lunedì 29 giugno 2015

UN MISTERO SVELATO; LA TRADUZIONE DI DIANA FONTICOLI DE "LA MORTE DEL VILLAGGIO" DI AGATHA CHRISTIE

La scorsa estate, sul topic dedicato ai "Fiori di satana" di Paul Halter, io e Stefano del blog "Le quattro bare" conversavamo su una traduzione de "La morte del villaggio" di Agatha Christie alternativa a quella canonica di Giuseppina Taddei, riproposta ancora oggi in ogni edizione; questa traduzione più recente, che possiedo in una edizione del Club degli editori, fu svolta da Diana Fonticoli, una delle migliori traduttrici del giallo Mondadori (Due traduzioni-capolavoro su tutte; Poirot a Styles Court e L'ora del becchino di Margery Allingham), ma per qualche ragione fino ad oggi misteriosa questa nuova traduzione, senz'altro più snella e adeguata allo stile della CHristie (senza nulla togliere alla grande Giuseppina Taddei, sia chiaro) è ancora irristampata. E' stata la stessa signora Fonticoli, intervenuta proprio su quel post lo scorso 15 gennaio, a svelare l'arcano, e siccome lo stesso sottoscritto non ha letto l'intervento fino a ora (blogspot non me lo ha notificato, purtroppo...) e ora si sente in colpa verso una persona tanto gentile da essere intervenuta di persona con una spiegazione davvero esauriente, fa ammenda dedicandogli un post a parte.

Eccovi quindi l'intervento della signora Fonticoli;

"Buongiorno. Mi chiamo Diana Fonticoli e ho tradotto "La morte nel villlaggio" nel 1989. Questa traduzione è un po' la mia spina nel fianco perché, dopo essere stata pubblicata la prima volta negli Omnibus (ISBN 88-04-14243-X) nello stesso anno, è uscita poi nell'edizione Club degli Editori nel '91. Da allora se ne sono perse le tracce. Si trattava, appunto, di una ritraduzione poiché la precedente versione di Giuseppina Taddei, degli anni Trenta, era stata giudicata un po' troppo datata per essere rimaneggiata ulteriormente. In seguito è sempre stata pubblicata la traduzione della Taddei. Quando, in più di un'occasione nel corso degli anni e a persone diverse, ho chiesto spiegazioni in redazione (persino nel Pirani il mio nome non figura) ho ricevuto risposte non certe e, a mio giudizio, opinabili. Secondo una di queste, si sarebbe trattato di una precisa scelta editoriale, ma mi risulta difficile crederlo perché, e non vorrei sembrare presuntuosa, in effetti la mia traduzione risulta un po' più snella e scorrevole. Io credo che, più semplicemente, la mia traduzione sia andata smarrita nei meandri della Mondadori, anche perché in quell'anno usavo ancora la macchina per scrivere e solo l'anno seguente ho iniziato a lavorare con quello straordinario strumento amico che è il computer. Mi dispiace davvero tanto, per me è un po' come se quella traduzione non l'avessi mai fatta."

In questo volume, facilmente reperibile, compare la traduzione della Fonticoli.
 

Insomma, signori della Mondadori, visto che la traduzione forse l'avete persa ma comunque sarebbe ancora reperibile in uno qualsiasi dei volumi in cui apparve a suo tempo, non sarebbe d'uopo il riproporla? questo sarebbe un gradito regalo a noi lettori e un giusto riconoscimento alla fatica di una traduttrice, che ancora ringrazio sentitamente per l'intervento, scusandomi ancora per il ritardo nella considerazione di esso.

venerdì 26 giugno 2015

IL GIALLO NEI FUMETTI; IL MYSTERY NELLA SAGA DI TEX WILLER.


 

Proseguo il mio percorso "alternativo" sulla letteratura poliziesca parlando di fumetti. Quello della nona arte è un linguaggio che nel corso del tempo si è notevolmente evoluto e arricchito, se non in qualità, in tematiche; ormai il fumetto Italiano e mondiale presenta infinite serie, infiniti personaggi che rappresentano tutti i generi.

Prendiamo la casa editrice Bonelli, che per quanto riguarda i comics in Italia fa la parte del leone assieme alla Panini. Una volta aveva solo 4 o 5 personaggi (Tex, Zagor, Il piccolo Ranger, Il comandante Mark...) ora ne ha decine. Il primo "eroe" di una serie poliziesca fu Nick Raider, dagli anni ottanta fino al 2006; ora il personaggio di punta per il giallo è Julia, una detective in gonnella somigliante a Audrey Hepburn, fumetto molto addentro alla realtà di oggi, e per me noioso e senza sussulti come i telefilm preserali.

Ma di fumetto contemporaneo non parlo, perchè non lo seguo. Io sono legato ai fumetti di una volta, conosciuti e amati grazie ai miei genitori, e sono legato affettivamente soprattutto alle vecchie storie Disney, a Tex e a Zagor; serie dove poteva avvenire di tutto, specialmente un tempo dove il fumetto era più libero perchè i lettori accettavano ogni deviazione narrativa con piacere, consci che il divertimento veniva prima di tutto, mentre adesso, specialmente su Tex, una storia con elementi soprannaturali o comunque alternativi al puro Western sono un evento perchè ci si preoccupa troppo della verosimiglianza.

