venerdì 28 marzo 2014

L'OCCHIO DI OSIRIDE, DI RICHARD AUSTIN FREEMAN


Diciamoci la verità; chi di noi almeno una volta, fin da bambino, non si è lasciato affascinare da uno dei mondi perduti più citati e sfruttati dall’immaginario collettivo come l’antico Egitto delle piramidi, dei Faraoni e delle bellissime Principesse? Tutte le forme di narrativa possibili, dalla letteratura al cinema fino ai cartoni animati, hanno sfruttato il filone. Ogni grande eroe dei fumetti vi ha avuto a che fare (perfino Tex Willer, perché l’antico Egitto si esporta anche nel far west, zero problemi) e come vedremo quasi ogni giallista classico.

Innanzitutto, va detto, il sotto filone Egiziano è tuttora vivo e vegeto nella letteratura d’evasione contemporanea. Ovviamente viene subito alla mente il ciclo di romanzi di ELizabeth Peters con la sua intrepida Indiana Jones in gonnella Amelia Peabody, che col marito Radcliffe sarà protagonista di godibili vicende ambientate nell’Egitto di fine ottocento, all’epoca terra di conquista sia di archeologi che di volgari tombaroli. Molto note anche le avventure del giudice Amerotke, nate dalla penna dell’eclettico Paul Doherty, maestro del giallo storico contemporaneo.



Grande successo ebbe, negli anni novanta, la trilogia thriller “Keophs” di Christian Jacq, già autore del fortunatissimo ciclo di Ramses, una delle mie letture preferite dell’adolescenza.

Anche Wilbur Smith, il titano dell’avventura contemporanea (anche se da parecchi anni ormai non ne imbrocca mezza) non ha resistito al fascino delle piramidi, regalandoci libri memorabili come “Il Dio del fiume” e soprattutto “Il settimo papiro”, bellissima spedizione senza esclusione di colpi per ritrovare  una tomba perduta  lungo il Nilo, un libro che ai tempi mi folgorò e che davvero dovrei rileggere, perché merita. Insomma, un successo che non conosce requie, anche se a noi interessa la sua variante “gialla”.

Per chi scrive, il romanzo che ha dato il “La” alla fascinazione dei Britannici per l’antico Egitto è stato un libro  non eccelso e carente nello stile (come molte opere dell’autore, purtroppo) ma imitato a oltranza  di Bram Stoker, ovvero “Il gioiello delle sette stelle”. Il libro è una delirante avventura a metà tra l’horror e il fantasy,  con una antica e malvagia Dea, che dopo essersi risvegliata durante un’incauta spedizione archeologica cerca di reincarnarsi nel corpo di una dolce fanciulla, figlia dello scienziato he comanda la spedizione. Temo che ormai, viste le numerose varianti, la storia abbia perso mordente per il lettore odierno, ma indubbiamente  rappresenta alla perfezione tutto il bagaglio di questo particolare filone; statuette e mummie che si animano di notte nei musei e nelle facoltà accademiche, misteriosi e minacciosi stranieri che cercano di riappropriarsi del maltolto (e giustamente, visto che spesso gli archeologi non andavano per il sottile), ragazze dalla pelle olivastra e gli occhi viola che si aggirano furtive per saloni e strade buie, omicidi rituali e strane iscrizioni;  i migliori romanzi “Egiziani” sono ambientati a Londra e dintorni, ovviamente compare spesso il  British museum (La sala egizia fu filmata anche da Hitchcock nello splendido finale di Blackmail, il suo primo film sonoro) ma in ogni caso Musei, Atenei, isolate magioni di campagna, vicoli bui e fetidi Docks sono l’ambiente eterogeneo quanto naturale per queste storie.

