martedì 26 novembre 2013

LE ANTOLOGIE “ALFRED HITCHCOCK PRESENTA” DEGLI OSCAR MONDADORI DI TANTI ANNI FA; UN VIAGGIO NEL PULP AMERICANO NEGLI ANNI D’ORO DEL GENERE, E MOLTO ALTRO.


Le mie grandi, vere passioni di lettore non sono state poi moltissime; ho letto tanto fin da bambino, ma ho amato visceralmente ben poco. Lasciando perdere gli amori svaniti col passare del tempo, le cose amate da bambino e da ragazzo che ancora riesco a sentire vicine come tanti anni fa sono relativamente poche; Le storie dei paperi di Carl Barks, il Tex Willer di una volta, Agatha Christie, Edgar Allan Poe, Stevenson,  Conan Doyle e… Alfred Hitchcock.

Il grande regista Inglese era un mito per me fin da bambino; i miei genitori associavano il suo nome a quel cinema di qualità che prima o poi,crescendo, avrei apprezzato; ed è vero, perché una freddissima sera invernale come quella in cui sto scrivendo, durante le vacanze natalizie del 1995 (ero in terza media) davano alla Tv “La donna che visse due volte”. I miei erano usciti ed ero tutto solo in casa, e quale occasione migliore per tentare il salto nel buio di un cinema totalmente diverso dai film Disney o dagli action-movie di Stallone e Schwarzenegger a cui ero fermo?

Ed evidentemente le stimmate del cinefilo e adoratore Hitchcockiano erano ben presenti in me, perché mi innamorai perdutamente di quello che è il suo film più profondo e affascinante ma anche il più complesso ed enigmatico, forse il più pesante per un ragazzino; ma a rapirmi bastò quell’inquietante vagare per le strade di una San Francisco cupissima, quella storia di una morta che pare tornata alla vita, quella sublime ambiguità di fondo che non si scioglie nemmeno nel finale.

Da quel momento Stallone e company finirono semplicemente di esistere, e mi trasformai, col manicheismo in fondo tipico di quell’età, in un intransigente cinefilo in erba che ogni settimana spulciava “sorrisi e canzoni” per vedere se venivano trasmessi film del maestro, a saltare di gioia quando un titolo veniva proiettato, a programmare il videoregistratore a VHS per registrarlo e guardarlo poi quando ero solo in casa, perché tuttora non riesco a leggere o guardare film se qualcun altro è presente nella stessa stanza.

Poi qualche anno dopo, quando ero ormai in quarta superiore, potetti collezionare le videocassette della  De Agostini (qualcuno ha fatto quella mitica collezione? Che bella..), ma ormai i capolavori ero riuscito a vederli tutti.

Ma la mia passione per Hitchcock non si fermava certo ai film; volevo sapere tutto di lui e del suo cinema, e setacciavo le biblioteche per accaparrarmi qualsiasi cosa lo riguardasse; conobbi così il mitico libro- Intervista con Francois Truffaut “il cinema secondo Hitchcock”  e altre chicche che negli anni ho collezionato.

Ma in biblioteca (finalmente arrivo al dunque, scusate la prolissità) trovai anche un volumetto di racconti molto strano e affascinante. Si intitolava “L’ultima autopsia” e già quello poteva renderlo interessante, ma quello che mi colpì fu la scritta “Alfred Hitchcock presenta” in alto; nella mia ingenuità pensai che fossero dei racconti scritti da Hitchcock stesso, e invece mi accorsi che ben presto che era solo una raccolta di racconti del “Mystery magazine”, rivista che presentava storie thriller nello stile di quelle del leggendario telefilm “ Alfred Hitchcock presents” che assieme a “The twylight zone” ovvero Ai confini della realtà, fu l’icona della neonata televisione Americana tra gli anni cinquanta e sessanta.

In questi volumi, Hitchcock metteva la faccia e una breve prefazione, un articoletto dove, con grandi dosi di humour nero di marca British, il maestro (o chi per lui, temo) presentava i volumi.

I 26 volumetti (più un Omnibus dal titolo “SuperHitchcock” che comprende 33 dei racconti migliori della collana) uscirono nella collana Oscar Mondadori tra l’agosto del 1968 e il maggio del 1982, anno in cui presumibilmente l’interesse del pubblico scemò, anche perché forse la formula aveva fatto decisamente il suo tempo, in quanto in quegli anni il thriller Americano aveva preso strade decisamente diverse e tramontò l’epoca dei pulp magazine.

