martedì 22 luglio 2014

"IL TERRORE NEL CASTELLO" DI RUDOLPH STRATZ.

Lo so, ancora una volta vi recensisco un titolo che a molti non dirà niente, Ne tantomeno vi dirà qualcosa il nome dell’autore. Perché anche in questa occasione, come altre due volte in questi ultimi mesi, viene recensita un testo irristampato dal 1932, precisamente il numero 33 della mitica collezione dei libri gialli Mondadori.


L'autore

 Questa uscita fu importante innanzitutto per un motivo; vi si presentava, per la prima e unica volta, un autore Tedesco, una vera e propria eccezione in una collana (giustamente) monopolizzata dagli scrittori Anglosassoni, dove trovavano spazio a fatica perfino gli autori nostrani (e molti perché imposti dal regime) e sporadicamente qualche Francofono. Ora, non so se nello sterminato catalogo del Giallo Mondadori del dopoguerra sia poi riapparso un autore Teutonico, ma dei grandi giorni delle palmine questo è l’unico titolo di un Tedesco seppur non l’unico titolo in lingua Tedesca, visto che il numero 30 della collana presentava “Il maestro del giudizio universale” dell’ Ebreo Austriaco Leo Perutz.


Copertina di Abbey (fonte; Uraniablog)

Credo che questo “Schloss Vogelode”, uscito nel 1921 e da cui il grande regista Murnau trasse un film omonimo (lo si può visionare gratuitamente e legalmente su Youtube con didascalie in Tedesco)  non abbia goduto di ristampe perché, come anche  “Una voce dalle tenebre”  e “La dama di compagnia” non è un vero giallo. Se gli ultimi due citati erano in fondo delle Inverted stories, Il terrore nel castello è invece un Sensational alla Wilkie Collins, autore che il tedesco Stratz (del quale non mi risulta essere apparso niente altro da noi) sicuramente conosceva per parecchi motivi, che vedremo più avanti; l’unica cosa certa è che, come gli altri titoli sopra citati, questo è un libro bellissimo ed estremamente appassionante, un gioiello che tenere nell’oblio è al tempo stesso crudele e insensato.



Nella Baviera di metà ottocento, in un ottobre umido e fosco, si ritrovano nel maestoso castello di Vogelode, proprietà del barone Leopoldo di Vogelschery, dove esso vive con l’amata moglie Cetta e i suoi bambini (scusate i nomi Italianizzati, ormai lo sapete) amici d’alto lignaggio del padrone di casa per cacciare nell’imponente riserva del castello, famosa in tutta la Baviera.
La compagnia è eterogenea, e tra  tutti spicca lo sconcertante  conte Giovanni Deodato Oetsch, uomo dissoluto, avventuriero impavido e mistico teorico che crede nei fantasmi e nella reincarnazione, generoso e liberale coi servi ma odioso e attaccabrighe coi suoi pari. Quest’uomo ha il merito di attirare su di se tutta l’attenzione, nel bene e nel male, e anche se nessuno lo stima tutti ne hanno paura, soprattutto perché su di lui pesa l’atroce sospetto di aver assassinato il fratello per usurparne soldi e proprietà. Il sospetto è pesante, ma nessuno ha mai potuto provare niente, e il conte Oetsch si gode beato il presente.
Ma una sera, al castello arriva con suo marito la baronessa Metta Safferstatt, ex cognata del conte Oetsch e sua principale antagonista; la baronessa apparentemente giunge a Vogelod col marito perché legata a un’affettuosa amicizia con Cetta, ma in realtà i suoi scopi sono ben altri, e inizia un serrato e tesissimo gioco delle parti dove nessuno può dirsi al sicuro…