Ma ripeto, lasciam perdere il serioso fumetto odierno, e concentriamoci sul vecchio Tex, quando lo scriveva il suo creatore Giovanni Luigi Bonelli, e lo disegnava il grande Aurelio Galleppini. La serie poi venne continuata, dopo l'abbandono per motivi anagrafici di Bonelli, da altri autori tra cui Claudio Nizzi, che prima di sbarcare su Tex, e anche adesso che ha lasciato la serie, è uno scrittore di gialli; grazie a questa sua vena, abbiamo avuto per un certo periodo delle ottime storie in salsa mystery di Tex, anche se  al poliziesco indulgeva ben volentieri già Bonelli, che amava sia scrittori neri come Mickey Spillane che giallisti come Edgar Wallace.
 
 

Fin dagli albori della saga Texiana, infatti, abbiamo storie con l'elemento misterioso molto spiccato. Nel primo periodo della serie, infatti, apparve veramente di tutto; alieni, dinosauri, scienziati pazzi, mummie Azteche risorte, civiltà misteriose nascoste tra i monti, altre rimaste ferme all'epoca dei conquistadores, e soprattutto l'infernale negromante Mefisto, nemico numero uno di Tex, dapprima spia e doppiogiochista e poi, grazie alle arti magiche che padroneggia, sempre più temibile stregone; quindi qualche storia del mistero, per quanto inverosimile, era davvero il meno.

Ma prima di tutto va inquatrato il tipo di narrativa poliziesca che presentava Bonelli; non creava infatti gialli veri e propri, che sarebbero stonati in una serie comunque Western, ma amava proporre questa classica situazione; un cattivo dalla doppia identità molto intelligente e spietato  a capo di una banda che, per non farsi riconoscere dai suoi stessi sgherri, camuffava il suo aspetto. Ovviamente poi questo cattivo risultava essere puntualmente uno dei personaggi più simpatici e insospettabili, che anzi durante la storia spesso diventa "alleato" di Tex.

Il primo caso di "cattivo camuffato" si ha nel numero 4 della serie gigante (come saprete Tex dapprima uscì in formato a striscia e poi venne raccolto in fascicoli formato libretto che sono quelli che tutti possiedono, e per comodità citerò questi anzichè il formato originario) dove a fare il doppio gioco è Stern, di giorno innocuo paralitico sulla sedia a rotelle dall'aria irreprensibile, ma che poi diventa un losco figuro con occhiali neri e barba posticcia, per nulla invalido, che comanda una terribile banda composta sia da occidentali che da terribili cinesi torturatori (Erano gli anni di Fu Manchu e del pericolo giallo) . La storia si intitola "La banda del rosso", ed è una delle migliori tra le prime avventure.

Nella storia immediatamente successiva (numero 5) abbiamo invece la prima Dark Lady in gonnella, la splendida "Satania", bellissima quanto perfida capobanda con servitori malesi e un feroce Orango come cane da guardia (vi viene in mente un certo racconto di Poe?); a proposito del mitico Orango Gombo, l'aggressione di quest'ultimo a Tex e Carson è una degli episodi più terrificanti e affascinanti della saga.
 
 
 
Satania..e Cora Gray (fonte immagini; sito "baci e spari").
 

In ogni caso, fin da questa storia emerge il limite di Bonelli come giallista;  Satania, che indossa una maschera vagamente piratesca, è una sventola mai vista prima, e in tutto il circondario chi  è l'unica donna bella come lei? la ballerina e chanteuse Cora Gray, che Galleppini modellò sulle sublimi fattezze di Rita Hayworth. Quindi, chi ci celerà sotto la maschera di Satania? insomma, individuare il colpevole non era certo difficile, ma di fronte a storie tanto scatenate e palpitanti, chi se ne importa?

Dopo Satania, per avere un altro figuro con barba posticcia bisogna attendere il numero 23, anche se Frank Mulligan non è un avversario memorabile. Ben più impresso nella memoria dei lettori è senz'altro il temibile "Coyote nero", un pericoloso antagonista (appare nei numeri 29 e 30)  che travestendosi da stregone in barba bianca e tunica soggiogherà una tribù di fino ad allora pacifici Piutes, impiegandoli nelle sue malefatte. Ovviamente sotto la maschera del Coyote nero, che per poco non riesce a fare la pelle a Tex, si cela l'individuo in apparenza più innocuo del paese.

 
 

Tre numeri dopo, 32 e 33, abbiamo la storia più genuinamente poliziesca di Bonelli, ossia "L'uomo dalle quattro dita", storia a enigma con poca azione e con un colpevole non del tutto scontato, furbissimo e subdolo ( e sempre a capo di una banda, e sempre con barba finta e occhiali neri) , e che  usando un trucco preso pari pari dalla "Traccia del serpente" di Rex Stout, non riesce per un soffio a eliminare Tex; per la precisione ci prova con un bicchiere di whisky avvelenato, morte certa dalla quale il ranger si salverà per uno dei suoi proverbiali colpi di fortuna; il bicchiere gli viene tolto di mano da un ubriacone, che beve tutto d'un fiato e cade a terra morto. Vabbè.
 
 

Ma il capolavoro del mistero di Bonelli, quello più spettacolare, l'apoteosi dell'assassino mascherato, lo abbiamo nei numeri 45 e 46; la spettacolare storia "La voce misteriosa" (o La valle della paura) parla infatti non più di un capobanda, ma di un enorme scimmione che gira per la prateria con un cavallo nero a tagliare la testa ai poveri malcapitati che incontra; per tutti un demone, per Tex un assassino in carne e ossa, che cerca di capire chi si cela sotto il travestimento integrale (non più una semplice barba  finta) dello scimmione assassino. Vi sembra assurda? magari si, ma questa storia è uno spettacolo assoluto, di suspense e di atmosfera, e con un finale terribile ma anche patetico; potrei recitarla a memoria, avessi un euro per ogni volta che l'ho letta vivrei di rendita per anni, credo. Sfortunati i bambini che crescono senza averla letta, anche se si risparmieranno qualche incubo (oddio, sempre meglio delle immagini dell'isis al tg della sera, non vi pare?).
 
spettacolare cover di Galep con lo scimmione assassino.
 