Tutti i volumi Mondadori presentavano  eleganti copertine di Karel Thole, copertine decisamente riuscite e fantasiose dove talvolta bisognava “riconoscere” la faccia di Hitchcock celata tra altri elementi,  in un divertente gioco enigmistico.

Ve ne posto tre esempi;
 


 
Trovate Hitchcock (dai non è difficile...)

 

 I titoli dei volumi sono i seguenti;

 

1-     SCORCIATOIA PER IL PATIBOLO

2-     IL DELITTO NON PAGA ABBASTANZA

3-     MAI UCCIDERE PER AMORE

4-     SEI PICCOLE BARE

5-     LA COLLINA DEGLI SPETTRI

6-     IL SONNO SI ADDICE ALL’INNOCENTE

7-     IL CERCHIO NELLA POLVERE

8-     IL GIORNO DELLA PAURA

9-     UCCIDERE E’ IL MIO MESTIERE

10- PARTITA CON LA MORTE

11- IL DIAVOLO IN AGGUATO

12- UN ASSASSINO NELLE TENEBRE

13- DELITTI AL RALLENTATORE

14- COL CUORE CHE SANGUINA (la mia antologia preferita)

15- IL FILTRO DELLE STREGHE

16- L’ULTIMA AUTOPSIA

17- OMICIDI IN STILE LIBERO

18- PARLANDO DEL DIAVOLO

19- SEDICI SCHELETRI NEL MIO ARMADIO

20- CRONACHE DAL PATIBOLO

21- C’ERA UNA VOLTA IL BRIVIDO

22- L’OMICIDIO FA BUON SANGUE

23- LA GIOSTRA DEL DELITTO

24- LA MORTE PUO’ ESSERE BELLA

25- COSI’ GIOCANO GLI ASSASSINI

26- DELITTO DOLCE DELITTO

 
 La collezione completa.




 A questi bisogna aggiungere il volume Rizzoli “I maghi del brivido”, Il volume Garzanti “Galateo del delitto” e soprattutto le tre bellissime maxi-antologie Feltrinelli “25 racconti del terrore vietati alla tv”, un vero capolavoro antologico che a breve recensirò a parte, “Racconti per le ore piccole” e “I terrori che preferisco”. Queste di Feltrinelli sono  le primissime antologie Hitchcockiane apparse in Italia, e quelle dove la scelta è più di qualità, dove si spazia anche nel serbatoio di grandi autori anche non di genere, così come le altre due antologie.

Le antologie Mondadori invece ospitano solo racconti provenienti dal Mystery Magazine, e sono brevi, fulminanti, strani e talvolta bizzarri thriller un poco pulp, un poco noir, un poco giallo classico e un poco giallo umoristico, scritti da robusti mestieranti che campavano coi racconti di genere da dare in pasto alle riviste, e scrivevano un po’ di tutto, anche racconti horror, di fantascienza o western; non certo una qualità sopraffina, ma ci si poteva affezionare a quell’amabile precarietà letteraria, e certo gli sprazzi di vero talento non mancavano. Comunque, tra tutte le antologie editate, abbiamo sui 500 racconti disponibili, un mondo tutto da esplorare.

I nomi che ricordo con più piacere sono quelli di Arthur Porges, Robert Bloch, Richard Deming, Jonathan Craig, C.B. Gilford, Talmage Powell, Fletcher Flora, Syd Hoff….perchè fin da ragazzino li collezionavo e li leggevo e rileggevo, e avevo imparato a memoria i nomi degli autori, cominciando a leggere i volumi che via via trovavo ( ci ho messo 9 anni per finire la collezione senza ricorrere all’e-commerce, dal 1997 al 2006) partendo dagli autori che preferivo fino a quelli che amavo di meno, ossia i derivati dell’hard-boiled e le ammazzatine tra gangsters.

Come ho detto la qualità è altalenante, ma è innegabile che tutte assieme formino una specie di grottesca, stranissima “comedie humaine” dell’America del tempo, non quella metropolitana, cinica e sentimentale di Chandler e Hammett ma una più provinciale e autentica, dove i delitti non sono appannaggio di gangsters in grandi città ma avvengono perlopiù in ambienti intimi e dimessi, e al lettore d’oggi salta all’occhio soprattutto la grande ipocrisia dell’istituzione familiare americana di quegli anni; su 10 racconti infatti sei o sette avevano per tema il delitto tra le mura domestiche, la violenza porta a porta che nella fascistella America Maccartista era pressoché impensabile; i protagonisti sono perlopiù vecchi pensionati, ubriaconi falliti, casalinghe frustrate, viaggiatori di commercio, donne equivoche, piccoli truffatori e ragazzini problematici; tutto quello che al tempo veniva nascosto sotto il tappeto, per intendersi.