Dunque, si è detto di romanzo Collinsiano, perché innanzitutto riprende in modo abbastanza palese la struttura della “Pietra di luna”, trasferendo l’azione dall’amena campagna inglese a un imponente castello nelle montagne della Baviera, retrodatando l’ambientazione al 1850, quindi più o meno l’epoca Collinsiana. E inoltre tutta la storia viene narrata al lettore attraverso più voci, con più personaggi che  raccontano lo svolgersi degli eventi ognuno a suo modo e dal suo punto di vista, mutuando i fatti attraverso il proprio essere e la propria cultura,e  a raccontare può essere uno scaltro giudice, o la pudica castellana, o un pittore assai romantico o ancora un ignorante guardiacaccia, proprio come Betteredge, Cuff, Rosanna Spearman e altri indimenticabili character del sommo testo Collinsiano.
Se la struttura riprende quindi modelli da romanzo Vittoriano, il contenuto è decisamente più latino, molto melodrammatico; questo mi ha spiazzato, da un autore Tedesco mi sarei aspettato tutto meno che dei toni quasi, e dico quasi, alla Carolina Invernizio. Non so se il traduttore Cesare Giardini ci abbia messo del suo, ma il testo risulta decisamente “caldo”, quasi violento nel suo liberare molti tipi di emozione; i personaggi fremono, gridano, minacciano di morte i loro antagonisti; le due donne, legate da un’amicizia morbosa che riflette quelle assai ambigue viste in coevi film Tedeschi come “Lulu” o “Madchen in uniform” (specialmente leggendo passi come “Amavo Metta fin da quando eravamo al collegio, e i miei unici momenti di gioia erano quelli in cui potevo rifugiarmi tra le sue braccia, con lei che mi lasciava fare e mi chiamava la sua gattina”), sono sempre sopra le righe, pronte a esplodere in crisi isteriche, anche  se poi riescono sempre a dominarsi. In poche parole, in questo libro si ha un giusto mix di gusto Inglese e temperamento continentale, e la miscela funziona alla perfezione, visto che il fortunato lettore (io sicuramente, avendo trovato il libro in un mercatino di provincia e pagandolo un misero euro) resta avvinto dall’inizio alla fine senza sbadigli alcuni. E se l’intreccio più strettamente poliziesco alla fine è abbastanza prevedibile e il villain improbabile nel suo Fregolismo sfrenato, bisogna perdonare il povero Stratz, che non era un giallista e in fondo è finito abbastanza inaspettatamente nella leggendaria collana; ma cara Mondadori, visto che ormai il testo ce l’hai e basta una rinfrescatina a una traduzione ottima e scattante, invece di uno Stout o di un Christie in terza / quarta ristampa, quanto ti costerebbe mai riproporcelo sui classici del giallo? Se poi lo avete smarrito negli archivi ve lo presto io senza complimenti….

giovedì 10 luglio 2014

"I FIORI DI SATANA" DI PAUL HALTER.

Si, me ne rendo conto, vi sto tediando con questo Paul Halter. L’anno scorso vi tediavo con Josephine Tey, e quest’anno vi tocca l’Alsaziano. Ma come molti appassionati vado a ondate, se un autore mi piace o comunque mi rapisce, quando metto le mani su un suo libro nelle bancarelle o nei marcatini devo leggerlo appena possibile, e non la pianto fino a che non li ho letti tutti.
Che poi, Halter non è certo la Tey, ci mancherebbe. Anzi è decisamente agli antipodi, confuso e appassionato quanto la Tey (e le altre grandi Lady del poliziesco) erano lucide e sornione. Halter scrive con il cuore e lo stomaco ancora prima che con la mente, e le sue trame, sebbene spesso traballanti e irrazionali (ma altrettanto spesso risolte con maestria), sono un qualcosa che davvero non puoi smettere di leggere una volta iniziato. Non pensate di leggere Halter la sera prima di dormire nell’intento di rilassarvi per poi sprofondare nel sonno, finireste per fare le ore piccole e andare al lavoro intontiti.
Quindi, Halter come autore di leggibilità assoluta, snello e scattante e sempre interessante. In ormai sei suoi libri letti mai un momento di noia o tedio, solo e sempre fuochi d’artificio. Ma con l’autore sono stato anche molto critico, stroncando dove serviva e comunque ponendo l’indice sui vistosi difetti dei suoi intrecci pericolosamente sospesi sulla soglia dell’incredulità, con qualche scivolone oltre di essa.
Nell’ultimo post,avevo espresso un desiderio; riuscirò mai a leggere un Halter perfetto, che non sia rovinato da cadute improvvise o finali posticci e poco plausibili? Ci speravo, ma non ci credevo molto, e invece, quando meno me lo aspettavo, ho trovato ciò che cercavo, ovvero il capolavoro senza mezze misure; esso si intitola “Le fleurs de satan”.