Dopo questa storia memorabile, per un po la vena mystery di Bonelli si appanna, anche se la qualità generale delle storie cresce. nel corso degli anni, comunque, Bonelli non abbandonerà mai, fino alla fine della sua avventura con Tex, la tematica del capobanda camuffato, sempre evolvendola; le ultime grandi storie con cattivi in maschera sono “Chinatown” (numeri 109-113) dove agiscono i cinesi capeggiati dal terribile "Drago", la cui identità fu per me, la prima volta che la lessi, uno shock notevole, poi la misteriosa "Maschera di ferro" che capeggia una banda di Afroamericani nella storia "Il clan dei cubani" (numeri 229-232) e per finire la terribile setta di fanatici religiosi che appare in una delle avventure più crudeli e disturbanti della saga (numeri 248-249) , nella quale i capi in maschera sono più di uno, ma stavolta non fanno sorridere per ingenuità come nelle prime storie, fanno davvero paura.

Dopo un periodo dove nelle sceneggiature a Bonelli padre si alternava Bonelli figlio, ossia Sergio (che scriveva sotto lo pseudonimo di Guido Nolitta, e aveva un approccio più realistico e crepuscolare verso il ranger), arrivò come detto Claudio Nizzi, un fumettista dalla vena mystery piuttosto spiccata oltre che, naturalmente, un gran senso dell'avventura; iniziò alla grande con storie memorabili, ma la sua vena si esaurì. Lentamente ma inesorabilmente, dalla seconda metà degli anni novanta in poi, e le sue ultime storie Texiane, compreso il deludentissimo ritorno di Mefisto, sono ampiamente sotto la sufficienza.

Ma concentriamoci sul primo periodo, il migliore. Già dalla sua primissima storia (numeri 273-274)  intitolata "Un diabolico intrigo" si ha un enigma giallo con tutti i crismi. Il poliziesco Nizziano  molto diverso da quello di Bonelli, Nizzi infatti ci regala delle vere e proprie storie gialle in salsa Western, con un ampio ventaglio di possibili colpevoli e soluzioni talora davvero soprendenti. Le due storie gialle più belle in assoluto dell'autore sono senz'altro "I delitti del lago ghiacciato" (numeri 285-287) dove gli enigmi da svelare sono molteplici, e soprattutto la splendida "La locanda dei fantasmi", contenuta nei numeri 301 e 302, dove si riaffronta il tema del killer seriale, con una soluzione ingegnosa e dolorosa.
 
 

Notevolissime, per suspense e atmosfera, sono anche "La nave perduta" (nn.328-330) e "La  miniera del terrore" (nn. 336-338) dove l'elemento poliziesco è marginale ma comunque importante.

Dopo queste storie, oltre trecento numeri fa, il giallo si è visto col contagocce; a parte una storia, la buona "Orrore" di Michele Medda, che si rifà al tema di Jack the Ripper (numeri 409-410) l'elemento poliziesco, dirottato in altre serie a tema, svanisce da Tex, o comunque trattato assai marginalmente.

Inutile illudersi, i tempi dei cattivi in maschera o con le barbe finte sono finiti per sempre, la narrativa odierna, compresa quella a fumetti, è malata di verosimiglianza, di "adultità". E a noi romantici non resta altro che godere come pazzi rileggendoci i capolavori del grande Bonelli, uno a cui gli autori odierni, quello poco ma sicuro, a malapena sono degni di lustrare le scarpe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




mercoledì 24 giugno 2015

"L'ASSASSINO SENZA MANO" (DALLE FIABE ITALIANE RACCOLTE DA ITALO CALVINO)


Ora, direte, il vostro blogger non sa più cosa inventarsi. Ma ve lo avevo detto nel post dei due anni di blog che avrei "battuto altre strade diverse da quelle convenzionali" e mi sto divertendo a farlo, sperando di interessare anche voi.

In questa occasione  ho scelto di recuperare una delle Fiabe della tradizione nostrana raccolte da Calvino nella sua imprescindibile raccolta e da lui stesso rielaborate, per quello che forse rimane il suo capolavoro assoluto.

Se nelle 200 fiabe della raccolta (Molti di voi, me compreso, si saranno imbattuti in esse nelle antologie scolastiche) abbondano ovviamente gli elementi magici e fantastici, ci sono tuttavia alcune eccezioni come questa "L'assassino senza mano", della tradizione Fiorentina,  che più che una fiaba è una novella nera o gotica, visto che in tutta la storia non si ha nessun elemento soprannaturale, e anzi, tutta la vicenda risulta essere un perfetto thriller, con tutti i crismi del genere esposti in modo efficacissimo, quasi miracoloso.





AVVERTENZA; siccome narrerò la storia per intera spoilerandola, decidete voi se recuperare la novelletta (sono 5 pagine in tutto) oppure continuare la lettura.

La storia inizia come la più classica delle fiabe; c'è un re cattivo e avido che tiene la giovane figlia prigioniera in una torre, per farla sposare a chi pare a lui quando sarà il momento.