C’erano però anche parecchi racconti di stampo più classico, dal Whodunit alla Agatha Christie (grande specialista Arthur Porges, pregevole autore che preferivo a ogni altro) a quelli di stampo soprannaturale, oppure racconti più goticheggianti e grandguignoleschi; inutile dire che erano e sono i miei preferiti, e talvolta li rileggo con immutato piacere.

Per quanto riguarda il collezionismo, i volumetti Mondadori si trovano in giro abbastanza bene, specialmente dei primi la tiratura era alta. Più difficile trovare le tre Antologie Feltrinelli con sovraccopertina integra (mentre senza sovraccoperta li ho visti diverse volte), l’unico elemento veramente rognoso è l’omnibus “Superhitchcock”, a dire il vero un omnibus apocrifo visto che la copertina non è di Pinter ma di Thole e la veste grafica è diversa; ma comunque è un pezzo non comunissimo, anche se non certo raro o introvabile.

Insomma, la finalità di questa “guida” è quella di far conoscere una collezione che rischia di sparire nell’oblio più totale, e che invece merita considerazione e affetto; e spero che se in qualche mercatino, bancarella o dove altre volete vi capitasse di trovare uno di questi volumetti magari prendetelo, dategli un’occasione; forse come me poi vi divertirete per anni a reperirli tutti, o forse non ci penserete nemmeno, ma se non provate non lo saprete mai…

giovedì 21 novembre 2013

"IL MISTERO DI UNA VETTURA PUBBLICA" DI FERGUS HUME, UN GIOIELLO DEL GIALLO OTTOCENTESCO.


Per un qualche misterioso motivo noto solo alla mia psiche contorta,  avevo sempre lasciato da leggere “The mystery of the hansom cab” di Fergus Hume; autore conosciuto da ragazzino nei gialli economici della Newton, ( ne ho già parlato in vari altri post precedenti) nel lontano anno duemila presi coi punti di una tessera l’edizione integrale di questo romanzo pubblicata dalla Demetra, nella collana “acquarelli”; aveva una bella copertina appunto acquarellata e siccome della stessa collana avevo appena letto il must “La pietra di luna” presi anche il titolo di Hume.
 
Al tempo non mi intendevo molto di traduzioni e case editrici, ma quando lo comparai al volume Newton “il delitto della carrozza chiusa” vidi che il testo era lungo quasi il doppio; quindi, se negli e-book newton di Hume trovate il titolo sopra citato, occhio che è una versione PESANTEMENTE TAGLIATA; l’unica versione da avere è quella della Demetra, peraltro splendidamente tradotta da Cecilia Montonati.

Poi per molti anni questo libro è rimasto negli scaffali intonso, e mi sono deciso a riprenderlo  quando, anche per scriverne su questo blog, ho cominciato a rispolverare Hume dopo  parecchi annetti.

Lo scorso mese mi sono infine deciso a leggerlo e l’ho divorato in due sere. Il giudizio? Un capolavoro assoluto, che sfiora la mia top-ten personale.

La storia ha poco del giallo classico, il romanzo è in realtà un melodramma vittoriano che pur rifacendosi a Wilkie Collins, Gaboriau o Anna Greene riesce la tempo stesso a essere profondamente originale; brillante, mai noioso, sempre gradevole, questo romanzo diventerò niente meno che il libro poliziesco più venduto del diciannovesimo secolo, superando in vendite perfino il coevo “Le avventure di Sherlock Holmes” ; un primato più che meritato ; credo che questo si debba, oltre che all’indiscutibile qualità dell’opera, anche al fatto che il libro sia ambientato in Australia (Hume per la precisione era Neozelandese), precisamente a Melbourne, e ai lettori Inglesi non parve vero di leggere una storia ambientata nella Londra delle Colonie, una città elegante dotata di illuminazione a gas e altre modernità.

La storia è abbastanza semplice; un uomo, che si scoprirà avere un passato torbido di ricattatore, viene trovato morto in una carrozza; il vetturino racconta che qualcuno ha aiutato a montare sulla carrozza l’uomo in evidente stato di ubriachezza, e poi è montato con lui dando al conducente un indirizzo esatto, segno che conosceva bene la vittima; ma all’arrivo l’ubriaco viene trovato morto, ucciso col cloroformio, e del misterioso passeggero non c’è traccia.

