solo due anonime comparsate, è uno dei punti di forza del libro, essendo a sua volta un segugio formidabile che arriva a informazioni preziose soprattutto circuendo coi suoi modi affascinanti giovani e ingenue cameriere e sartine, un personaggio davvero simpatico e riuscito, che a volte ruba la scena allo stesso Lord Peter.
E anche le numerose scenette comiche (l’ubriacatura collettiva finale è FA-VO-LO-SA) e le facezie di Wimsey alla fine risultano ben scritte e simpatiche, e non irritanti come dice John Curran nei quaderni segreti di Agatha Christie.
Anche il finale, nella sua apparente semplicità, risulta convincente e coerente; niente di troppo irresistibile, ma un plot poliziesco di tutto rispetto, questo è sicuro.
Però un buon intreccio e alcune sequenze memorabili, non me ne vogliano i fan dell’opera,  non sono sufficienti a fare un capolavoro; di questo titolo può a parer mio fregiarsi con pieno merito Lord Peter e l’altro, questo “Clouds of Witness” è “solo” un ottimo romanzo poliziesco che riesce a stare allo stesso livello di molti dei migliori gialli della gloriosa Golden Age ( uscì nel 1927, un anno d’oro), che però non arriva a creare una commedia umana Londinese del novecento, non arriva a essere qualcosa che va oltre come il precedente romanzo dell’autrice recensito su questi lidi.
A quando il prossimo Sayers? Presto, ma non subito.

PS ; se interessati, prendete solo l'edizione del giallo Mondadori con il gatto in copertina con tradotta dalla Griffini, visto che la precedente risulta incompleta.

venerdì 21 febbraio 2014

"LORD PETER E L'ALTRO" DI DOROTHY SAYERS.


La mia “carriera” di lettore di gialli è ormai ventennale; ho iniziato dodicenne nel 1994 con la Christie e i gialli Newton, poi nell’adolescenza li ho letti alternati ai classici e ai romanzi avventurosi e storici (scoprendo comunque autori come Conan Doyle e Van Dine) per poi dedicarmici con sempre più passione e continuità dal 2005 in poi, favorito da lunghi viaggi in treno ai quali sopravvivevo leggendo i gialli che prendevo da una libreria dell’usato vicino all’ospedale Santa Chiara di Pisa dove facevo il mio tirocinio infermieristico, libreria scalcinata quanto si vuole ma con una quantità impressionante di gialli, che mese dopo mese mi divertivo a sfogliare, analizzare e scegliere, prendendo confidenza con i vari autori molti dei quali illustri sconosciuti.
Tra questi libri, me ne erano capitati in mano molti di una certa Dorothy Sayers. Spiccavano per essere ben più voluminosi della media dei normali giali Mondadori, avevano copertine molto “british” perlopiù del grande Carlo Jacono e nelle astute quarte di copertina si dipingevano questi libri come veri capolavori riscoperti, e della Sayers se ne parlava con lodi tanto sperticate da parermi esagerate, visto che una grande pecca della gloriosa collana è sempre stata quello di parlar di ogni autore come un grandissimo, superlativi usati anche per autrici mediocri come la Ferrars e la Foley; in ogni caso, visto che costavano 1,50 euro, li comprai quasi tutti…ma per il fatto che, come sapete, sono pigro, ammetto arrossendo di averli trascurati alquanto. Ok, come scoprii ben presto romanzi come “Il segreto delle campane” o “Alta marea per Lord Peter” non era proprio il divertente e rilassante giallo da treno che io, povero pendolare sveglio dalle 5 del mattino, anelavo per il viaggio di ritorno; intendiamoci, lo capivo benissimo che erano libri eccezionalmente ben scritti e meritevoli di tutta la stima possibile, e il Segreto delle campane, seppur lottando con la sonnolenza (ma ripeto, non per colpa della Sayers ma del tirocinio) , lo lessi e lo apprezzai moltissimo, ma a volte la vita distrae e disorienta, così  ho riposto quei volumi nel fondo di un armadio e per anni se ne sono rimasti li, probabilmente offesi e imbronciati come lo stesso Lord Peter Wimsey se lo si trascurasse durante un ricevimento.

Una giovane e carinissima Dorothy Sayers

Fondo di un armadio dove forse ancora sarebbero, se non fosse per una persona che talvolta non merito che mi ha spronato a recuperarli, ovvero il blogger e amico di lunga data Yue Lung, che dopo avermi spronato ad approfondire l’opera di Josephine Tey lo scorso anno, per questo 2014 ha ripetuto il miracolo fornendomi un pass incomparabile per riprendere in mano i libri della Sayers, ovvero il suo incondizionato attestato di stima per l’opera della scrittrice, che a me basta e avanza.
Ora, lui se li è letti tutti in sequenza e in ordine cronologico, ma io non ce la faccio ad avere questa costanza, per cui per qualche settimana ho bighellonato sfogliando ora un libro ora l’altro, indeciso su quale leggere per primo e rischiando di fare la fine dell’asino di Buridano; in mio soccorso è arrivata ancora una volta la buona sorte, che dal mio libraio (dell’usato, of course) fiorentino di fiducia ha materializzato una copia del bassotto di “Lord Peter e l’altro”, e vedendolo come un segno del destino l’ho presa (anche perché 5 euro contro 15,40…) e ho cominciato subito a leggerlo.
E ho fatto bene, benissimo, perché questo romanzo è un capolavoro assoluto, uno dei più bei libri Inglesi del novecento; lo posso dire senza rischiare di esagerare, visto che è stato incluso in molte classifiche di letteratura tout court, compresa quella dei “1001 libri da leggere prima di morire” stilata da Peter Boxall.
Innanzitutto, come nel caso di Berkeley e di Nicholas Blake, la Sayers si dichiarava scrittrice di gialli non per vocazione ma per sbarcare il lunario; e, come per gli altri due, non ci credo. No, questi libri erano scritti con troppa passione e competenza per essere dettati solo dalla pancia e non dal cuore. La Sayers, finché ha avuto voglia di scrivere polizieschi (ne ha scritti 12, da noi ne sono arrivati finora solo 11 perché siccome siamo cattivi Gaudy Night non ce lo meritiamo) li ha elaborati mettendoci tutta la sua  arte e tutto il suo vigore.