Dal regno, un giorno, passa un assassino; non ha nome, ne un passato, ne una professione, viene laconicamente definito assassino e stop, e uccide per il puro piacere di farlo, il tipo, insomma, del Killer seriale (e trattandosi di una fiaba Fiorentina la cosa appare come una premonizione inquietante, visto che tanti anni dopo la città conoscerà un mostro talmente abietto e grottesco da ricordare gli orchi delle fiabe). Saputa la storia della ragazza prigioniera nella torre, decide di ucciderla, tanto per passare il tempo.
Si reca alla torre per mettere in atto il suo insano proposito, ma la fanciulla lo vede e riesce a sventare la minaccia lanciando alte grida, ma nessuno le crede quando racconta la sua disavventura. Quando però l'assassino ci riprova e riesce ad aprire la finestra, a ragazza terrorizzata gli taglia di netto la mano con un coltello (sequenza che ricorda "Shining" di Kubrick); l'assassino fugge, e quando la ragazza mostra il moncherino tutti le credono.

L'assassino, da questo momento senza mano, giura di vendicarsi, e subdolamente, qualche tempo dopo, si presenta a corte nei panni di un ricco gentiluomo con mani elegantemente guantate, e riesce alfine a convincere l'avido re (l'assassino è ricco in quanto depreda le sue vittime) a concederle la mano della figlia.
Non appena essa esce dalla torre per essere data in sposa e intravede il pur attraente futuro marito, qualcosa in lei la mette in guardia, una "sensazione", un deja vu su dove potrebbe aver già visto il promesso sposo, ma sulle prime non riesce a realizzare; questa è un tipico topos del thriller psicologico, la ragazza in pericolo che teme di esserlo anche se non sa perché.

Dopo un matrimonio squallido che alla ragazza però sembra faraonico in quanto con esso si libera del padre (figura, nella sua grettezza, ancora più spregevole dell'assassino, notare la finezza) il marito conduce la fresca sposa in una casa posta nel bel mezzo di una buia foresta, e le chiede se, per favore, "può aiutarlo a sfilarsi i guanti"; nel lettore, che ha già capito la situazione, pasa però un brivido lungo la schiena per il terribile modo in cui l'assassino decide di rivelarsi alla sua vittima, giocando come il gatto col topo.
Quando ormai però la fanciulla ha capito chi ha sposato, l'assassino non la uccide. No, sarebbe troppo bello per lei, ha in mente qualcosa di ancora più sottile, di ancora più terribile; la segregherà di nuovo, come prima suo padre; la mette alla catena come fosse un cane "Per far la guardia ai suoi tesori" poi sparisce e la lascia sola e terrorizzata. Se questo non è un thriller coi controfiocchi, disturbante e malefico, non so cosa altro possa essere.

Per uscire dalle secche di una situazione ingarbugliata, Calvino "gioca sporco" sapendo che sta pur sempre narrando una fiaba; immagina infatti che la foresta sia posta esattamente in riva al mare (in barba a ogni logica paesaggistica) e che la fanciulla sia avvistata da un bastimento che passa vicinissimo alla riva, e venga tratta in salvo. L'assassino però la insegue con la sua barca, e riesce perfino a salire sulla nave che l'ha tratta in salvo: lei è nascosta in mezzo a delle balle di cotone, e l'assassino, intuendo la cosa, comincia a colpire le balle con la sua spada, e attenzione, colpisce la sua sposa; ma il cotone pulisce la lama della spada quando l'assassino la estrae, e non si accorge di niente, e la fanciulla quindi se la cava con una ferita al braccio e un grande spavento.

Dopo questo episodio,  l'eroina in pericolo e braccata viene accolta da una famiglia di poveri pescatori (come Undine di La Motte-Fouque) e passa con loro anni, passando il tempo chiusa in casa a ricamare bellissime stoffe, che vengono notate nientemeno che da un re, che decide di recarsi alla dimora dei pescatori per vedere chi sia l'abilissima filatrice. Quando la fanciulla lo vede entrare, sviene dallo spavento, pensando che sia l'assassino tornata a prenderla. Il giovane re, ovviamente, se ne innamora e vuole sposarla, e la fanciulla accetta (la bigamia non è contemplata nelle fiabe..) a patto che lui le prometta di farla restare chiusa nel castello senza vedere anima viva, specialmente uomini; il re, figuriamoci, non potrebbe chiedere di meglio che averla tutta per se! inizia quindi per la ragazza una terza, stavolta volontaria, segregazione.
Ma, dopo qualche tempo, il popolo reclama di vedere la propria regina. Iniziano a circolare strane voci, che il re abbia sposato una scimmia, o una strega, o una gobba; per tacitarle, il sovrano è costretto a obbligare la moglie a presentarsi al popolo, e la fanciulla, conscia dei suoi doveri, accetta.
Il popolo rimane estasiato dalla regina, di una bellezza mai vista, e nel regno è festa grande; tra la folla esultante, però, c'è anche l'assassino, e quando la regina lo scorge, fa il gesto di portarsi la mano sana alla bocca e morderla; per la fanciulla questo gesto equivale a una condanna, e si rassegna all'ineluttabile, senza nemmeno avvertire il re. Cade ammalata per giorni, prostrata dal terrore, ma non rivela a nessuno il motivo di tanto strazio, tanto è demoralizzata.