In ogni caso, dalla descrizione del vetturino e altri particolari,  lo sconosciuto viene identificato in Brian Fitzgerald, giovane e bello proprietario terriero fidanzato con l’incantevole Madge Frettlby, figlia di Mark, un ricco e potente signore della zona. Brian viene sospettato perché era il rivale in amore del viscido e ambiguo morto, che cercava di far sua Madge ricattandone il padre, in quanto sapeva di un suo compromettente segreto, del quale viene a conoscenza anche Brian; quest’ultimo però, che potrebbe discolparsi dicendo che al momento del delitto era ospite di una vecchia laida e spregevole(che questa informazione la deteneva e l’ha confidata  al giovane), tace e preferisce rischiare la forca per non far sapere nulla a Madge, che in questo segreto è pesantemente coinvolta (e qui il romanzo è un poco datato come tanti altri libri Vittoriani; oggi un segreto simile, sia quale sia, non farebbe più nemmeno scalpore).

La dolce e innamorata Madge, convinta dell’innocenza del suo amato, chiede all’avvocato difensore di Brian  Roger Calton e all’investigatore Gorby di far luce sulla faccenda, e da questo momento inizia un bellissimo pellegrinaggio nei meandri  e nel ventre di Melbourne, città di fascino Dickensiano e con personaggi degni del grande autore di “Casa desolata”; si, perché “The mistery of the hansom cab” è anche il grande romanzo della Melbourne di fine ottocento, e un documento pressoché unico della vita nella città a quel tempo. Una vera e propria Londra  agli antipodi di essa, dove nel giorno di Natale si gronda di caldo e altre anomalie ma con gli stessi quartieri alti illuminati a gas contrapposti a luridi vicoli di angiporto,  splendidi e crudi ritratti di bambini perduti e vecchie alcoolizzate, e personaggi memorabili (forse che la dolce Sal Rowlins  non ricorda, seppure con meno pathos tragico, la Nancy di Oliver Twist?) Le descrizioni della città abbondano e sono sempre interessantissime,  così come particolari dei costumi e della vita del tempo; e leggendo queste ottime pagine che mi viene il magone per una cosa; gli altri Hume sforbiciati disponibili in Italiano nei GEN newton ripresi dai gialli economici Mondadori degli anni trenta, da me recensiti con benevolenza ma anche molte riserve come se in fondo fossero gialli di serie B un poco superati, se fossero usciti in versione integrale sarebbero belli come questo? Mi angoscia pensare che magari “L’occhio di giada” , “L’enigma della donna errante”, “L’uomo dai capelli rossi” e “Come una morsa” siano grandi romanzi che non appaiono come tali per colpa dei tagli; ed è impossibile sperare come questo scrittore trascurato (a parte il titolo recensito) ormai da decenni possa essere mai riscoperto dall'editoria odierna. Peccato, perché dopo questo mistero della vettura pubblica sono sempre più convinto che Hume sia stato un autore di primo piano che in Italia è arrivato tanto poco e male da essere ridimensionato dalla critica, (un altro che secondo me condivide questo destino è Joseph Smith Fletcher, delizioso giallista del quale la Polillo ha pubblicato tre opere, ma ce ne sono altre 8 pubblicate dalla Newton sforbiciate, e leggendo quelle ho pensato, come per Hume, che fossero gialli gradevoli ma non eccezionali..ma di Fletcher mi occuperò più avanti) ma questo "The mystery of the hansom cab" basterebbe da solo a porlo nell’olimpo dei grandi.

Un capolavoro imperdibile, peraltro con uno di quei bei finaloni commoventi e appaganti che oggi mancano tantissimo ( e con uno scioglimento poliziesco assolutamente impeccabile), adatto a tutti coloro che amano il grande romanzo Vittoriano, e lasciate perdere se l’autore era originario della Nuova Zelanda; anche oggi, chi somiglia di più a  un pacifico e compassato Inglese di un altrettanto flemmatico Neozelandese?

 

Infine, una segnalazione; visto che giustamente una delle mie Follower mi ha consigliato di parlare di serie Tv, faccio presente che da questo libro è stato tratto nel 2012 un bel film tv di produzione Australiana dal titolo omonimo; il film tv si trova in giro e su subsfactory ne hanno pubblicato anche i sottotitoli…se non avete voglia di cercarvi il libro, anche vedere il film può andare bene, perché è piuttosto ben fatto.
 
 
 
 
-INTRECCIO E SOLUZIONE FINALE;  9/10
-LEGGIBILITA’  9/10
-ATMOSFERA  10/10
-HUMOUR   8/10
-SENTIMENTO   10/10
 
MEDIA VOTO; 9,2
 
 

lunedì 18 novembre 2013

“LA VERGINE DEL SUDARIO” (O LA DAMA DEL SUDARIO) DI BRAM STOKER; UN PIACEVOLISSIMO VIAGGIO NELL’IMMAGINARIO VITTORIANO.