Il filone dell’ “Egyptian Mystery ” prese piede nei primi anni del ventesimo secolo, e quasi tutti gli addetti ai lavori colorarono di sfumature Egiziane alcuni loro lavori; da Fergus Hume (L’uomo dai capelli rossi) a Sax Rohmer (che nel divertente ma involontariamente ridicolo “Occhi nel buio” mette in scena tutti i cliches del mistero Egizio sconfinando goffamente nel soprannaturale), passando per John Dickson Carr (L’arte di uccidere) e per finire ovviamente ad Agatha Christie, che dell’Egitto aveva una conoscenza di prima mano, grazie ai viaggi compiuti col secondo marito archeologo Max Mallowan; citazione obbligatoria per Poirot sul Nilo, per il graziosissimo racconto “La maledizione della tomba egizia” i cui Poirot e Hastings condividono la vita degli archeologi, per finire a due opere che nell’antico Egitto sono direttamente ambientate, ossia il famoso “C’era una volta” e un misconosciuto dramma teatrale, “Nel regno di Akhenaton”, pubblicato nel secondo volume di “Tutto il teatro di Agatha Christie”, quattro libri ormai introvabili seppur pubblicati negli Oscar Mondadori solo nel decennio scorso, e che DEVONO essere ristampati.

In ogni caso, il grande capolavoro dell’ Egyptian Mystery  è e rimarrà  “L’occhio di Osiride” di Richard Austin Freeman, un romanzo eccezionale datato 1911 che la Polillo ha ripubblicato da pochi giorni.

L'EDIZIONE DEI GEM
 
Secondo romanzo dell’autore dopo il convincente “L’impronta scarlatta”, fu tradotto per la prima volta ( piuttosto tagliato, ahimè) da Alberto Tedeschi, poi il giallo Mondadori lo rieditò nella collana dei “Grandi del mistero” con una nuova traduzione Integrale di Laura Grimaldi, versione riportata nel classico del giallo n. 759. E ora la Polillo, sempre in traduzione Integrale di M. Dellatorre, rende comodamente disponibile in ogni libreria questa pietra miliare del poliziesco, un romanzo anche importante, oltre che bellissimo.

 
 
La forza del libro risiede nella perfetta convivenza di tre fattori; un intrigo poliziesco che soddisferà anche i “duri e puri” dell’enigma arzigogolato e contorto, delle bellissime descrizioni della Londra di inizio Novecento degne del miglior Chesterton e una grande, vera e sentita storia d’amore, mi azzarderei a dire la più bella di tutto il poliziesco, in quanto non è invadente rispetto all’intreccio, ma si amalgama con esso, quasi a offrire delle pause rilassanti in mezzo a un caso estremamente complesso. Non è come nei romanzi della Heyer e della Eberhart ( ottime autrici, intendiamoci) nella quale la Love Story “deve” esserci e spesso finisce per ridondare rispetto alla trama, in questo l’occhio di Osiride tutto combina alla perfezione.

E, altra cosa non trascurabile, in questo romanzo l’antico Egitto non è solo evocato o usato per creare suggestioni più o meno a buon mercato, qui si dedicano intere pagine a questa antica e misteriosa civiltà, si apprendono nozioni interessanti ( splendide le pagine ambientate al British Museum, dove tra l’altro ha inizio l’idillio dei due giovani protagonisti) e alla fine della lettura si sa un po di più di Antico Egitto, non moltissimo certo, ma qualcosa si.

Raccontare la trama è praticamente impossibile, non mi ci provo neanche; c’è un uomo, appassionato Egittologo, che è scomparso, un complicatissimo testamento legato alla sua persona, due giovani che si innamorano, il geniale Thorndike che indaga e risolve il caso in modo spettacolare. Vi basti questo, tutto quello che potete fare è procurarvi il libro e immergersi in un romanzo “totale” in quanto accontenterà i romantici come il sottoscritto, coloro che vivono il poliziesco come una grande sfida intelletuale  e, infine, coloro che “semplicemente” amano i libri scritti come Dio comanda.

Buona lettura.

venerdì 21 marzo 2014

“IL MAESTRO DEL GIUDIZIO UNIVERSALE” DI LEO PERUTZ.


Ci sono degli autori che somigliano solo a se stessi.Unici e inimitabili, che creano un genere tutto loro, e che spesso, col passare delle generazioni, vengono relegati nel grande limbo dei cari estinti, in quanto troppo strani, troppo difficili perché gli editori abbiano il coraggio di riproporli al lettore d’oggi. Per fortuna che case editrici come Adelphi hanno ancora (chissà per quanto…) il coraggio di ristampare questi cani sciolti della letteratura, questi libri strani ed enigmatici che creano un genere a se stante; quello del fantastico puro, in cui, pur in un contesto reale, tutto può accadere.