In quei giorni, mentre la regina è a letto malata, si presenta a corte un distinto forestiero, ovviamente l'assassino; ben accolto a corte, durante un banchetto distribuisce senza badare a spese otri di vino, e tutti, re compreso, cadono ubriachi.
L'assassino ha ormai campo libero per il suo insano proposito, e quando si presenta nella camera della fanciulla, molti anni dopo dalla prima volta, lei è li "rincantucciata nel letto, occhi sbarrati, come se lo aspettasse".
ma, a questo punto, quando la vendetta è ormai cosa fatta, l'assassino commette l'errore tipico di tanti cattivi che alla fine devono pur sempre soccombere; vuole strafare, giocare a rimandare l'esecuzione, divertirsi. Infatti chiede alla fanciulla, credendo di averla in suo potere, una bacinella colma d'acqua e un asciugamano "per potersi lavare dal sangue quando avrà finito di ucciderla". A quel punto, l'istinto di conservazione ha la meglio; nell'asciugamano, la ragazza nasconde una pistola, e quando si trova a un metro dal suo aguzzino tranquillamente intento ad affilare il suo coltello, fa fuoco, ed esso cade morto sul colpo; tutti accorrono, e trovano la regina singhiozzante, finalmente libera dal terrore di una vita.

Per chi scrive questa fiaba nera, lo ripeto, senza alcun elemento fantastico, pur nelle sue inverosimiglianze andrebbe recuperata e inclusa regolarmente nelle raccolte di racconti più rappresentativi del thrilling; ha dalla sua un cattivo memorabile per tenacia e raffinata crudeltà, un ritmo incalzante e un senso della suspense, la fanciulla perseguitata che trova il coraggio di diventare carnefice; tutti o quasi gli ingredienti dei romanzi e dei film a tinte forti di oggi racchiusi in una favola di cinque pagine che gira (anzi girava...chi le racconta più, le fiabe?) per la mia Firenze da chissà quanto tempo. Niente male, direi.

mercoledì 10 giugno 2015

SHERLOCK HOLMES VS. JACK LO SQUARTATORE.


 
Certo, ogni esperto di Conan Doyle mi contesterà subito un fatto; Ma che c'entra Holmes con il più famoso killer seriale della storia? effettivamente, il creatore di SH non si occupò mai di questa sinistra figura, che certo avrebbe oscurato anche il buon vecchio Moriarty; per vedere i due uno contro l'altro bisognò aspettare l'avvento degli apocrifi, molti anni dopo l'ultimo racconto redatto dalla mano di Doyle.

Gli apocrifi Holmesiani sono ormai diventati un genere a se stante nel panorama della letteratura poliziesca, come testimonia la collana "Sherlock" del Giallo Mondadori, che sta giungendo rapidamente al primo anno di vita editoriale. Una collana che seguo dall'inizio e che per ora ha presentato romanzi di qualità altalenante, alcuni veramente ottimi e scritti con uno stile che richiama molto quello di Doyle (La casa della seta di Horowitz, SH e l'affare Hentzau di Davies) e altri che, magari buoni come intreccio, risultano però distanti da tematiche e stile tipici del canone di riferimento (I due di Philip Growick, ad esempio).  In ogni caso, una collana da seguire con attenzione, che questo mese presenta quel tipo di narrativa apocrifa che più mi impensierisce, ossia Holmes contro personaggi del soprannaturale, in questo caso Dracula; diffiderei, ma il fatto che l'abbia scritta l'ottimo Davies mi invita a dare una chance al "pastiche".
 
 
 
Fatto sta che questi apocrifi sopra citati sono tutti piuttosto recenti, ma la tradizione dell'Holmes alternativo risale agli anni sessanta-settanta, quando vengono pubblicati i due apocrifi tuttora (a ragione) più famosi e celebrati, ossia "La soluzione sette per cento" di Meyer (ottimo romanzo del 1974 con SH che incontra Freud) e "Uno studio in nero" , scritto nel 1966 nientemeno che dal duo Dannay-Lee meglio conosciuto come Ellery Queen, che presenta la prima delle tenzoni del duo Holmes - Watson contro lo sventratore. Una seconda manche del singolare match, almeno tra quelle che  conosco pubblicate in Italia (esistono parecchi altri apocrifi inerenti allo squartatore, ma non li lo letti), è affidata, 43 anni dopo, alla giovane e promettente (oltre che avvenente) Lydsay Faye, autrice americana che con "Dust and Shadow", edito da noi col titolo "SH e il mostro dell'east end", numero 8 della collana Sherlock del GM, firma un esordio letterario coraggioso quanto convincente.
 
 

Dico subito che le considero due  opere godibili e affascinanti, molto diverse tra loro ma meritevoli di attenzione ed affetto.

Ma esaminiamo i due romanzi separatamente, partendo (anche per rispetto) dal lavoro di Queen, dal titolo originale "A study in terror".

Siamo come detto nel 1966, quando ormai i due cugini sono pressochè alle ultime battute della loro carriera letteraria. I lavori senili del duo presentano una prosa più asciutta e meno barocca dei loro anni ruggenti, ma anche più scorrevole e leggibile, e le trame, certamente meno geniali, sono comunque rese interessanti ed accattivanti dall'immenso mestiere degli autori.
 
Dannay e Lee
 
Con questo romanzo, caso unico nella loro avventura editoriale, i due autori prendono spunto da un film uscito l'anno precedente, e con lo stesso titolo; il fatto che questa opera, pur brillante, non sia tutta farina del loro sacco, non può non condizionare il pur positivo giudizio.

La narrazione si svolge su duepiani temporali; Ellery Queen, in un periodo di crisi letteraria in cui non riesce a rispettare la scadenza di un romanzo poliziesco che dovrebbe scrivere (siamo nella pura metanarrazione...) riceve da un suo simpatico amico un diario manoscritto (consegnato a quest'ultimo da una mano misteriosa, e per un fine non ben chiaro) che sembra essere stato redatto dal dottor Watson in persona, e che descrive la lotta dei due amici detective contro il terribile squartatore. Quindi, nell'universo alternativo Queeniano, SH e Watson sono due personaggi realmente esistiti.