Ah, la dama del sudario, che piacevoli seppur sempre più lontani ricordi che mi riporta alla mente; ero in terza superiore, in un sabato pomeriggio di Gennaio freddo e piovoso; ero appena uscito da scuola e mentre attendevo l’autobus per tornare a casa vidi un chiosco di libri itinerante, che aveva anche usato e reimanders; passando rapidamente in rivista i molti bei libri presenti, mi colpì un romanzo dal titolo molto affascinante e soprattutto firmato dall’autore di Dracula, che al tempo conoscevo solo al sontuoso ma discontinuo film di Francis Ford Coppola, intitolato appunto Dracula di Bram Stoker; se l’autore di una storia tanto affascinante aveva scritto altri libri oltre al suo  più celebre, mi sembrò giustissimo prendere il volume; era un fondo di magazzino di una vecchia collana degli editori riuniti e costava solo 3500 lire, praticamente gli ultimi spiccioli della paghetta settimanale. Dopo aver pagato, mentre cominciava a nevischiare, mi fiondai sull’autobus che stava per partire.

L'edizione EU (notare la "licenziosa" copertina, dela quale mi vergognavo tanto da leggere il libro di nascosto ai miei...vecchi tempi)


Appena arrivato a casa mi accorsi che l’unica cosa che potevo fare il quel Weekend era stare a leggere al calduccio, cosa che già al tempo amavo molto fare; e quel clima era proprio l’ideale per leggersi un libro dal promettente titolo “La dama del sudario”.
Le mie speranze non furono certo disattese; passai un bellissimo fine settimana in compagnia di un romanzo davvero splendido, affascinante e pieno di suspense. Poi per lunghi anni l’ho dimenticato in un angolino della memoria, almeno fino allo scorso anno quando rividi il romanzo in libreria; il titolo non era la dama ma la vergine del sudario, e soprattutto c’era in copertina una fascetta con scritto “per la prima volta in edizione integrale” e quindi realizzai che l’edizione degli editori riuniti da me letta tredici anni prima era in realtà una versione rimaneggiata e mutilata. Naturalmente, memore della piacevole esperienza, comprai subito il volume, e in questi giorni mi sono deciso a rileggerlo. Ho aspettato tanto perché ho sempre paura di rileggere un libro che ho amato da adolescente, per paura di riscoprirlo meno bello di come credevo; a volte mi è successo e ne sono rimasto molto dispiaciuto, ma altre volte invece ( Piccole donne, Il canto di natale, La pietra di luna, Il signore di Ballantrae, Il mastino dei Baskerville) la rilettura ha addirittura rafforzato il precedente amore per il testo, avendovi scoperto nuovi significati, nuove emozioni.