Dunque, in realtà dopo le prime trenta pagine, talmente bizzarre e assurde da far impallidire il  Woolrich de “La notte ha mille occhi” e “Ho sposato un’ombra” o anche qualcuno degli ultimi libri di Carr (ad esempio l’ultimo suo scritto, il divertentissimo ma inverosimile oltre ogni giustificazione “Il mistero di Muriel”) il romanzo diventa una storia gialla avvincente, inquietante e sinistra che diventa sempre più plausibile e accattivante fino alla parola fine. E oltre alla soddisfazione di aver letto un romanzo veramente straordinario, si aggiunge anche la felicità di un testo filato liscio come l’olio, forse perché, essendo il testo relativamente recente (2002) l’autore rispetto ai primi scritti ha acquistato una maggiore padronanza della materia.
Ma vediamola, la trama di questo romanzo (senza personaggi fissi come Alan Twist) ambientata nell’Inghilterra degli anni sessanta.



C’è una giovane donna, Debra Jordan, che vive col marito psichiatra nella clinica-manicomio che esso gestisce. La donna, una graziosa biondina dall’aria fragile molto più giovane del marito, non ama il marito e detesta le urla dei ricoverati, e un giorno decide di fuggire da quella realtà opprimente, e inizia a vagabondare per il sud dell’Inghilterra, attraversando la mitica brughiera di Dartmoor per finire a Madford, un villaggetto sperduto da romanzo con Miss Marple.
La donna, sfinita a seguito di peripezie veramente singolari (incontra due uomini che vogliono usarle violenza e riesce a fuggire amputando tra l’altro il braccio a uno di loro, che rimane attaccato alla sua vettura (!), ruba un’auto e sfugge due volte ai poliziotti che la ricercano) nel suo girovagare si imbatte ed entra in una casa in vendita nei pressi del paesello, isolata e dall’aria sinistra. In questa, ha la visione di una giovane e bellissima donna che le mostra un diario e dei fiori, a metà tra il sogno e l’apparizione. Esce dalla casa e si addormenta nel giardino adiacente all’abitazione, dove c’è un’aiuola con strani fiori rossi, detti appunto fiori di Satana. Il mattino dopo,appena sveglia, Debra si trova davanti un uomo bello e simpatico, ex aviatore della Raf, che sembra capitato li per caso; l’uomo, di nome Peter Sutcliffe, vuole comprare la casa, e i due si innamorano all’istante e decidono di convivere come marito e moglie. Ben presto i due “sposini”, una volta entrati nel tessuto sociale di Madford, vengono a sapere che la casa è stata teatro di tragedie, una su tutte lo strano suicidio diciassette anni prima(ma tutti pensano in realtà omicidio per mano del marito di essa, poi emigrato successivamente in Canada) di una bella e giovane signora, che si rivela essere la donna che Debra ha sognato. Quindi Debra e Peter cercano di fare luce sul mistero della morte della donna, iniziando a ricercare il suo vecchio diario, che si dice nascosto da qualche parte nella misteriosa casa…
Insomma, questo guazzabuglio di follia, visioni inquietanti, peripezie assurde e situazioni improbabili farebbe pensare a un romanzo ancora più sbilenco degli altri Halter da me letti e recensiti, e invece, una volta “osato” per creare il giusto climax, l’autore dona alla vicenda narrata una piega veramente impeccabile, creando molte false piste e confondendo il lettore su indizi importanti con una maestria degna dei grandi a cui da sempre, nella sua carriera ormai trentennale, si ispira. E poi l’atmosfera perfetta, squisitamente Carriana ma con un tocco di Christie, è un qualcosa di assolutamente eccellente. Resta davvero da chiedersi, con parecchi Halter ancora da leggere e reperire, quante altre soddisfazioni possa ancora darmi l’autore Francese; ma intanto il capolavoro è arrivato, e spero davvero  di ripetere presto una recensione tanto entusiasta.