 Ellery, incuriosito, si mette a leggere il diario, e appare chiaro che chi glielo ha fornito si aspetta che il geniale Queen tragga, su tutta la storia di Jack the ripper, delle conclusioni alternative a quelle proposte dal dinamico duo. Alla fine, infatti, le verità in penombra diverranno chiare come quelle messe al sole da Holmes nel corso del romanzo, e il mistero dello squartatore, almeno per i due cugini, è risolto.

Ormai sulla vera identità del mostro si è speculato talmente tanto che è impossibile stabilire chi fosse realmente (ormai le ipotesi vanno dai pretendenti alla corona fino al più oscuro rifiuto umano dei terribili vicoli di Whitechapel) quindi ogni verità può essere presa per buona.

Il romanzo Queeniano è simpatico e si legge con grande facilità, e le ultime pagine sono da cuore in gola; non è certo uno dei capolavori dei due autori, ma è certo un capolavoro degli apocrifi Sherlockiani, col grande vantaggio di una prosa superbamente adeguata a quella di Conan Doyle.

Lynday Faye
 
Il romanzo della Faye, invece, è ben diverso; autrice giovane, formatasi nella scuola del romanzo vittoriano stile Anne Perry, la scrittrice elabora un romanzo che vuole, oltre a riportare per l'ennesima volta i due eroi sulle tracce dello sventratore, anche fornire una particolareggiata ricostruzione della Londra del tempo, un vero e proprio affresco storico e sociale che risulta affascinante ma a discapito della pura trama poliziesca, troppo spesso frammentata e interrotta dalle descrizioni di ambienti e caratteri; se il libro di Queen si beve come acqua fresca, il romanzo della Faye necessita di un filo in più di attenzione; non che per questo sia noioso, intendiamoci, solo che è un romanzo storico profondamente contemporaneo, e i lettori della nostra epoca amano le ricostruzioni corpose e attendibili, vedi i thriller-balenotteri che escono adesso, lunghi anche il triplo di un poliziesco della golden age. Anche la descrizione delle mutilazioni compiute dal mostro sui corpi delle prostitute, accennate con garbo e senza troppi dettagli da Queen, sono rese dall'autrice con una perizia difficilmente tollerabile nei tempi andati.

La soluzione proposta dalla Faye, molto diversa da quella di Queen ma non per questo meno plausibile, risulta abbastanza brillante pur senza essere memorabile; ma in ogni caso con questo Dust and Shadow mi sono veramente divertito, e il personaggio di Mary Ann Monk, giovane traviata suo malgrado che collabora con Holmes e Watson nell'affannosa ricerca, resta nel cuore. Un viaggio nell'Inghilterra vittoriana che gli aficionados di Anne Perry (io apprezzo ma ho letti ancora troppo pochi) adoreranno, e se non lo hanno già fatto, se lo procurino.

Insomma, due buonissimi lavori, e se si dovesse ipotizzare uno "scontro diretto" tra di essi, sarebbe la sfida tra due grandi vecchi arguti e sornioni e una giovane rampante e coraggiosa; vincerebbero i due cugini per l'intreccio poliziesco meglio congegnato e svolto, ma sarebbe una vittoria di minimo scarto e ottenuta con molta furbizia.

venerdì 5 giugno 2015

L'ANTOLOGIA NEWTON "I CAPOLAVORI DEL GIALLO".


 

Ho da sempre un grande rispetto, e un grandissimo debito, per la casa editrice Newton e Compton. Se nella preadolescenza potevo già permettermi dei libri con le prime modiche paghette (giusto così, mai dare tanti soldi a un dodicenne)  era grazie alle proposte di questo editore, che peraltro distribuiva anche nelle edicole, ottimi libri a prezzi ridicoli.

Gli scaffali delle edicole con più spazio a disposizione, negli anni novanta, traboccavano di prodotti Newton; dai grandi classici ai libri per ragazzi con la costola rossa fino alla mitica "compagnia del giallo" una collana di polizieschi classici tratti perlopiù da vecchie Palmine o GEM con le traduzione  "opportunamente riviste e aggiornate" ma anche tradotti ex novo, e grazie a ciò abbiamo avuto diversi Freeman, Buchan e A.K. Green che col giallo Mondadori non si sarebbero mai viste.

La scorsa settimana è uscito, assieme ad altri sfiziosi  "Mammut" un volume antologico che riprende alcuni di questi vecchi numeri della Compagnia del giallo in una edizione "monstre" di più di mille pagine di grande formato e con copertina rigida.

L'antologia fa seguito, venti anni dopo, a una ormai classica della stessa casa editrice, il Mammut (anche'esso disponibile in libreria) "I maestri del giallo" che includeva tante cosette interessanti.

Ora, io plaudo sempre a queste iniziative, ma purtroppo è stato commesso un errore alla radice, ossia si è voluta intitolare l'antologia  "I capolavori del giallo" ma poi, scorrendo l'indice, a un giallofilo un minimo preparato scappa un pò da ridere, perchè i titoli, scelti con non so quale criterio, non solo per la maggior parte non sono certo capolavori, ma non rappresentano nemmeno la produzione migliore dell'autore scelto.
 
 

 Dunque, visto che i titoli potete leggerli sulla copertina appena sopra, esaminiamoli uno a uno.

Si parte invero "benino" , e Poe è omesso perchè tutto Dupin era già nei Maestri. Il primo titolo proposto è nientemeno che un Conan Doyle, e del canone Holmesiano viene però scelto "Il segno dei quattro"; ora, a parte che io lo venero e lo so a memoria, ma tra i 4 romanzi Sherlockiani  certo il meno classicamente giallo, è più un romanzo d'avventure venate di mistero, ma non rappresenta certo il poliziesco classico, uno degli altri tre, a caso, sarebbe stato molto più indicativo.