In pratica, la storia è questa; Lord Peter Wimsey, il famoso (almeno credo…) Pari d’Inghilterra piacente, ricco e snob che si diletta a fare l’investigatore per passare il tempo, viene incaricato dal signor Pym, direttore dell’omonima agenzia pubblicitaria, di investigare sulla morte sospetta di un suo dipendente, tale William Dean, caduto rovinosamente da una scala a chiocciola. Il buon Pym sospetta che qualcuno lo abbia spinto, e vuole vederci chiaro; a Lord Peter non pare vero di giocare per qualche tempo all’onesto lavoratore, e si presenta sotto il nome di Death (morte) Bredon a lavorare nell’agenzia come Copywriter, così che, grazie al contatto diretto con gli altri impiegati, potrà capire per quale motivo uno di loro avrebbe voluto uccidere Dean.
Ma Lord Peter non sarebbe lui se, oltre a investigare discretamente, non prendesse sul serio anche il suo seppur fittizio lavoro; per cui eccolo alle prese con gustosissime peripezie sull’invenzione di spericolati slogan e con la quotidianità di un’agenzia pubblicitaria negli anni tra le due guerre, parte “documentaristica” che da sola occupa almeno un centinaio delle 392 pagine (credo sia il romanzo più corposo uscito nei bassotti), e contribuisce a creare un vero e proprio grande affresco dell’Inghilterra dei primi anni trenta, un affresco in cui Lord Peter, aiutato dall’ispettore Parker, suo cognato per averne sposato la sorella Mary (conosciuta ne  “Gli occhi verdi del gatto” , innamorato riamato ma che non osava dichiararsi per paura del ceto superiore di lei, un po’ come l’ispettore Thomas Pitt con la giovane Charlotte nel primo romanzo di Anne Perry) si muove con grande grazia ed eleganza (e anche charme, visto che per ottenere informazioni non esita a sedurre, pur senza consumare, una bella nobildonna dedita agli stupefacenti e ad altre “perversioni” solo intuibili), finendo per scoperchiare un pericoloso giro di trafficanti di droga, che verrà sgominato dopo un lungo e paziente duello senza esclusione di colpi, che costerà molte, troppe vite.
Da ricordare, tra le moltissime cose, soprattutto lo splendido, struggente finale, niente di particolare dal punto di vista della sorpresa (come con la Tey, l’intreccio giallo è marginale) ma davvero una delle cose più dolorose e commoventi che abbia mai letto, degno del miglior Simenon.
Un’altra cosa che colpisce di questo complesso capolavoro è  la sua struttura profondamente Dickensiana; quasi tutti i  capitoli infatti iniziano presentando ogni volta un nuovo personaggio che sembra non avere legame alcuno con l’intreccio, tratteggiandone la storia personale, talvolta seria o più spesso grottesca fino al momento in cui non entra, anche solo marginalmente, a far parte degli eventi; una peculiarità, questa, tipica del sommo autore Vittoriano. E poi l’eterogenea folla dei comprimari, tantissimi (che rabbia che la Polillo non includa a inizio libro l’elenco dei personaggi principali come il giallo Mondadori) e tutti splendidamente tratteggiati, e nonostante siano perlopiù impiegati, fattorini e dattilografe li si ricorda con facilità; cose che riescono solo ai grandi autori, e la Sayers era davvero una scrittrice di qualità impressionante…. ed ecco, a questo punto di solito molti “espertoni” se ne partono con una (non richiesta) diatriba del tipo “eh, la Sayers e la Tey non concepivano grandi intrecci polizieschi ma sapevano scrivere come grandi artiste, mentre la Christie stendeva plot geniali ma scriveva come una gallina…” Oppure “La Christie è ancora leggibile e la Sayers è datata e noiosissima e va evitata perché rovina il piacere di un buon gialllo…” tutte stupidaggini, mi sia consentito dirlo. Non può esistere un paragone tra la Christie e la Sayers, semplicemente perché non c’è nulla da paragonare. Correvano su binari paralleli ma ben distanziati, praticavano lo stesso genere ma in modo del tutto diverso, e non c’è motivo di amare una e detestare l’altra; certo, si possono apprezzare o meno a seconda dei gusti, ma chi si ostina in simili invettive, mi spiace dirlo, mostra solo la sua incompetenza, e con la sua parzialità perniciosa rischia di privare chi ha la sventura di crederci della lettura di parecchi bellissimi libri.  Per quanto mi riguarda, con questo libro conto di iniziare una piacevolissima liaison  con una grande autrice colpevolmente trascurata per anni.
Per finire, una precisazione; questo “Murder must advertise” va letto solo ed esclusivamente nell’edizione Integrale di A. M. Francavilla pubblicata dalla Polillo, perché quella del giallo Mondadori è leggermente, ma dico leggermente tagliata; del sessanta per cento, più o meno. Si, perché alla fine questo è un libro piuttosto facile da sfoltire; basta togliere tutta la parte migliore, ossia quella non propriamente poliziesca.

mercoledì 19 febbraio 2014

"IL MISTERO DI WHITE COTTAGE", L'ESORDIO DI MARGERY ALLINGHAM.