L'edizione Castelvecchi

E così è successo anche per la Stokeriana vergine del sudario; mi sono davvero divertito a rileggerlo, e il testo integrale ha arricchito e reso più chiari passaggi che mi erano parsi nebulosi nella prima lettura; quindi la maggior mole ha significato maggior piacere, non certo un testo appesantito.
La storia, a grandi linee, è questa; un ricchissimo mercante Inglese di nome Roger Melton, “che conosce ogni città a est di Londra fino al Giappone” muore e lascia in eredità, con grande sgomento dei perfidi Melton, parenti più stretti del morto, una somma da capogiro al più amato dei suoi nipoti, Rupert St. Leger, figlio della sorellina più giovane del morto, un ragazzo che si è ribellato allo sterile dandysmo del resto della famiglia Melton e si è dato a una vita avventurosa di giramondo impavido e temerario (forse quello che lo stesso Stoker avrebbe voluto essere?)  e ora nel fiore degli anni diventa erede di una fortuna immensa; questo però a condizione che il giovane si trasferisca nel castello di Vissarion, situato nella selvaggia regione balcanica delle Montagne azzurre (a quanto ho capito corrisponde all’attuale Croazia meridionale e forse a parte del Montenegro), castello venduto a Roger Melton dal capo di quelle terre, il Voivoda Vissarion; Nel suo testamento, Melton ordina a Rupert di mettersi al comando di quel popolo fierissimo e oppresso dai turchi, affinché finisca ciò che il morto stesso, col suo denaro e per amicizia col Voivoda Vissarion, aveva cercato di fare, ossia dare al popolo delle montagne azzurre la sospirata indipendenza e libertà; pensando a ciò che è successo negli ultimi vent’anni in quelle terre martoriate e all’attuale situazione dei Kosovari, bisogna riconoscere che Stoker fu un grande profeta.
Naturalmente il temerario e onestissimo Rupert, vero eroe tutto d’un pezzo che l’odierna letteratura non produce più perché nessuno vi crede più, accetta e si trasferisce a Vissarion, cercando di conquistare la stima e l’amicizia dei diffidenti e orgogliosi montanari, gente forte e abituata a combattere; colpisce in questo caso la grande simpatia dell’autore verso i “selvaggi” balcanici mentre fustiga senza pietà gli Inglesissimi Melton, che dipinge come spietati classisti e decadenti dandy fannulloni e melliflui; da qui si evince come Stoker, pur risiedendo a Londra, fosse rimasto Irlandese nel profondo e quindi molto critico nei confronti dell’aristocrazia Britannica.
Comunque, fin dai primi giorni, la vita di Rupert al castello di Vissarion è turbata da un fatto stranissimo e inquietante; in una notte buia e tempestosa il giovane sente picchiare alla finestra, apre e si trova di fronte una bellissima giovane donna tremante e infreddolita, avvolta in un lungo sudario bianco; un’apparizione inquietante, ma il giovane Rupert, colpito dalla bellezza e dalla fierezza della sconosciuta, la fa entrare e riscaldare; la dama resta fino all’alba senza dare spiegazioni di sorta, e non appena fa l’alba fugge via, tornando da dove era venuta.
A questo punto Rupert e il lettore si chiedono chi sia la bella sconosciuta vestita dell’abito della morte; forse un vampiro come il conte Dracula? Forse una pazza? O forse una fanciulla tenuta prigioniera e vittima di un’oscura maledizione, o chissà che altro ancora?
Da qui il romanzo, che nei primi capitoli introduttivi era stato un pochino lento e macchinoso, decolla senza indugi, diventando una storia gotico-avventurosa di grande livello, e anche un superbo Thriller, degno dei grandi romanzi ottocenteschi di Collins e Dickens, dei quali Stoker fu forse l’ultimissimo erede. Non a caso il romanzo fu scritto nel 1910, uno degli ultimi anni spensierati e positivisti prima dell’immane catastrofe della grande guerra, che porterà via oltre a milioni di vite anche quella letteratura dell’innocenza e dei grandi ideali romantici, e quei personaggi derivati dai cavalieri  medievali come Rupert St. Leger, forse uno degli ultimi veri grandi eroi della letteratura europea.
Il pregio maggiore del libro è forse la grande varietà di registro; si passa dal romanzo vittoriano con intrighi ereditari  tipico di Wilkie Collins al grande romanzo gotico alla Poe, per poi approdare a una palpitante storia d’amore ultra-romantica e a un’epica avventura con echi di Stevenson, Conan Doyle e perfino Salgari, visto che il protagonista verso la parte finale del libro diventa quasi un novello Sandokan, e le selvagge Montagne azzurre una Mompracem balcanica.
Ora, per me che sono allo stesso tempo un Collinsiano, un estimatore di Poe e un Salgariano (perché le belle storie d’avventura non hanno età)  rileggere questo libro è stata una vera goduria, e lo consiglio a tutti coloro che hanno voglia di atmosfere gotiche superbamente descritte, a grandi storie d’amore e a eroi ed eroine senza difetti e con soli grandi pregi e nobili ideali; questo libro serve a sognare, e scusate se è poco.
Attualmente il libro è stampato nella collana Lit, libri in tasca (io ho l’edizione Castelvecchi uscita nel 2009) a un prezzo tutto sommato contenuto. Io fossi in voi….

martedì 12 novembre 2013

NONSOLOGIALLO; “HO UN CASTELLO NEL CUORE” DI DODIE SMITH.


L’editoria Italiana talvolta è talmente malaccorta da commettere degli errori incredibili sulla catalogazione dei generi, fino a far passare come un libro per ragazzi un romanzo che proprio non lo è. Nel nostro paese siamo specializzati su questo equivoco; ancora si considerano libri per l’infanzia il cupo e  inquietante L’isola del tesoro, oppure il Libro della giungla, che in versione non edulcorata è violentissimo.

Ma comunque sia per Stevenson che per Kipling l’errore è alla fine giustificabile, perché siamo comunque nel regno della fantasia e dell’avventura; ma etichettare come romanzo per ragazzine un “bildungsroman” che  parte in modo simpatico e scanzonato e si evolve in una dolorosa e abbastanza complessa analisi della sessualità di una ragazza mi pare un errore  abbastanza marchiano.
 