Ma adesso veniamo all'errore più marchiano dell'antologia, ovvero all'inclusione del "Profumo della dama in nero" di Leroux; errore perchè non solo questo non è tanto un poliziesco ma più un (comunque ottimo) feuilleton dalle tinte fosche (e con un finale che avrebbe  fatto la gioia di Freud, se lo avesse letto, ma non ci spero) ma soprattutto perchè è un vero e proprio seguito del "Mistero della camera gialla", con gli stessi personaggi il cui destino è dipeso dagli eventi del primo libro, e non ha molto senso leggere la dama in nero senza prima aver letto la Chambre Jeune, oltretutto capolavoro assoluto della camera chiusa. Quindi, o si includevano entrambi, o nessuno, o a limite solo il primo. Incomprensibile.

Il Buchan incluso, "Il mistero della collana", l'ho letto secoli fa e non lo ricordo molto, ma anche questo (comunque buona scelta, proporre ancora "i trentanove scalini" sarebbe stato un errore, c'era già nei maestri) è più un romanzo di avventure misteriose, non capisco come si possa considerarlo un classico del giallo; romanzo comunque godibile.

"Due iniziali soltanto..." è invece uno dei migliori romanzo a firma A.K. Green, la grande signora del proto-poliziesco, scelta felice.

Anche il Fletcher proposto, "Il mistero del diamante giallo" è un buon romanzo, forse il migliore tra quelli dell'autore usciti a suo tempo nella collana. Purtroppo la traduzione risale agli anni trenta e credo sia incompleta, mentre i precedenti romanzi, nota bene, erano tutti stati tradotti in occasione dell'edizione Newton.

"La porta delle sette chiavi" è un bel romanzo di Wallace tra i tanti da lui scritti, ma sinceramente è abbastanza "atipico" per l'autore, e mi pare che a tratti si vada anche oltre i confini del genere; comunque lettura godibilissima, con Wallace non si sbaglia mai, anche se io in una collana di cosiddetti capolavori avrei proposto "Il mago" o "Il mistero delle tre querce", o "L'orma gigante" o "La valle degli spiriti" o...stop.

Ora, di Chesterton non so se viene proposto solo il racconto "Il segreto di Padre Brown" o tutta l'antologia di cui il racconto da il titolo, ma mi duole dire che tra tutte le antologie con Padre Brown "Il segreto" è forse la più debole, con un GKC che rispetto alle prove precedenti ha perso un poco di smalto; le antologie capolavoro Chestertoniane, è risaputo, sono la prima e la terza.

Anche di Biggers, "Il cammello nero" non mi pare, tra i sei romanzi con Charlie Chan, la scelta più azzeccata. Visto che il capolavoro dell'autore, "La casa senza  chiavi" era già nell'antologia di 20 anni fa, avrei preferito "la tragica promessa" o "Dietro quel sipario", ma anche il romanzo incluso non è certo male.

Di tutti i Van Dine, "La dea della vendetta" non può certo essere considerato il migliore; è molto buono e a me è sempre piaciuto per la vena esotica che lo pervade e per lo spelndido personaggio della bella ed enigmatica Meryt-Amen, ma La canarina assassinata, La fine dei Greene e L'enigma dell'alfiere sono di un altro pianeta.

E anche il romanzo finale dell'antologia, "Il mistero della signora scomparsa" di Ethel Lina White,  è un titolo veramente ottimo, ma ahimè è più una Spy-Story che un giallo, e con la presente selezione ci incastra il giusto; in ogni caso, chicca assoluta, se non si è visto il film di Hitchcock poi vi mancherà il fiato dalla suspense.

Insomma, dopo questa disamina, bisogna sottolineare una cosa; se negli anni novanta non avete comprato i gialli Newton per disinteresse o perchè siete giovani e al tempo non c'eravate, questo tomone di 1250 pagine è uno splendido amico da portare sotto l'ombrellone, e se solo non si fregiasse del pretestuoso  e ammaliatore titolo che porta, sarebbe una  delle migliori proposte degli ultimi tempi; ma se siete neofiti, o avete l'età che avevo io quando mi perdevo nel giardino di delizie della Compagnia del giallo, prendetelo e leggetelo comunque (a eccezione del Leroux, davvero, prima La camera gialla...) perchè potrebbe rappresentare un ottimo inizio per l'esplorazione della narrativa del mistero in varie salse; si, perchè ,forse involontariamente, l'antologia presenta un ottimo compendio di tutte le sfumature del Mystery classico, e infatti poteva intitolarsi "Dieci sfumature di mistero" tanto per scimmiottare il best seller scemotto degli ultimi anni, e allora sarebbe stato perfetto e forse venderebbe anche di più. E a forza di parlarne mi viene voglia di comprarlo, la nostalgia a volte è più dura da uccidere di alcune delle vittime dei romanzi proposti. Vi invidio se non avete questi titoli, e davvero, voi ragazzi delle scuole che starete tre mesi tranquilli a casa, andate a comprare il volume ( e già che ci siete rendete anche I maestri del giallo, nemmeno 20 euro per duemila pagine!)e passateci l'estate, appassionatevi al genere, e quando poi vorrete cercare i veri capolavori del giallo,  cercate sul mio blog e troverete le indicazioni giuste. A buoni intenditori...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 3 giugno 2015

"IL MISTERO DI CLOOMBER" DI ARTHUR CONAN DOYLE.