Assieme a Lernet Holenia, Gustav Meyrink, Urzidil e pochissimi altri, il maggior esponente di questa corrente letteraria sviluppatasi soprattutto nella Mitteleuropa dei primi decenni del secolo scorso è stato sicuramente Leo Perutz, ebreo Praghese dalla vita errabonda, finissimo narratore ma anche insigne matematico, dualismo che si fa evidente nei suoi libri, fantasiosi ma anche rigorosi come teoremi, dove pur restando nei limiti dell’assurdo tutto torna, tutto è spiegato. Perutz venne definito “Il risultato di una scappatella di Franz Kafka con Agatha Christie” ma forse non è vero, visto che della Christie l’autore ha poco o nulla; i suoi intrecci ricordano più i Thriller Hitchcockiani e le atmosfere alla Dickson Carr, ma giustamente Kafka, se anche fosse stato più tombeur du femmes di quel che era, non avrebbe potuto metterli incinta, per cui la definizione, seppur forzata, può starci.

L'autore
 
 
Di Perutz, che prima della ripubblicazione in Adelphi era assai difficile da recuperare, ho letto con sommo diletto “Dalle nove alle nove” Thriller al cardiopalma (adorato da Hitchcock, che avrebbe voluto filmarlo) in cui un uomo di mezza età vaga per una Vienna spettrale  compiendo una serie di azioni assurde e prive di senso per un motivo del tutto imponderabile ( se vi interessa, leggetelo senza approfondire in rete, visto che quasi tutti lo spoilerano) oppure “Tempo di spettri” ,ossessionante caccia all’uomo per mezza Europa con beffa finale, oppure le suggestive leggende fantastiche Praghesi narrate in “Di notte sotto il ponte di pietra” ; ma tutti i Perutz meritano, per un motivo o per l’altro.

Per chi scrive (non li ho letti ancora tutti) il libro dell’autore più bello e affascinante è però “Il maestro del giudizio universale” romanzo del 1923 ambientato però nel 1909 in una Vienna ancora da Belle epoque, permeata però da presagi di guerra, di catastrofe.

Riassumere il libro è impresa ardua se non improba; si svolge tutto nel giro di qualche giorno, tra pochi personaggi, e se la prima parte è un dramma da camera la seconda è un enigma di stampo Carriano sempre più inquietante e con una soluzione che viola qualsiasi legge scritta e non scritta del poliziesco classico, ma che è altamente suggestiva e non toglie al libro di essere considerato uno dei gialli più strani e suggestivi di sempre.



Si, giallo a tutti gli effetti, anche perché, come ho scoperto dopo aver letto l’edizione Adelphi, il romanzo era già stato pubblicato nientemento che nella collezione dei libri gialli Mondadori, ossia è la palmina numero 30; mi piacerebbe sapere chi fu al tempo l’editor così bravo e lungimirante da includere questo titolo (uno dei pochissimi di autori non Anglofoni e Italiani) nella leggendaria collana, forse Alberto Tedeschi o forse no, ma in ogni caso era qualcuno che sapeva il fatto suo; leggere questo libro nel 1931 deve aver procurato all’Italiano provinciale e privato di forti emozioni dell’Italia fascista del tempo dei brividi davvero notevoli.

 
Copertina di Abbey per l'edizione nei libri gialli (fonte; sito fantascienza.com)
 