domenica 6 luglio 2014

SETTE PICCIONI SPORCHI DI SANGUE / L’OMICIDIO DI GERALDINE FOSTER, DI ANTHONY ABBOT.

Nel quasi lontano 2005 la redazione del giallo Mondadori ebbe un’intuizione  assai felice, ossia quella di rendere reperibili in Italiano e con traduzioni accuratissime di Igor Longo, tutti e 8 i romanzi del Newyorkese Anthony Abbot, pseudonimo di Charles Fulton Oursler, uomo di grande personalità e versatilità (tra le altre cose era un caro amico del presidente Roosvelt) che tra il 1930 e il 1943 scrisse appunto otto romanzi polizieschi, un vero ciclo con tanto di blanda continuità dove il protagonista assoluto era il carismatico Thatcher Colt, capo della polizia della grande mela e “uomo più distinto ed elegante della città”, tanto che ovviamente, vista l’epoca e il grande successo di cui godeva Van Dine in quel mentre, venne naturale di fare il paragone con Philo Vance, ma in realtà le similitudini tra Huntington Wright/VanDine e Oursler/Abbott, che pure esistono, sono più da un punto di vista stilistico che non per la personalità dei protagonisti; infatti, Vance e Colt si somigliano molto poco, perché Vance è un erudito bibliofilo snob e inavvicinabile che investiga per divertimento mentre Colt è un alto funzionario nel pieno esercizio delle sue funzioni, che vive tra la gente e per la gente. Colt è raffinato, ha una biblioteca di quindicimila volumi, ma vive coi piedi per terra, non è esageratamente pomposo, non cita classici Latini e Greci ogni tre pagine e soprattutto è un personaggio credibile, non come Philo Vance che, come Poirot, Sherlock Holmes, Nero Wolfe, Lord Peter Wimsey, Gideon Fell e Henry Merrivale appartiene alla schiera dei detective- macchietta, di grande funzionalità e sicuri di rimanere impressi indelebilmente nella mente dei lettori, ma del tutto improponibili come persone. Infatti le mie simpatie, in tal senso, vanno a detective come l’Alan Grant di Josephine Tey, al Thorndyke di Freeman, all’Ellery Queen da The Egyptian cross Mystery in poi (perché quello dei primi romanzi, nel suo snobismo esasperante, è ancora peggio di Vance); individui di grande spessore, superiori senz’altro ai comuni mortali, ma pur sempre plausibili.

L'autore

Colt, a mio avviso, appartiene a questa categoria, e anzi diviene il primo grande detective della Golden Age a essere anche credibile.
No, le somiglianze tra Abbot e Van Dine si possono trovare a livello prettamente stilistico, in quanto il grande autore in quel momento dettava legge a tutta la scuola Americana, aveva creato un qualcosa di nuovo e di grande che verrà imitato a oltranza negli anni successivi, non solo negli States.
Per cui l’esordio di Abbott, “About a Murder of Geraldine Foster”, apparso nei classici del giallo nel Maggio 2005 col titolo “L’omicidio di Geraldine Foster”e ristampato nei mesi scorsi, nella medesima traduzione di Longo, nei bassotti Polillo col discutibile titolo “Sette piccioni sporchi di sangue”, presenta un narratore in prima persona che si chiama appunto Anthony Abbot ed è amico di Colt, così come S.S. Van Dine raccontava in presa diretta le avventure del suo amico Philo Vance. E anche la struttura del romanzo deve molto a William Huntington Wright, soprattutto per lo svolgimento delle indagini e l’interpretazione dei vari indizi.