L'autrice
 

Questa la travagliata (dis)avventura editoriale del capolavoro di Dodie Smith, autrice tra l’altro anche della carica dei 101 ( e quindi, siccome è famosa per un libro per bambini, tutto il resto della sua produzione deve essere evidentemente considerata tale…). Uscito per Rizzoli, dapprima pesantemente tagliato e poi integrale ma sempre con una grafica infantile, finalmente nel 2007 si decisero ad editarlo con una veste grafica più consona, questa;

 

 E meno male, perché altrimenti chissà in quanti se lo sarebbero perso; perché questo “I capture the castle” è un vero gioiello, uno dei romanzi Inglesi più  freschi e divertenti del secolo scorso, pubblicato esattamente nel 1948; un romanzo dalla mole ponderosa (500 pagine) ma che si beve veramente come acqua fresca.

La storia è quella della scombinata e divertentissima famiglia Mortmain, che vive in un pittoresco ma diroccato e pericolante castello nel Suffolk più sperduto.

La famiglia è composta da James, uno scrittore vedovo che in gioventù scrisse un romanzo filosofico che ebbe un discreto successo ma poi, dopo la morte della moglie, si è chiuso in se stesso e passa il tempo avvolto in una coperta logora a leggere i libri che la bibliotecaria della contea, sua grande ammiratrice, gli porta fino a casa( una curiosità degna di questo blog; il signor Mortmain adora soprattutto i polizieschi, e come dargli torto in quegli anni d’oro per il genere?) .

Mr. Mortmain vive con le due figlie Rose e Cassandra e il figlio più piccolo Thomas (abbastanza marginale nell’economia della vicenda) e la formidabile seconda  moglie Topaz, sposata da James in un impeto di socialità, bellissima ex-modella con una spiccata predilezione per il nudismo; sulle prime si stenta a credere che l’esuberante Topaz e il posatissimo Mortmain vadano d’amore e d’accordo, eppure  è così; la donna accetta tutto della vita assieme a lui, e lo ama sinceramente.

Ma le vere protagoniste della storia sono le due figlie di primo letto di Mortmain, ossia Rose e Cassandra detta Cass, che sembrano un poco Meg e Jo di Piccole donne; Rose è bella, buona ma anche molto pratica e ansiosa di accasarsi ( possibilmente con un uomo ricco) per affrancarsi da quella non-vita al castello, mentre Cassandra, la narratrice, è una sognatrice con aspirazioni intellettuali che ama scrivere e tenere un diario quotidiano nel quale illustra la scombinata vita al castello; lei è l’angelo del focolare, colei che riesce ad attenuare l’esasperata misantropia del padre e fa da mediatrice ai frequenti battibecchi tra Rose e Topaz, visto che la ragazza invidia i bei vestiti e il passato avventuroso della matrigna. Un dialogo esemplare che mi fa sempre morire dal ridere è questo;

(DAL diario di Cassandra)

-Rose;  “Cass e Topaz, vorrei che sapeste che da un po’ di tempo sto progettando l’idea di vendermi, di andare sulla strada”

Le ho detto che non poteva andare in mezzo a una strada nel cuore del Suffolk.

 “Ma se Topaz mi presta i soldi del biglietto per Londra e mi da qualche suggerimento..”

Ma Topaz risponde che non era mai andata sulla strada, e  lo rimpiangeva “Perché uno deve sprofondare negli abissi per potersi poi elevare alle massime altezze”, Che è il genere di Topazismo che richiede molto affetto per essere sopportato…

 

Insomma, sono sequenze come questa che fanno innamorare di una famiglia scombinata  che in molti troverebbero discutibile, ma è impossibile non affezionarsi ai caratteri così ben delineati dall’autrice, la quale con dei dialoghi e descrizioni da antologia riesce a rendere in fondo esilarante e piena di tenerezza la storia di una famiglia che è l’antitesi di  famiglie anche troppo perfette  come quella dei March di Little Women, ma che comunque riesce a ispirare la stessa tenerezza e la stessa simpatia; e se la famiglia March appartiene a una dimensione più fiabesca che reale, i Mortmain invece sono ben più credibili, e l’empatia è forse maggiore.

Quindi leggiamo divertiti dei tantissimi deliziosi episodi che accadono al castello, come le danze di Topaz nuda sotto la pioggia, dei lamenti di Rose che rammenda fino all’inverosimile i vecchi vestiti e ne sogna un uomo che gliene compri di nuovi, e delle poesie d’amore che  Cassandra riceve da Stephen, bellissimo figlio della governante defunta che Mortmain ha voluto tenere in casa e che in pratica, con l’orto e altri lavoretti, provvede al sostentamento della famiglia, visto che essa campa a pane e acqua perché nessuno sa e vuole fare niente. Cassandra è ben consapevole dell’amore che il giovane nutre per lei, ma pur essendone attratta fisicamente per qualche motivo non lo incoraggia, forse perché vuole un uomo più maturo e intellettuale del volenteroso ma semplice Stephen.