 
La storia, in soldoni, è questa; nella villa Viennese dell’attore in declino Eugen Bishoff si ritrovano per una serata a tema musicale il Barone von Yosh, indolente ufficiale segnato dalla guerra Russo-Giapponese del 1904, L’ingegner Solgrub, affascinante ma antipatico e scostante, lo stralunato e gnomesco dottor Gorsky e la bellissima Dina, moglie di Bishoff, che in passato era stata l’amante del Barone. A un certo punto arriva anche Felix, il fratello di Dina, che odia il barone per l’affronto all’onore della sorella. In questa compagnia male assortita la serata procede a fatica, tra frecciatine e rancori mal sopiti; a un certo punto Bishoff racconta alla compagnia una strana storia di due inspiegabili suicidi di due giovani ufficiali, persone normalissime che di colpo sono completamente impazziti e senza alcun motivo si sono tolti la vita, così di punto in bianco. L’attore annuncia di essere vicino alla spiegazione di quell’assurdo mistero, ma alla fine della serata, mentre si ritira nelle sue stanze per provare una nuova parte, si getta dalla finestra, anche lui senza alcun motivo apparente. Prima di spirare, farfuglia di un uomo  gigantesco dall’aspetto mostruoso che parla Italiano, e di un misterioso maestro del giudizio universale.

Da qui il barone, che sulle prime vuole fuggire in quanto accusato dal rancoroso Felix di aver spinto Bishoff al suicidio per poi poter sposare Dina, intraprende invece una strana e tortuosa indagine, che porta a una soluzione talmente imprevedibile da non essere nemmeno ipotizzabile, e per questo il libro è da gustarsi così com’è, senza tentare di capirci qualcosa; solo in questo modo la lettura di questo seducente e stralunato capolavoro potrà essere apprezzata appieno, come tutti gli altri romanzi del geniale romanziere Praghese. Una lettura veloce, leggera, che Bertolt Brecht, che in altre occasioni spese parole al miele per il poliziesco e per Edgar wallace in particolare, definì troppo frettolosamente “una buona lettura per viaggi in treno”; ma una lettura anche profonda, metafisica e sottilmente inquietante, e che una volta terminata lascia attoniti e felici, come tutti i migliori romanzi non solo polizieschi.

martedì 11 marzo 2014

NONSOLOGIALLO; "CHIAMATE LA LEVATRICE", DI JENNIFER WORTH


C’è da qualche anno in Inghilterra, sui canali BBC, un telefilm meraviglioso, per chi scrive il più bel telefilm degli ultimi tempi, con buona pace del tanto celebrato “Downton abbey”  che dopo la prima, splendida stagione si è involuto fino a diventare niente di più di una sontuosa telenovela.

Il telefilm in questione, che sto seguendo in lingua originale con sottotitoli Italiani  resi disponibili da quegli angeli di Subsfactory, si intitola “Call the midwife” che in Italiano si traduce appunto in Chiamate la levatrice;  questa serie è tratta da una trilogia di libri tra il romanzo, il saggio e il memoriale della ex-levatrice e infermiera professionale Jennifer Worth, morta purtroppo nel 2011 proprio quando il successo del telefilm ha portato la sua fama a livelli planetari…Italia esclusa almeno fino ad adesso, visto che il libro è uscito solo da una decina di giorni e il telefilm, ahimè, nonostante sia già alla terza stagione e abbia vinto numerosi premi, nelle nostre reti non è ancora arrivato. Beh, spero che l’uscita del libro sia da apripista per la proposizione della serie in Italia, ma per fortuna c’è internet e di questi tempi è possibile seguire una serie nonostante i nostri media la snobbino colpevolmente; anzi, un pò li giustifico, visto che una serie drammatica ma non melodrammatica, rigorosa e con poche concessioni alla spettacolarità forse non ha presa sul nostro pubblico, che preferisce le fiction- santino della Rai  e i Carabinieri da operetta di Mediaset.



In ogni caso, almeno il primo libro della trilogia della Worth, pubblicato nel 2002, è finalmente arrivato anche qua grazie alla Sellerio, che negli ultimi tempi sembra essersi scossa dal torpore della continua riproposizione di gialli-noir contemporanei Italiani e Spagnoli per proporre qualcosa di veramente valido, vedi “Orley Farm” di Trollope e questo “Chiamate la levatrice”.