Gli esordi dei grandi autori di libri polizieschi non sono stati certo tutti dello stesso livello; c’è chi ha iniziato col botto piazzando subito un romanzo-capolavoro ( Agatha Christie, John Dickson Carr, Anna Katherine Green, Mignon Eberhart, Edgar Wallace, A.E.W. Mason) Esordi molto buoni ma inferiori alle opere successive ( Arthur Conan Doyle, S.S. Van Dine, Rex Stout, Dorothy Sayers,  Cornell Woolrich,  Patrick Quentin, Ellery Queen,  Josephine  Tey, Anthony  Berkeley) e altri esordi un poco incerti e migliorabili (Christianna Brand, Charlotte Armstrong, Mary Rinehart), dovuti sia alla giovane età dello scrivente sia al rodaggio di esso verso un genere mai affrontato prima.

Per la grande Margery Allingham, una delle autrici più originali della storia del giallo, che scrisse alcuni dei libri più geniali e sregolati del genere come “Morte di un fantasma”, “Dolce pericolo” e soprattutto il complicatissimo e affascinante “L’ora del becchino” ( uno dei gialli più ostici da affrontare, visto che non è affatto facile seguirne l’intreccio e la prosa quasi alla Lewis Carroll, e anche il sottoscritto lo ha assunto a piccole dosi ) è valsa invece la regola dell’esordio incerto, molto volonteroso e pieno di spunti ma che non lasciava certo presagire l’altissima qualità della produzione successiva.

 l'autrice
 
 
E la Allingham è cresciuta di qualità proprio assieme allo stesso genere poliziesco, visto che il suo primo romanzo “Il mistero di White cottage”, scritto a 24 anni, fu edito nel 1928, periodo di piena golden-age zeppo di capolavori importantissimi; in questi anni fatati per il poliziesco, la Allingham fece un esordio in punta di piedi, stilisticamente goffo e maldestro, ma con un intreccio sempre interessante  e soprattutto una strabiliante soluzione finale innovativa e molto coraggiosa al tempo, che  verrà poi ripresa dalla regina Agatha Christie per uno dei suoi libri più celebrati; per ovvi motivi non posso dire quale, però ancora una volta la Christie è ricordata universalmente per una innovazione alla quale in realtà qualcuno aveva già pensato; era successo anche con 10 piccoli Indiani, la cui idea centrale era ripresa da “L’ospite invisibile” di Bristow e Manning, solo che Agatha con la sua maestria schiantava e relegava all’oblio qualsiasi precursore, privandolo dell’effettivo merito della “scoperta” di un intreccio o di un finale altamente innovativo. Non è giusto, ma così va il mondo; però è anche corretto dare a Cesare quel che è di Cesare, per cui è cosa giustissima anche dare risalto al testo della Allingham, reso disponibile in Italiano solo molto recentemente, nel giallo Mondadori numero 3005 del 27/5/ 2010, e tradotto splendidamente da Grazia Griffini.

Una lacuna che si doveva colmare, è che è stata colmata; leggere questo libro infatti è indispensabile per capire il cammino dell’autrice, per capire in pieno la sua evoluzione  stilistica.

La storia, narrata con uno stile davvero acerbo ma anche fresco e simpatico, narra di un giovane, Jerry Challonner, che da un passaggio a una ragazza molto dolce e carina afflitta da un bagaglio pesante e una dolorosa bolla sul tallone; proprio mentre sta salutando la ragazza si ode un colpo di pistola, e una cameriera esce urlando di terrore dalla casa dove risiede la ragazza, ovvero il White Cottage del titolo.

In questa candida magione abita la famiglia Christensen; Roger, il capofamiglia invalido dopo un incidente, sua moglie Grace e la loro bambina Joan, affettuosamente accudita dalla bambinaia Norah, una vecchia signora che era stata la bambinaia della stessa Grace e che ama la donna come se fosse sua figlia. La dolce ragazza sui vent’anni con la bolla sul tallone si chiama Norah, ed è la sorellina di Grace.

Jerry, che guarda caso è figlio del grande è figlio dell’ispettore capo di Scotland Yard W.T. Challonner, chiama subito il padre che prontamente accorre; il morto è un certo Eric Crowther, vicino di casa dei Christensen, uno scienziato molto intelligente ma odiato da tutte le persone che hanno a che fare con lui, dai suoi domestici fino alla stessa famiglia Christensen, i cui componenti tormenta e ricatta con sadica crudeltà; quindi appare fin troppo chiaro che a sparare a Crowther con un fucile da caccia è stato uno di loro.