 

Come molti sanno, Conan Doyle non fu solo Sherlock Holmes, anzi, fosse dipeso da lui il canone Holmesiano sarebbe assai più ridotto. L’autore prediligeva scrivere altro, soprattutto romanzi storici come il bellissimo ciclo di sir Nigel Loring (Le cinque rose, conosciuto anche come la Compagnia bianca) ritenuto dall’autore, forse giustamente,  il suo capolavoro, oppure la serie del professor Challenger, lo scienziato-esploratore dai modi bruschi e dalla barba come quella di un Assiro, che annovera titoli notevoli come “Il mondo perduto” vero e proprio Jurassik Park dell’epoca, e anche molte opere tra fantascienza e horror, perlopiù narrativa breve con dei racconti che sono dei gioiellini. Il mondo Conandoyliano alternativo a SH lo scoprii da adolescente, e con sommo diletto, grazie al meraviglioso cofanetto Newton che conteneva quasi tutta la produzione orririfica e di scienze-fiction, e ormai dieci anni fa integrai il poco che ancora mi mancava con la ormai irripetibile collana “Sherlock Holmes e Co.- tutti i capolavori di Conan Doyle” Edita in edicola dalla Fabbri, che presentava opere ormai introvabili come “Rodney Stone”, “La tragedia del Korosko” e appunto “Il mistero di Cloomber” che  esamineremo in questa occasione.
 
 

Questo  “The mystery of Cloomber” fu scritto dall’autore nel 1889, tra “Uno studio in rosso” e “Il segno dei quattro” i due primi romanzi Holmesiani. Un periodo di fervente creativita nel quale l’autore non era ancora prigioniero della sua immortale creatura e cercava ancora la sua strada di narratore.

E, bisogna ammetterlo subito, la strada per Cloomber non era certo la migliore tra quelle intraprese dall’autore.  Il romanzo, fin dalle prime righe, presenta un pesante debito non solo di atmosfere ma anche di struttura (tutta la storia è narrata attraverso testimonianze, lettere, diari..) con “The Moonstone” di Wilkie Collins, il rivoluzionario capolavoro che cambiò per sempre il modo di concepire le storie del mistero. Non deve certo stupire che il giovane Doyle fosse rimasto oltremodo affascinato dal romanzo, è certo stato un destino comune di tutti i Vittoriani alfabetizzati. E se con questo Cloomber volle imitarlo un poco goffamente, non gliene si farà certo una colpa, anche perché il breve (appena 130 pagine) romanzo mantiene quella leggibilità quasi miracolosa che tutte le opere dell’autore, anche le meno riuscite, possiedono. Non una pagina di noia in questo romanzo, anzi, per qualche misteriosa ragione Doyle glissa su alcuni aspetti della trama (vedi la doppia storia sentimentale) che avrebbero mandato in solluchero i suoi contemporanei, e che avrebbero dato al testo maggior spessore e coerenza.

La storia, si vedrà, è del tutto assurda e piena di coincidenze forzatissime; siamo in Scozia, in una landa desolata sul mare d’Irlanda, una zona talmente fosca e minacciosa che al confronto Dartmoor e le sue brughiere sono radiose e incantevoli. Qui, un professore di Sanscrito di mezza età  con un figlio e una figlia ventenni e in bolletta perenne di nome John Hunter West  viene invitato da un parente ricco a occuparsi di una sua tenuta, che confina col fosco maniero di Cloomber, che si dice sia stregato.

Qualche settimana dopo che i West si sono felicemente installati nella contea  il sinistro castello viene preso in affitto dallo stravagante, inquietante generale Heatherstone, un pluridecorato militare in pensione che però da anni vive come braccato, trascinando la sua famiglia (moglie e figlio e figlia ventenni; indovinate cosa succede non appena questi ultimi conoscono i figli del professor West, loro coetanei? vi do un indizio, i ragazzi sono forti e premurosi e le fanciulle entrambe belle e buonissime) in luoghi sempre più remoti e inaccessibili, montando la guardia ogni notte temendo un pericolo imminente, un qualcosa di tanto tremendo da non riuscire neppure a parlarne.

Il giovane West per settimane resta con il fondato dubbio che il generale in fondo non sia del tutto pazzo, ma ecco che un brutto giorno arrivano nella zona tre sinistri Indiani, colti ed eruditi (per la gioia del professore di Sanscrito) ma con intenzioni poco chiare…

Rapidamente si arriva alla conclusione della fosca vicenda (che Doyle, e questo è l'aspetto migliore del libro, lascia parzialmente nel mistero, con alcuni interrogativi non spiegati appieno, la cui risposta è lasciata alla fantasia del lettore), la quale ha origini remote abbastanza scopiazzate dalla Pietra di luna, ma se in quest’ultimo libro la vicenda, seppur poco credibile in alcuni punti, non varca mai la soglia del soprannaturale, Doyle scomoda senza troppo batticuore magia Indiana e misteri della giungla nera, distruggendo ogni pretesa di verosimiglianza ma divertendo assai quel lettore che  prende il romanzo per ciò che è; Il mistero di Cloomber non è infatti niente più che una bizzarra, assurda, ma in fondo amabile fantasia vittoriana di un autore che, libero dai lacci di Holmes, non badava più a contenersi risultando in alcuni piunti incoerente e goffo ma che, come Wallace, Leblanc e pochissimi altri, manda in estasi il pubblico bendisposto proprio per queste adorabili bizzarrie.
Il romanzo si trova in libreria per i tipi della nuova editrice Berti nella bella collana "Il lama nero" che comprende anche testi di Chesterton, Leblanc e Buchan, ma costicchia, magari conviene cercare in qualche  reimanders  l’edizione dlla Fabbri, con elegante copertine rigida.