Questa strana opera autobiografica documentaristica e rigorosa ma che comunque concede all’affabulazione quanto basta per rendere il tutto una lettura assai godibile rappresenta, attraverso l’esperienza  diretta della narratrice, due grandi affreschi; quello dell’evoluzione della pratica ostetrica dal secondo dopoguerra in poi e quello dell’ East-end Londinese dei quartieri popolari e pittoreschi (termine elegante per non dire degradati) attorno ai vecchi Docks, ossia i porti sul Tamigi che ora non esistono più, negli anni cinquanta del secolo scorso, quando questo mondo ancora intatto stava però per mutare, fino a scomparire del tutto; ora l’East end è irriconoscibile rispetto  a quello narrato dalla Worth, e il libro diventa quindi una testimonianza di incalcolabile importanza.

l'autrice da giovane


Il libro, però, è anche la splendida, quasi avventurosa epopea del convento-ospedale “Nonnatus House”, dove l’ordine delle suore di San Raimondo Nonnato (chiamato così in Latino perché nacque col Cesareo) praticava l’arte della levatrice fin dalla metà dell’ottocento, in modo da garantire anche alle famiglie povere un’assistenza ostetrica adeguata, e salvando letteralmente migliaia e migliaia di vite di madri e bambini.Dopo la seconda guerra mondiale, il servizio sanitario Inglese affiancò alle esperte suore anche delle infermiere laiche, per garantire una copertura adeguata di un territorio brulicante di persone che non conoscevano nemmeno il significato del termine “contraccezione” e dove una donna poteva avere anche ventiquattro figli (!) .Fin dalle prime pagine, assieme a una giovanissima e spaesata Jennifer entriamo nella singolare atmosfera del convento, conosciamo le suore (la vecchia e svampita Sister Monica Joan, che per anni ha diretto tutte le attività ma che cominca a cedere alla demenza senile rendendo la vita talvolta impossibile anche alle consorelle, la rude e sboccata ma efficientissima Sister Evangelina, la dolce Sister Julienne, la riflessiva e ancora giovane e bella Sister Bernadette) e le infermiere più anziane, che in realtà sono solo due; la bionda e civetta Beatrix detta Trixie, che  si da arie da vamp ma in realtà è di saldissimi principi, e la dolce Cinthya, pacata e remissiva.  Con Jennifer arriva anche la formidabile Camilla detta Chummy, un donnone di quasi un metro e novanta dalla incredibile goffaggine, che però per la sua bontà e tenerezza finisce per essere aiutata e benvoluta dalle colleghe e da tutto il quartiere.

 
Il team delle levatrici nel telefilm; Trixie, Chummy, Jenny e Cynthia
 
 
Dopo una prima parte di accurate descrizioni degli ambienti e delle numerose pratiche legate alla professione di levatrice (con dettagli anche crudi che sulle prime possono impressionare i lettori più sensibili)  la narrazione si fa più mirata e intima; si analizzano ad uno ad uno i personaggi del nonnatus house e le loro storie, per passare poi alle vicende degli assistiti, con storie a volte grottesche, a volte drammatiche e altre volte terribili, come quelle di Mary, giovanissima prostituta alla quale viene tolto il figlio illegittimo e che per questo impazzirà arrivando a rapire dalla culla i bambini di altre donne, o la triste storia di Mrs. Jenkins, una vecchia dall’aspetto ripugnante che non fa che seguire le levatrici per informarsi sui parti; sulle prime Jennifer ne è infastidita e tratta la donna con malcelata antipatia, poi col tempo viene a conoscenza della sua terribile storia, fatta di indigenza, di ospizi, di figli morti di stenti, e dopo un sereno bagno di umiltà fa di tutto per aiutare la povera donna ad avere almeno una vecchiaia serena.