Ma ora basta fare paragoni, perché è tempo di rendere giustizia a un romanzo che vive ampiamente di vita propria, in quanto è un vero e proprio capolavoro senza mezze misure, uno di quei polizieschi da dieci e lode che non si dimenticheranno più una volta letti.



La storia è la seguente; nei giorni attorno a Natale, in una New York gelida e spettrale una impiegata come tante, tale Geraldine Foster, giovane e carina, scompare misteriosamente. La sua amica Betty Canfield denuncia l’accaduto, e la polizia cittadina inizia le indagini. Ben presto si fa una drammatica scoperta; in una casa isolata si trovano copiose macchie di sangue, un’ascia intrisa di sangue e sette piccioni morti sulla soglia. Poco dopo, in un bosco non lontano dall’abitazione, l’agghiacciante scoperta; il corpo di Geraldine giace in una fossa, orrendamente mutilato dall’ascia, e completamente nudo. E anche un bambino, testimone inconsapevole del tremendo omicidio, parla di un fantasma nudo che si aggirava per l’abitazione. Proprio questo riferimento continuo ed esplicito  alla nudità femminile rende il romanzo estremamente adulto e “forte” per il tempo, mi sarei divertito a leggerne una traduzione per le palmine, chissà la censura come avrebbe snaturato il testo!.
Da questo momento, il romanzo diventa quasi un libro- inchiesta, dove si osserva da vicino il modus operandi di Thatcher Colt, che con un sospetto ( e forse questa è l’unica cosa abbastanza datata e stonata del romanzo) non esita a usare, nell’ordine, il terzo grado, la macchina della verità e perfino la Scopolamina (il siero della verità) tanto cara a Diabolik.
Ma non crediate che questo sia un romanzo freddo e impersonale, perché sareste in errore; Abbot è bravissimo a variare il registro e ad emozionare il lettore in vari modi; dalla goticheggiante sequenza del ritrovamento del cadavere, ai toni dolci e quasi struggenti con cui Betty Canfield difende la memoria dell’amica deceduta, fino all’umanità quasi alla Maigret di Colt, che anche quando usa maniere spicce lo fa per il bene dell’accusato e di chi gli sta vicino. E infatti il finale, dopo la terribile e veramente inaspettata conclusione, sarà lieto, con punte anche di rosa, il che non guasta mai; Abbot per fortuna era della generazione che comprendeva benissimo che i polizieschi, anche in più crudi, sono comunque fiabe per adulti.
Tra i tanti pregi del libro, è giusto sottolinearne uno veramente grande; la leggibilità. Abbot non era un autore che si perdeva in troppe descrizioni e dettagli, tutti i suoi libri che ho letto sono agili e scorrevoli, e pur avendo la robustezza negli intrecci di un Freeman ha una scioltezza degna della Christie.
Poi, la verosimiglianza degli ambienti; in questo romanzo si vive la New York del 1929 come in pochi altri casi, capitiamo in studi medici, case popolari, conosciamo ragazze che lavorano e sognano la loro indipendenza, cosa non comunissima a quei tempi. Manca quindi del tutto  l’America ye-ye di Fitzgerald (la grande crisi era alle porte, e se ne respira talvolta l’aria) o la fastosità post-Whartoniana della Green e della Rinehart; insomma, pur partendo da Van Dine e la sua lezione Abbot seppe a sua volta creare un qualcosa di veramente nuovo, ed era veramente l’ora di riscoprirlo a partire da questo esordio, un capolavoro la cui presenza in libreria tra i Bassotti è sacrosanta, perché i veri amanti del poliziesco non possono assolutamente farne a meno.


martedì 1 luglio 2014

"E' CADUTA UNA STELLA" DI JOSEPHINE TEY, E IL FILM CHE HITCHCOCK NE TRASSE.