 
Il caso appare al formidabile W.T. Challoner, quasi un Maigret ante litteram tanta è grande la sua umanità ( e anche il suo girovita a quanto pare non scherza), ben più complesso di come poteva apparire sulle prime, e infatti le indagini, tra i Christensen e gli  equivoci ex-domestici del morto, saranno lunghe e laboriose, e costringeranno l’ispettore e il figlio a muoversi in Inghilterra e anche in Francia fino ad arrivare a Mentone, l’ultimo paese abitato che si trova prima di varcare il confine Italiano e arrivare a Ventimiglia; dalla campagna Inglese al confine Italiano attraverso tutta la Francia è un bel viaggiare, per un giallo classico. Quindi un libro molto vario e movimentato, con un intreccio poliziesco classico mischiato  a  un pizzico di quell’esotismo da riviera Francese tanto caro a A.E.W. Mason e alla prima Agatha Christie, visto che c’è anche il mitico “treno azzurro” che andava da Calais alla costa azzurra; un qualcosa di molto piacevole quanto gratuito, visto che il mistero si risolve tutto in Inghilterra e la parte Francese è più un pretesto per movimentare la trama che altro, con delle situazioni decisamente forzate e improbabili storyline alla Conan Doyle con echi di sette pericolose ed ex-galeotti ricattati.

Comunque, anche con questo stile approssimativo e un senso dell’intreccio un po’ vago  il romanzo diverte, è scorrevole e leggero e il lettore arriva magari perplesso ma non affaticato fino al superbo finale, che eleva l’opera da una sufficienza stentatissima a un bell’ottimo; si può dire quel che si vuole, ma in un libro giallo un bel finale conta molto, e da solo può rivalutare tutta un’opera.  Senza un grande finale “L’assassinio di Roger Ackroyd” sarebbe ritenuto uno dei più noiosi e melensi libri della Christie, mentre invece è uno dei più celebrati.

In ogni caso, un libro che un neofita può anche evitare, ma per un appassionato è una lettura assai consigliabile, anche perché la Allingham è un’autrice che una volta letta difficilmente non la si approfondisce, e quindi vale assolutamente la pena di avere nello sfavillante collier della propria biblioteca di gialli anche un piccolo diamante grezzo come questo.

domenica 16 febbraio 2014

"COME UNA MORSA" DI FERGUS HUME.


“Oh, no , ancora un Fergus Hume, che noia!!” diranno i miei pochi ma fedeli lettori. Lo so cari amici, sono già al quarto post sul vecchio Fergus, e vi annuncio subito che non mi fermerò fino a che non avrò recensito tutto il materiale reperibile sull’autore; manca ancora il commento su “L’uomo dai capelli rossi”, poi sui due romanzi editi dalla Garden (Il talismano azzurro e Terrore nell’ombra) e perfino un racconto breve edito dalla Polillo; per cui dovrete bervi l’amaro calice fino in fondo, temo.
Perché “spingo” così tanto un autore ormai sempre più lontano dalla sensibilità moderna? Primo, perché lo adoro e siccome lo staff del blog è composto solo dal sottoscritto il suo parere non è sindacabile, e secondo perché credo che Hume sia uno dei migliori antidoti al “tedio della vita moderna in campagna e in città”, come recitava un antico slogan del giallo Mondadori.
Si, perché ogni volta che il genere umano mi disgusta con le sue meschinità, mi chiudo nella mia stanza, apro un libro di Hume e riprendo fiducia nella vita, curandomi l’anima con quei bei melodrammi a sfondo giallo-rosa, ma un melodramma inteso in senso anglosassone, quindi senza le esagerazioni strappacore stile Invernizio e con un gran senso del ritmo e dei personaggi, stereotipati e prevedibili (come le trame) ma sempre ottimamente gestiti, tanto che sembra di ritrovare ogni volta dei vecchi amici.



Ora, prendiamo questo “Come una morsa”, titolo originale “Jonah’ s luck” e pubblicato per la prima volta nel 1906, uno dei libri migliori dell’autore e anche più rappresentativi della sua poetica. Per adorarlo, vi garantisco, bastano le prime due pagine; si, perché l’autore inizia il romanzo nientemeno che con una citazione dei Miserabili di Victor Hugo, precisamente della famosissima (e sempre meravigliosa, non c’è nulla da fare) sequenza dell’incontro di Jean Valjean con Cosette, quando la bambina vacilla sotto il peso di un enorme secchio d’acqua e l’ex forzato redento le si avvicina e, senza farsi nemmeno sentire, le sfila il manico del secchio dalla manina e glielo porta fino alla locanda dei perfidi Thenardier.
Ora, anche il romanzo di Hume inizia con una ragazza di nome Elizabeth (ma non una bambina, questa è già una giovane donna in età da marito) gracile, pallida e delicata che si trova nella stessa situazione di Cosette; e il Valjean della situazione (anche se ben presto, visto l’inevitabile amore a prima vista tra i due, diventerà un novello Marius) è Jonah Herries, un giovane laureato in medicina la cui pur breve vita ha riservato solo rovesci e amarezze, che si aggira per le native paludi dell’Essex dopo essere fuggito dal crudele capitano di una nave appena giunta in porto, nella quale era medico di bordo. Jonah, dopo aver aiutato la ragazza (che per essere una sguattera ha un aspetto e dei modi decisamente troppo raffinati…) arriva dai perfidi Narby/Thenardier, i gretti e sgarbati padroni della locanda. In questa il giovane, con gli ultimi spiccioli, si ferma per la notte…e il mattino dopo, quando si sveglia, vede accanto a se un rasoio insanguinato, e subito dopo viene scoperto nella stanza attigua un cadavere con la gola tagliata. Tutti i presenti,  gente di rara ottusità, sospettano subito del giovane (tranne ovviamente Elizabeth), la polizia viene chiamata ma il giovane, vistosi perso, riesce a fuggire e a darsi alla macchia allo scopo di trovare lui stesso il vero assassino (particolare che Hitchcock avrebbe adorato); la situazione si fa disperata, ma Jonah per una volta nella vita non è solo, con lui c’è la misteriosa ELizabeth, l’intelligente dottor Browne che lo conosce fin da quando era piccolo, e per un pittoresco saltimbanco ex-poliziotto amico di Elizabeth (giusto, dopo i miserabili mettiamoci anche L’uomo che ride con la citazione di Ursus, Hume doveva amare molto Hugo) che nasconde il fuggiasco nel suo carrozzone.