Insomma, volendo fare il più facile e banale dei paragoni, un libro che sulle prime pare un saggio legato alla professione di levatrice diventa un caleidoscopio di storie dal sapore Dickensiano (ecco, l’ho detto) il mondo dei bassifondi che il grande autore ha reso celebre aggiornato un secolo dopo. E il lettore, chiudendo il volume, capisce di aver compiuto un viaggio inaspettato e irripetibile nel cuore oscuro di una Londra che ormai non esiste più; l’autrice stessa infatti indica il rapido declino e la fine delle Docklands grazie a due semplici fattori; la chiusura dei grandi porti fluviali per lo scarico merci (che dava lavoro e sostentamento a tutti gli abitanti) e la pillola contraccettiva, che pose fine alle famiglie esageratamente numerose (i parti mensili scesero in poco tempo da sessanta a cinque) e alla conseguente sovrappopolazione. Un mondo che, seppur duro, spietato, crudele e quasi invivibile dal punto di vista igienico-sanitario l’autrice non può fare a meno di ricordare con malcelato affetto, non tanto per una semplice mitizzazione della propria gioventù quanto per lo smisurato orgoglio di aver fatto parte di un sistema che permise di partorire dignitosamente a una quantità impressionante di madri, un’impresa davvero ciclopica portata avanti da un pugno di donne eccezionali con un coraggio, una determinazione e soprattutto un ENTUSIASMO che al giorno d’oggi, in questi tempi di sospetto e disillusione, è difficile anche pensare; chi ha ancora dubbi sulla parità dei sessi dovrebbe proprio leggersi questo libro, ma è inutile pensare che possa farlo perché chi ha pregiudizi simili è un imbecille e gli imbecilli non leggono libri, specialmente come questo.

Un’altra cosa che colpisce è la rara obiettività dell’autrice; non fa elegie o peana a niente e a nessuno, a seconda dei casi elogia o critica duramente sia il sistema sanitario e giudiziario Inglese che lo stesso operato del Nonnatus house. Non ci sono sconti per nessuno, sia per gli encomi che per i biasimi. Vorrei trovare questa obiettività anche oggigiorno, lo vorrei davvero.

Insomma, sperando che presto il telefilm sia trasmesso sulle nostre reti, non mi resta che consigliarvi caldamente la lettura di questo testo straordinario, forse uno degli ultimi grandi affreschi “in presa diretta” di una Londra popolare che, nel bene e nel male, per due secoli è stata e continua ad essere immortalata (a ragione) come la vera capitale del mondo occidentale.

lunedì 3 marzo 2014

UNA MERAVIGLIOSA RARITA’ ; “UNA VOCE DALLE TENEBRE” DI EDEN PHILLPOTTS.


Ogni appassionato di gialli ha bisogno di una guida, di qualcuno che, comprendendo i suoi gusti, sappia consigliare al neofita gli autori giusti, i titoli migliori per cominciare. O in mancanza di persone fisiche, un luogo anche virtuale dove ricevere le giuste informazioni. Purtroppo quando ero veramente giovane e spensierato e avevo delle estati infinite dove il tempo di leggere era pressoché illimitato, internet non lo avevo ancora, per cui la mia era una passione coltivata da totale autodidatta. Spero che questo mio blog possa essere d’aiuto a qualcuno che muova i primi passi nel mondo della letteratura poliziesca, il fine che mi propongo è quello, non voglio fare il critico o tantomeno il teorico; in pratica, vorrei dare quello che da quando possiedo il pc ho a mio tempo ricevuto, visto che da vari anni i pochissimi ma buoni blog che parlano di gialli classici mi hanno aiutato non poco a orientare le mie scelte recenti (soprattutto nei bassotti Polillo), e su tutti quello con cui ho un debito  inestinguibile è sicuramente “L’Oeil de Lucien”; devo alla sua curatrice, la signora Giuseppina, decine di acquisti e letture felicissime, e gliene sarò sempre grato; ma il libro che ho recuperato in questi giorni mi ha lasciato davvero senza fiato per molti fattori, uno di quei libri per cui ti chiedi “ma come ho fatto a farne a meno fino ad adesso”?.
Il titolo in questione è il bellissimo “Una voce dalle tenebre” (A voice in the dark) di Eden Phillpotts, pubblicato nel lontano 1933 nel numero 70 della mitica collana dei Libri Gialli, e ahimè mai più ristampato; davvero non so spiegarmi il perché di questa trascuratezza, visto che si sono ristampati nei capolavori e nei classici opere del tutto mediocri se non brutte e si sono ignorate delle Palmine di prim’ordine (*) che anche oggi troverebbero sicuramente degli estimatori,  perché i bei libri non hanno età.
l'autore