Di quanto mi piaccia Josephine Tey ormai lo sapete fin troppo bene; ho recensito, sempre entusiasticamente, una buona metà dei suoi romanzi, e davvero non ho esagerato con le lodi.
Ma c’era un romanzo dell’autrice che ancora non avevo avuto il coraggio di affrontare, quello che in Italiano si intitola “E’ caduta una stella” semplicemente perché fin da ragazzo ho avuto una particolare adorazione per il film che ne trasse, un anno dopo la pubblicazione del romanzo (1937) Alfred Hitchcock; il film in questione è “Giovane e innocente” e sebbene nessuno lo consideri uno dei titoli migliori della sua produzione, io che non ne capisco molto lo metto senza esitazioni nella mia top five dei film del maestro, assieme all’irraggiungibile Vertigo, Il club dei 39, La signora scompare e Il sospetto. Questo perché amo quei film Hitchcockiani tra gli ultimi anni del suo periodo Inglese e il primo periodo Hollywoodiano, in quanto in essi si raggiunge l’alchimia perfetta tra garbo, umorismo british e tensione narrativa. In seguito verranno film senz’altro migliori e meglio recitati, ma mai e poi mai tanto freschi e frizzanti. E Young and Innocent è veramente una delizia, dalla regia alla sceneggiatura fino alla campagna Inglese splendidamente filmata, e soprattutto per la dolcissima Nova Pillbeam, attrice diciassettenne (è ancora viva e ha novantacinque anni!) sulla quale Hitchcock puntava molto e che invece si ritirò dalle scene pochi anni dopo, una fanciulla di ineguagliabile freschezza della quale mi innamorai perdutamente, e credo di aver consumato la videocassetta della De Agostini, l’avrò visto almeno trenta volte.
Ma andiamo con ordine, cominciando a parlare del libro della Tey. Esso uscì nel 1936, sette anni dopo “L’uomo in coda”. E passeranno altri dieci anni prima che esca un altro romanzo di sapore poliziesco dalla penna dell’autrice, ovvero lo splendido “Miss Pym”. Poi gli altri 5 romanzi si ebbero in un periodo breve, dal 1948 al 1952, anno della morte della Tey.


Quindi la produzione gialla dell’autrice conobbe due lunghi iati, e questo “A shilling for candles”  è compreso in essi, e quindi riveste grandissima importanza nel suo itinerario artistico.
Si tratta di un romanzo, come sempre, splendido e perfettamente riuscito in ogni sua componente, ed è senz’altro quello più classicamente poliziesco che abbia mai scritto, dove l’indagine poliziesca è una volta tanto in primo piano e non un ricamino a margine di romanzi che hanno il loro punto di forza in tutt’altro.
Infatti abbiamo un classico delitto misterioso, quello di un’attrice in grande ascesa venuta da origini umilissime, un personaggio determinato, di grande generosità ma anche spietato coi colleghi, tanto che la Tey ci delizia con pagine al vetriolo verso l’ipocrisia del mondo degli attori, che pur versando qualche lacrima di circostanza nel loro intimo, per vari motivi, si rallegrano della morte della giovane donna  , dalla collega che ne prenderà il posto  (una Martha Hallard, poi presenza importante nella vita di Grant, ancora lontana dal personaggio che poi conosceremo) all’astrologa che ne predisse la morte diventando così la ciarlatana più in vista di Londra.
Dell’omicidio viene accusato Robert Tisdall, un giovane di grande avvenenza ma in realtà uno spiantato, che ha dilapidato una sostanziosa eredità girando il mondo e vivendo da gaudente e che si ritrova senza un penny e senza prospettiva. Christine lo raccoglie letteralmente dalla strada, lo porta a casa sua e ne fa il suo nuovo amico (e amante, anche se l’autrice è troppo delicata per dirlo esplicitamente) e nonostante il comportamento sciocco e ambiguo di Tisdall i sospetti di Grant non convergono su di lui fino a quando non si scopre che la diva, nel suo testamento, esattamente il giorno prima di essere uccisa gli aveva intestato un ranch in California e cinquantamila sterline. Ecco il movente, e Tisdall diventa il principale sospettato, e non gli rimane che fuggire ( questo aspetto dell’uomo in fuga, uno dei cardini della sua poetica, avrà senz’altro convinto Hitchcock a filmare il testo) e in questo viene aiutato dalla giovanissima Erica, figlia del capo della polizia locale (siamo nei dintorni di Canterbury) che nella sua ingenuità si invaghisce del giovane e lo aiuta, oltre che a nascondersi, anche nel cercare la prova che posa discolparlo. Dopo un finale abbastanza imprevedibile, il colpevole verrà smascherato e il finale sarà lietissimo.