Da qui parte una intricata, complicata e amabilmente improbabile storia a sensazione che dopo innumerevoli confronti anche cruenti tra buoni-buonissimi e cattivi- cattivissimi si risolve tutto per il meglio; Jonah ed Elizabeth si ritrovano felicemente sposati  e pure ricchi per una serie di eventi (oddio, che spoiler, non lo avreste mai detto vero?) e i cattivi pagano con gli interessi le loro colpe.
Un’ulteriore motivo di interesse del romanzo è che presenta nella stessa storia addirittura due Dark Ladies; nel 1906 (anno di uscita del romanzo) i personaggi femminili dei romanzi polizieschi e pseudo-tali erano più o meno tutte delle mezze sante, o se delinquevano è perché vi erano costrette da qualche lestofante; invece qui le donne sono capaci di grandi odi e di grandi misfatti, sia per amore che per denaro; una bella novità per l’epoca.
E poi, che ritmo, che splendida struttura narrativa! La storia fila che è un piacere, e se ai tempi della prima uscita  il traduttore dei Gialli economici Mondadori  ha tagliato qualcosa, lo ha comunque fatto con estrema cura. Come ho detto, la verosimiglianza non è un punto di forza del libro, ma chi se ne frega? Hume in fin dei conti è quanto di più vicino al poliziesco inteso come “fiaba realistica per adulti”, e vi posso garantire che tra le pagine di questo libro per un paio d’ore si viaggia beati in un’altra epoca, forse migliore e forse peggiore della nostra, ma dove almeno si scriveva con estremo garbo e si leggevano con piacere storie deliziose come questa.

venerdì 14 febbraio 2014

"LA CASA DEI SETTE CADAVERI" DI JEFFERSON FARJEON


Un anno esatto fa iniziava la bellissima collezione dei gialli del Corriere della sera, collana fermatasi a 35 volumi che altro non erano che dei Bassotti  Polillo ristampati , ma che costavano 6,90 euro invece dei 14-15 che costano in libreria; per cui uno che non fa la fame ma nemmeno ha troppi soldi da buttare come il sottoscritto ha potuto recuperare una bella fetta di titoli della più bella collana di gialli del nuovo millennio.

La collezione iniziava appunto con questo “La casa dei sette cadaveri” , di un autore che al tempo mi era del tutto sconosciuto; mi ricordavo vagamente di aver sentito il suo nome accostato a un vecchio film Inglese di Hitchcock (Infatti fu lo sceneggiatore del delirante ma simpatico Number seventeen, film del 1932) ma poi niente altro; d’altra parte, pur essendo estremamente prolifico, non era mai apparso nel giallo Mondadori, e ciò lo ha automaticamente classificato come un autore per esperti e addetti ai lavori; i pochi suoi libri editi in Italia erano usciti nella collezione dei “Gialli del veliero”, mai visti neppure per sbaglio. Ma ci ha pensato la Polillo a rispolverarlo dall’oblio, pubblicando tre suoi titoli in pochi anni. E la mia domanda era; valeva la pena di riesumare questo caro estinto?

La risposta, dopo aver letto il romanzo, è ; si, ma con molte riserve. Infatti, pur essendomi piaciuto e avermi entusiasmato a tratti, questo “Seven dead” ha molti difetti, e alcuni piuttosto gravi.

 l'autore in una rara foto
 
 
Diciamo subito che questo Farjeon, a parer mio, non era precisamente un artista della penna. Aveva in se molta fantasia, ma mancava di tecnica, di senso del ritmo. Mentre leggevo mi pareva infatti di essere in un fumoso e poco illuminato Pub inglese, seduto al tavolo di un gruppo di Old English tipo Samuel Pickwick e gli altri membri del suo circolo. Mi pareva di essere tra di loro, spettatore passivo e perplesso, mentre si raccontavano a vicenda interrompendosi l’uno con l’altro una storia interessante ma che giocoforza salta di palo in frasca senza molto costrutto, come tutti i discorsi improvvisati tra amici una sera al bar.

Perché una storia che si sposta senza soluzione di continuità e in modo anche forzato tra l’Inghilterra, Boulogne, L’africa e una lontana e fittizia isola sperduta nell’oceano atlantico potrà essere affascinante, ma manca di ogni logica. Certo, è narrativa d’evasione e la logica conta poco, ma è pur sempre qualcosa; in questo libro i personaggi fanno cose tanto improbabili da essere sciocche, fidandosi ciecamente di perfetti sconosciuti o diffidando a torto solo per sensazioni epidermiche, e cacciandosi stupidamente in guai del tutto evitabili.