Oggi Eden Philpotts è noto soprattutto per essere stato il mentore di Agatha Christie, l’uomo che l’ha spinta a coltivare la sua vocazione di scrittrice. La stessa Agatha, nella sua autobiografia, ne parla in termini lusinghieri, dedicando ben due pagine di elogi sperticati a quest’uomo per il quale ha una gratitudine sconfinata.
Il problema è che questo ruolo di “Scopri-Christie” che ormai Phillpotts ha assunto oggigiorno ha finito per oscurare la sua notevole opera letteraria; il suo libro più famoso (riproposto anche dalla Newton) è sicuramente “La camera grigia”, affascinante anche se difficilmente credibile giallo di camera chiusa, sicuramente molto divertente ma certamente inferiore all’altro titolo dell’autore tradotto negli anni trenta da Mondadori (ce n’è anche un altro, un giallo avventuroso dal titolo Oro sommerso, che l’autore scrisse a quattro mani con Arnold Bennett)  ossia questo La voce dalle tenebre, un lavoro veramente di prim’ordine.


La copertina di Abbey (fonte; blog l'oeil de lucien)

Innanzitutto, il romanzo non è un giallo classico ma piuttosto una “Inverted Story”, ossia il tipo di poliziesco dove si sa già chi sia il colpevole e l’interesse risiede nel come e se l’investigatore riuscirà a smascherarlo, un procedimento reso poi famoso dal cinema di Hitchcock e dal Tenente Colombo.
Il sipario si apre con un famoso investigatore in pensione, Jacob (anzi Giacomo, nell’italianizzazione dei nomi voluta dai fascisti) Ringrose, che si reca in una locanda sulla costa dell’Essex, per concedersi un meritato riposo. Dopo pochi giorni, però, accade un fatto inquietante; nel bel mezzo della notte, Ringrose ode distintamente una voce di bambino terrorizzata, che implora qualcuno di nascondergli qualcosa alla vista. Il detective ne rimane turbato, visto che nella locanda non ci sono bambini e il grido veniva dalle immediate vicinanze della sua stanza. La notte successiva il fenomeno si ripete, lasciando Ringrose assai perplesso, perché seppur spaventato non è il tipo da credere ai fantasmi. Il detective poi si confida con due pensionanti fisse con le quali nel frattempo ha fatto amicizia, una vecchia signora inferma e la sua dama di compagnia, che, scioccate, raccontano all’investigatore una storia terribile; l’anno prima, proprio nella stanza in cui Ringrose dorme, un bambino di nome Ludovico fu ripetutamente terrorizzato da una mostruosa apparizione fino a morire letteralmente di paura; le due donne, con cui il bimbo si era confidato, indagando sospettose trovarono in una cappelliera nella stanza del bambino, che nella locanda viveva col servo Arthur Bitton, apparentemente molto buono e devoto all’infante, una orrenda maschera riproducente un volto demoniaco, e le donne capiscono che a terrorizzare Ludovico è lo stesso Bitton, e facendo due più due capiscono che l’uomo che ha ideato la terribile messinscena non può essere altri che lo zio del bambino, il terribile Burgoyne Brooke, che grazie alla morte di Ludovico potrà diventare Lord ed ereditare le sostanze del defunto fratello e padre del bambino. Purtroppo però dopo la morte di Ludovico le due donne non riuscirono a provare nulla, perché la maschera era sparita e Burgoyne risultava al di sopra di ogni sospetto.
Ringrose, che dopo la pensione si annoiava e aveva giusto bisogno di una vera avventura, decide di credere alle due donne e cercare di incastrare i due colpevoli, servo e padrone. E da quel momento Ringrose diventa una specie di angelo vendicatore, che sulle prime ottiene un facile trionfo liquidando il pavido Brooke con la stessa tecnica usata per il piccolo Ludovico (con sequenze di una suspense sopraffina) ma che poi però troverà un avversario degno di lui; Lord Brooke è infatti uno dei migliori villains mai creati, degno del Conte Fosco di “The Woman in White” di Wilkie Collins, perché come quest’ultimo è un cattivo che non è sordo alle lusinghe del bene, che vive quieto e sereno dominato da una passione totalizzante e ossessiva, quella