Ora, chi conosce il film Hitchockiano si sarà reso conto delle ragguardevoli differenze tra il libro e la pellicola, ma sol leggendo ci si potrà rendere conto di come i due prodotti siano praticamente incompatibili. Ora, Hitchcock ha sempre ampiamente riadattato i romanzi che ha filmato, ma mai come in questo caso.
Analizziamo infatti le notevoli differenze tra libro e film (OCCHIO AGLI SPOILER);

Nel romanzo, il personaggio della vittima è assolutamente centrale, tutta la prima parte trasuda della presenza incombente di Christine Clay, tanto da ricordare la Rebecca anch’essa “condivisa” tra la Du Maurier e Hitchcock. Nel film invece è un personaggio puramente accessorio, che si vede un minuto da viva e un minuto da morta, tanto per dare il via alla storia.



Il libro della Tey è molto corale, mentre il film di Hitchcock ha come protagonisti unicamente Tisdall e Erica, segue con partecipazione il loro rapporto in crescendo dai sospetti fino all’innamoramento, e fa loro vivere peripezie da film avventuroso delle quali il romanzo non presenta traccia, a parte una disavventura di Erica con due loschi personaggi e una fuga spericolata di Tisdall dalle grinfie di Grant. Inoltre, la Erica del romanzo è una ragazza sbarazzina, impertinente e decisamente trasandata nel vestire, conseguenza di essere figlia unica di un padre vedovo, invece nel film, pur essendo sempre orfana di madre, è una ragazza determinata e di carattere ma  compita, veste impeccabilmente e  ha quattro fratelli più piccola ai quali fa da mamma.
Il film di Hitchcock, come detto, non presenta molti dei personaggi principali del libro, a cominciare da Alan Grant, Martha Hallard, lo strano santone Herbert Gotebod, il caustico compositore ebreo Jadon Hunter, il giornalista d’assalto Jammy Hopkins, oltre a tutti gli amici e i parenti della vittima, e oltre a questo ne inventa altri di sana pianta, dall’avvocato difensore distratto, al simpatico barbone Old Willy, agli zii di Erica  fino al colpevole stesso, tutt’altra persona e con tutt’altro movente rispetto al libro ( e in questo il testo della Tey risulta più originale e convincente).

                                              Nova Pilbeam e Derrick de Marney

Se quindi la sceneggiatura di Charles Bennett, Edwin Greenwood e Anthony Armstrong tradisce profondamente il testo di partenza, d’altro canto ne fa invece un’opera perfettamente indipendente e soprattutto perfetta per la poetica del maestro, che imbastisce una già ennesima veriazione sul tema dell’innocente in fuga visto però dagli occhi di due giovani inesperti quanto incoscienti. Mentre alla Tey interessava soprattutto proporre uno spaccato del suo tempo, dal mondo del teatro a quello del giornalismo e dei pericoli derivati dalla manipolazione dell’opinione pubblica, questione che tornerà in modo molto più approfondito nel leggendario “The Franchise affair”.
Quindi, a chi si chiedesse se leggere prima il libro o vedere il film, io dico; fate come volete, vi assicuro che uno non esclude l’altro, e non pregiudica in alcun modo il godimento che si trae da questi due gioielli creati da due grandissimi orefici, gioielli che messi assieme fanno un figurone.