Comunque la storia più o meno è questa, provo a raccontarla; uno sfortunato ladro penetra in una casa e trova sette persone morte, senza alcun segno di ferita. Un giornalista freelance che si sposta con un costosissimo Yacht (evidentemente li pagavano bene, che vi devo dire?) vede il ladro che scappa terrorizzato, lo blocca, chiama la polizia e tutti insieme tornano verso il luogo del misfatto.

All’interno della casa,( che appartiene a John Fenner, un gentiluomo riservato e misterioso che abita la magione con la nipote Dora) il giornalista, di nome Hazeldean, vede una palla da Cricket inopinatamente posta in bella vista dentro a una saliera e il ritratto di una ragazzina bellissima e dall’aria maliconica, ritratto a cui qualcuno ha sparato un colpo di pistola colpendo la figura in corrispondenza del cuore.

Solo vedendo il ritratto, che ovviamente raffigura Dora, Hazeldean si sente emotivamente coinvolto  e parte per Boulogne, in Francia, dove a quanto sembra si sono recati i Fenner; da qui la storia non è più narrabile, vi basti sapere che seppur faticosamente l’ arzigogolata matassa si scioglierà e i piccioncini convoleranno a giuste nozze.
 

 
 
Un plot simile può divertire o irritare molto, certo sarà abbastanza detestato da coloro che amano storie rigorose e soluzioni impeccabili, ma per un Wallaciano come il sottoscritto esso dovrebbe, e dico dovrebbe, essere una vera manna dal cielo; ma neppure io, pur avendo apprezzato davvero molto alcune sequenze ben definite (soprattutto il bellissimo, avventuroso finale), alla fine resto perplesso. E’ quello stile abborracciato, quasi colloquiale, con dialoghi talvolta veramente inutili e descrizioni tediose come quella di tre pagine per delineare il ritratto di una cameriera un poco tonta che rimane un personaggio del tutto secondario e privo di interesse; ciononostante l’autore si prende 3 pagine 3, che avrebbe benissimo potuto usare per rendere più comprensibile  la non proprio chiarissima vicenda.

E insisto sull’impressione del racconto a più voci anche per i continui cambi di registro; si passa dalla cupa atmosfera di una Pensione di Boulogne, dove al culmine di alcuni eventi sinistri l’autore si interrompe e torna di colpo in Inghilterra, dove per sessanta pagine buone seguiamo le irritanti facezie di un ispettore e un sergente che invece di indagare in modo serio si fanno scherzi cretini. Chiaro che poi, quando l’autore smette di giocare e ci riporta a Boulogne, tutto il pathos accumulato è ormai svanito.

Insomma, come avrete capito i difetti ci sono eccome, ma ciononostante non mi sento di bocciare un’opera che seppur altalenante risulta avere una sorta di “fascino malato” che fa proseguire agevolmente la lettura; alla fine ci sono anche dei dialoghi incantevoli, delle battute frizzanti, delle ottime scene d’azione, un idillio un poco esasperante ma  dolcissimo, e soprattutto tanta, tanta voglia di divertirsi e divertire; e al termine di un finalone tra il Robinson Crusoe e il Gordon Pym di Poe il lettore, seppur affaticato e perplesso, è comunque soddisfatto.

In ogni caso, credo che per quanto mi riguarda il prossimo Farjeon potrà aspettare a lungo sugli scaffali delle librerie, perché al momento non ho molta voglia di un altro viaggio nello strano universo dell’autore;  ma se non conoscete questo libro provate a leggerlo, seppur prendendolo con le pinze e non aspettandovi il solito giallo classico, ma una specie di vacanza da esso.

martedì 11 febbraio 2014

IL GRANDE IMPOSTORE, DI EDWARD PHILLIPS OPPENHEIM.

Una delle cose più belle che possono capitare a un lettore è quella di trovarsi tra le mani dei romanzi che si scoprono essere tanto nelle proprie corde da scivolare completamente dentro di essi e ridurre la realtà a un fastidioso rumore di fondo, scordandoci perfino di avere fame o dover timbrare il cartellino.
Se siete lettori irriducibili, conoscerete sicuramente tale sensazione, e saprete anche quanto raro sia questo piacere, che di buoni libri ce ne sono tanti ma quelli veramente splendidi e indimenticabili risultano essere assai meno. Nei giorni scorsi, con “The great impersonation” ho provato ancora queste piacevolissimi palpiti.
Edward Phillips Oppenheim era un autore Inglese che scriveva storie tra il thrilling, la spy-story e il melodramma sentimentale; la parte spionistica la conosceva bene perché era lui stesso un agente segreto, e infatti i suoi libri sono sempre vicini all’attualità dei primi 30 anni del secolo scorso. I romanzi dell’autore che ho letto, come il curioso “I gioielli degli Ostrekoff”, cronaca di un’avventurosa fuga di un Inglese e una bella spia dalla Russia in piena rivoluzione, o anche “L’uomo venuto dal cielo”, (che ho nella meravigliosa edizione dei romanzi della palma Mondadori anni 30 che proponevano romanzi sentimentali illustrati, una versione rosa dei Gialli economici)che racconta di un soldato Tedesco che si innamora di una ragazza inglese, denotano che Oppenheim pareva conoscere bene, oltre ai compatrioti, anche altre realtà e mentalità europee, e le sfruttò con maestria nella sua narrativa.