per gli avori intagliati, per i quali spende una vera fortuna e che sarà il vero movente di tutte le sue nefandezze, visto che i soldi del fratello gli servivano non per ostentare ricchezza, ma per comprare gli avori più rari senza tirare sul prezzo; questo connotato a parer mio da ancora più risalto alla grottesca e complessa figura di Lord Brooke, che tra l’altro è anche capace di amare sinceramente, dal momento  che l’affetto che prova per la giovane Mildred, la sorella maggiore del bimbo morto che vive con Burgoyne senza sospettare niente, è del tutto sincero, anche se non esiterà a separare con la menzogna Mildred e un giovane e idealista dottore che amava sinceramente la fanciulla, per indirizzare la fanciulla verso un partito a lui più gradito.
Ringrose conduce con Lord Brooke una lunghissima e snervante partita a scacchi lunga mesi, in cui gli avversari si sfidano consapevoli del rischio che corrono. Per cercare prove e testimoni, il detective seguirà la pista del colpevole e si spingerà fino a Firenze, e poi sulle montagne Svizzere sopra Lugano, dove la storia avrà il suo spettacolare e cinematografico epilogo. Alla fine il bene trionferà, giustizia sarà fatta e gli innamorati saranno finalmente riuniti, ma Ringrose rimarrà segnato dall’esperienza. Nel finale, poi, anche la misteriosa voce fantasma troverà una sua spiegazione razionale (questa abbastanza intuibile in verità).
Se questa volta mi sono dilungato più del solito nel raccontare la trama e ho osato qualche spoiler, è per il fatto che purtroppo difficilmente avrete la gioia di leggere questo libro; io l’ho trovato dopo mesi di ricerche, e se qualcuno non lo mette su internet a un prezzo onesto recuperarlo sarà veramente difficile. Ma siccome niente è impossibile, se riuscite a metterci le mani prendete senza indugi questo capolavoro, che tra l’altro, nomi Italianizzati a parte, fu tradotto splendidamente da Giulio Peluso, con una prosa fluida e spedita, per nulla datata o farcita di arcaismi, e che soprattutto mi pare integrale, visto che sequenze slegate dalla trama principale come quella, bellissima, dell’angelica Mildred che coglie le rose in una radiosa mattina estiva, sono rese con completezza, e comunque in generale non ho avvertito nessun taglio, anche se poi magari mi sbaglio.  Davvero, in questo caso basterebbe davvero rendere i nomi nella forma originaria e poi ristamparlo, ma purtroppo autori come Phillpotts non vengono presi in considerazione dai curatori del giallo, forse timorosi che il pubblico rifiuti le commistioni gotico- vittoriane e preferisca invece autori più spigliati e moderni, poco importa se mediocri e senza sostanza. Anche la Polillo non ha mai preso in considerazione l’autore, altra cosa che sinceramente non capisco. In ogni caso, se le fortuna vi sorridesse, fatelo vostro; avrete nella vostra biblioteca un grande libro in più.


(*) Le palmine “dimenticate” dalla redazione del giallo Mondadori sono numerose; qualche titolo, tra cui La camera grigia o La casa di fronte, lo ha ripreso la Newton nei GEN, ma parte gli autori Italiani mai ristampati, a volte per sua stessa richiesta come Ezio d’errico, ne il giallo Mondadori ne altri editori hanno mai riproposto;

-Il segreto dell’ album, di Mary Roberts Rinehart (altro libro di cui la signora Giuseppina ha detto un gran bene, che per fortuna ho recuperato)
-I cinque frammenti, di Dyers
-L’ultima sera, di HenryWade
-L’opale di nonio, di Jackson Gregory
- Ignoto contro ignoto, di Martin Porlock alias Philp MacDonald
-L’esperimento del dottor Aarhus, di Steeman
-I tre segugi di Crofts, di cui esiste una ritraduzione della Griffini pubblicata solo nella collana da Libreria “I grandi del mistero” che basterebbe ristampare.
-Le figlie della notte, di Edgar Wallace; clamorosa anche questa mancanza.
- Le perle malate di A.E.W. Mason, un romanzo con Hanaud la cui mancanza mi deprime particolamente.

Questi i casi più eclatanti, ma quanti altri bei libri da ristampare ci sarebbero…