l'autore

Peccato che, come per Hume e Fletcher, la sua produzione è giunta in Italia abbastanza diffusamente ma in traduzioni  talvolta fortemente mutilate; infatti quasi tutti i suoi titoli sono usciti o nei GEM e Romanzi della palma (che si sa essere sforbiciati non poco) o, ancora peggio, nella “Biblioteca delle signorine” della Salani, romanzi che erano curati da traduttori ben più mediocri che quelli della Mondadori, con versioni al limite del leggibile; peccato, perché questo autore avrebbe meritato ben altro trattamento. Inutile sperare in altre traduzioni, inutile sperare anche nella Polillo, Oppheneim è sicuramente destinato all’oblio, troppo ingenuo e demodè in un mondo che predilige i furbi e i disillusi. Ma a salvare una seppur piccola parte della sua produzione e soprattutto a TRADURRE INTEGRALMENTE il suo capolavoro ci ha pensato prima la mai troppo rimpianta Garden Editoriale, e poi la Newton, che nel giallo economico ha rieditato alcuni suoi lavori dei GEM  in traduzioni “Opportunamente rivedute e aggiornate” e soprattutto ha riproposto su più ampia scala la traduzione Garden del Grande impostore.
Leggere Oppenheim in traduzione accurata e integrale mi ha fatto lo stesso effetto di Fergus Hume, cioè tanta ammirazione ma anche tanto rimpianto di non avere integrali anche gli altri suoi libri, e non poter quindi giudicarlo per come veramente merita. Ma resta il fatto che, in edizione integrale, questo grande impostore è una vera delizia.
Una premessa; il libro è spesso citato tra i “Ruritanian romance”, ma in realtà non è ascrivibile a questo sottogenere narrativo che come è noto tratta di avventure in regni realistici ma inesistenti nella realtà, con preferenza alle oscure repubbliche balcaniche, forse perché cento e passa anni fa davvero dei Balcani non si sapeva niente. Il romanzo di Oppheneim invece è ambientato in luoghi realmente esistenti; si comincia con l’africa coloniale Tedesca, per finire in Inghilterra non tralasciando una rapida puntatina in Germania.
No, Il grande impostore è da catalogare in quel meraviglioso (almeno per chi scrive) sottogenere del “E’ lui o non è lui?” ossia incentrato su un personaggio che per i più disparati motivi se ne va di casa (o viene creduto morto) e torna dopo anni profondamente cambiato tanto da far chiedere ai suoi stessi cari se la persona è realmente lui o solo un sosia che lo impersona alla perfezione; un canovaccio che nella narrativa Thriller ha spesso prodotto delle vere meraviglie, si pensi al Ritorno dell’erede di Josephine Tey, forse il più alto risultato in questo senso, oppure all’ Automa di Carr dove l’identità incerta di uno dei protagonisti è uno dei punti focali del tortuoso intrigo, o anche al romanzo d’esordio di Patricia Wentworth “Lo smemorato di Colonia” passando per il più moderno “Il capro espiatorio” di Daphne du Maurier, sorta di versione adulta e amara del sosia impostore.
Ma come per ogni filone ci voleva un precursore, un romanzo che aprisse la strada ai pur pregevoli epigoni; e ci pensò appunto Oppenheim, nel 1920, a pubblicare questo godibilissimo mystery che lascia col fiato sospeso fino alla fine, ovviamente se si è bendisposti a sorvolare su quelle licenze che al lettore d’oggi paiono quasi sempre ingenuità narrative.


Scritto quando la grande guerra era ormai terminata, Oppheneim  ambienta la vicenda appena prima l’inizio di essa, quando si avvertivano le prime avvisaglie di un possibile conflitto ma nessuno vi credeva veramente, e l’opinione pubblica era spaccata tra coloro che vedevano nel Tedesco un nemico e gli ottimisti che invece ne avevano grande stima e speravano in una proficua amicizia tra i due popoli.
Il sipario si apre nell’Africa coloniale Tedesca (l’attuale Namibia) dove un po’ troppo casualmente due uomini, un Barone Inglese di nome Everard Dominey e un nobile Tedesco di nome Leopold Von Raganstein, che si somigliano moltissimo e per giunta si conoscono anche (erano al college insieme, il mondo è piccolo si sa..) si incontrano nel bel mezzo della savana. L’inglese si trova in quelle lande per sfuggire a un passato burrascoso; è ridotto a un ubriacone disilluso e provato, pieno di debiti e con una moglie un tempo innamorata ma che per una complicata serie di eventi lo crede un assassino e ha promesso di ucciderlo se dovesse mai rivederlo (queste pericolose virate stile Invernizio spesso e volentieri rischiano di far scivolare nel burrone del ridicolo l’autore, che però riesce sempre a dare il colpo di reni e riprendersi prima della catastrofe) Il Tedesco invece è stato esiliato dal suo paese per aver ucciso in duello un pari casta; ma mentre l’Inglese è poco più che un relitto umano, il Tedesco è un uomo determinato, intelligente e nel pieno delle forze, e assieme a un medico e all’aiutante di campo concepisce un piano diabolico; uccidere l’inglese, recarsi in Inghilterra, sostituirsi a lui (naturalmente il Tedesco è poliglotta e sa tutto di Lord Dominey)e avere così accesso alla camera dei Lord e ai piani alti del servizio segreto, per spieggiare con tutto comodo.
Ovviamente però sostituirsi a un’altra persone che viveva una vita antitetica alla propria non è facile per Von Raganstein, che si troverà ad affrontare pericoli e nemici di ogni genere, sempre sul filo del rasoio; a complicare il tutto una moglie affetta da momenti di follia (è perfino perseguitata da un fantasma che ulula ogni notte sotto la sua finestra) ma terribilmente seducente, e innamorata a prima vista di quella bella copia del marito che contrariamente a prima è premuroso con lei, non fuma, non beve e non la tradisce con mezza Contea.
Quindi la storia, che a raccontarla così sembra sciocca e prevedibile, fila via invece come un treno, divertente e brillante e incredibilmente convincente nell’assunto, e con un finale a sorpresa che per potenza e impeccabilità mi ha ricordato quello del “Cerchio rosso” di Wallace.
Insomma, questo cocktail di mistero, spionaggio e passione ha un sapore strano, per gustarlo appieno occorre una grande capacità di sospendere l’incredulità e di far volare la fantasia, cose che molti lettori non amano fare. Ma in ogni caso consiglio di provarlo, sperando che sia presto disponibile l'e-book a 0,49. Scrittori come Oppenheim meritano sempre la nostra attenzione e il nostro rispetto, perché sono riusciti a far credere che storie come “Il grande impostore” potessero essere vere.

mercoledì 5 febbraio 2014

I GIALLI MONDADORI DI FEBBRAIO 2014

In passato sono stato piuttosto critico con l’attuale gestione della collana di libri più illustre e longeva attualmente in edicola, ma siccome vedo che da qualche mese le scelte editoriali sono più felici e mirate, ciò mi porta ad aprire, da ora in poi, una finestra mensile sui gialli del mese, commentandoli brevemente uno ad uno e lasciando qualche impressione personale sulla qualità di esse.
C’è da dire che, come per il mese scorso, sono veramente soddisfatto dalla scelta dei titoli proposti; mi pare che ci sia l’intenzione di accontentare tutti i tipi di appassionati, dai giallofili classicisti come il sottoscritto, agli amanti del thriller psicologico fino a quelli del thriller Italiano contemporaneo (e per quanto riguarda i Thriller inediti sono felice che si dia risalto agli autori nostrani, specie se giovani).
Cominciamo dai due classici del giallo (come già saprete, ogni mese la Mondadori manda in edicola due gialli inediti e due ristampe di titoli già apparsi in passato, in una collana detta appunto classici del giallo) che presentano due autori robusti e affidabili.
“Il 31 febbraio” del  critico e poeta Inglese Julian Symons, che occasionalmente si cimentò anche nella scrittura con buoni risultati, sembra un buon esempio di detective story tra Mystery classico e indagine psicologica; di solito quando questi elementi sono stati fusi con maestria i risultati sono stati memorabili, e si spera lo siano anche in questo caso. Da notare il fatto che, contrariamente a quanto di solito accade, il testo non è ripreso da un Giallo Mondadori ma dalla collana dei “Gialli proibiti” Longanesi, ottima cosa questa se si recuperano testi usciti su collane minori e quindi più difficili a trovarsi.
Il secondo classico è “Omicidio per la sposa” di Charlotte Armstrong, autrice Americana della quale ricordo con piacere “Sosta pericolosa”,un curioso Suspense ambientato in una sinistra casa ai piedi di un baratro dove vivono tre inquietanti sorelle menomate, in un’atmosfera da incubo. I pochi altri suoi libri che ho letto mi hanno però lasciato abbastanza freddino. E’ un’autrice di secondo piano, divertente ma nulla più, e chi compra questo libro deve farlo senza troppe aspettative, e magari così facendo potrebbe addirittura gradirlo senza se e senza ma.

Il Giallo inedito invece presenta un titolo assolutamente col botto, ossia “Il veleno è servito” del grande Anthony Berkeley, prima traduzione Italiana di “Not to be taken” del 1937. In questo classicissimo Mystery mi aspetto di trovare la consueta maestria dell’autore per l’intreccio, lo studio psicologico dei caratteri e l’arguzia impareggiabile nel ritrarre la vita dell’upper class Britannica. Insomma, con Berkeley si va sul sicuro, e sapere che il curatore Mauro Boncompagni ha già tradotto un altro suo inedito oltre a questo non può che farmi un gran piacere.

L’altro inedito è per me un oggetto misterioso, ma che contrariamente ad altri titoli di autori contemporanei mi intriga non poco.
“Il palazzo delle cinque porte” scritto da Stefano de Marino, uno degli autori di punta della Spy-story Italiana proposta da Segretissimo,(si firma col nome di Stephen Gunn o I professionista) pare essere una storia raffinata e affascinante sullo sfondo di una Venezia cupa e misteriosa, e che a quanto dice l’autore stesso è imperniata di suggestioni da sceneggiato RAI o da Thriller Italiano alla Mario Bava-Dario Argento, tutte cose che non mi dispiacciono affatto. Insomma, questo libro potrebbe esser molto interessante o rivelarsi una delusione totale, ma il mio sesto senso mi dice di provare a leggerlo; se non fosse nelle mie corde alla fine pazienza, in fin dei conti ogni libro costa 4,90 , un prezzo irrisorio per un libro nuovo, il prezzo di una colazione al bar (dite che questa costa meno? Provate a prendere un panino imbottito e un succo di frutta….)

Insomma, un mese veramente interessante, ci metterei la firma per avere sempre questa qualità.