A scombinare la routine della pazza famiglia Mortmain ci pensano gli eredi della proprità vicina al castello, gli Americani Cotton, che prendono possesso della nuova residenza e ben presto vengono a contatto coi Mortmain; della famiglia Cotton fanno parte Simon e Neil, due fratelli simpatici e di bell’aspetto che ovviamente sono attirati dalle due sorelle Mortmain; il libro si trasforma quindi da un Little women bohemienne  a una storia di amori e ripicche tra la Austen e la Heyer, una vera e propria sarabanda di emozioni che porteranno alla definitiva maturazione sentimentale delle due sorelle, in particolare di Cass, che nella seconda parte diventa protagonista assoluta e ci informa delle sue emozioni anche più intime, fino ad arrivare a una vera analisi (pur sempre garbata e sottintesa, sia chiaro) della propria sessualità; perché ciò che differenzia il libro dai classici sentimentali canonici è proprio la rottura tra i palpiti asessuati delle eroine ottocentesche per una consapevolezza del desiderio; appare chiaro che Cass non desidera l’amato ( non dico chi dei due fratelli perché l’intreccio sentimentale è troppo divertente per essere svelato) solo per passeggiate al chiaro di luna ma per avere con lui un’esperienza amorosa che comprenda anche il donarsi, e per questo arriva anche a conflitti esistenziali e religiosi ( che forse appesantiscono un poco le ultime 100 pagine, ed è un peccato), a una vera lotta interna con la propria psiche.

Poi ovviamente tutto si risolverà, anche se non avremo affatto il lieto fine totale e rassicurante tipico delle opere sentimentali stereotipate; come ogni vero grande romanzo il finale è una diretta conseguenza delle azioni dei protagonisti, e risulta coerentissimo e credibile.

In ogni caso, rileggendo varie volte il libro mi accorgo di come preferisca di gran lunga la prima parte sulla vita al castello, che nei contenuti è tutta sbagliata ma è descritta con un affetto e un brio incredibili, e quasi quasi i Cotton mi rimangono antipatici perché il loro arrivo, anche se economicamente benefico per tutti i Mortmain, sarà la fine di quel mondo surreale e intatto, di quell’umanità e di quegli affetti forti che gravitavano tra le mura del castello, e di questo la dolce e sensibile Cassandra sarà dolorosamente consapevole.

Quindi il romanzo, contro tutte le aspettative, si rivela una struggente elegia dell’unione familiare che commuove ben di più che in Piccole Donne, dove il disfacimento della famiglia è comunque visto come una naturale conseguenza della vita e non come la fine di un mondo; credo che in questo abbia ragione la Alcott, ma una parte di me è decisamente quanto irrazionalmente schierata coi Mortmain, simbolo di quell’amore eccentrico ma privo di monotonia che tutti in fondo desideriamo .

Da questo fu tratto nel 2003 un film omonimo (che in Italiano si intitola il profumo delle campanule, ma è introvabile)  in cui Cassandra è impersonata nientemeno che da Romola Garai, tipo la donna ideale del sottoscritto.
 

Romola Garai
 

Scena del film, con Rose e Cass

 

Il libro costa 17,50 e risulta attualmente non disponibile su IBS ( e ti pareva) però magari tramite altri canali si riesce ancora a trovare; se vi interessa sbrigatevi, perché è un libro imperdibile.

domenica 10 novembre 2013

“IL SETTE BELLO” DI ALESSANDRO VARALDO, IL PRIMO GIALLO MADE IN ITALY.


Nel 1931, negli anni felici dell’era fascista (bastava non avere opinioni..) il grande successo che raccolsero i neonati gialli Mondadori di autori stranieri spinsero il volonteroso regime a misurarsi coi grandi Anglosassoni e creare un giallo di autori Italiani, col presupposto che l’ingegno Italico non era secondo a nessuna Christie o Wallace; pratica ancora oggi in uso, seppur con molto meno garbo e stile, vedi il proliferare di epigoni Italiani del disgustoso e sessista (secondo affidabilissimi pareri) 50 sfumature di grigio.
Insomma, fatto sta che Mondadori lanciò il guanto di sfida agli autori nostrani, e il primo a raccoglierlo e misurarsi col poliziesco fu Alessandro Varaldo, un robusto narratore Ligure che aveva una fama consolidata come romanziere di melodrammi sentimentali, un esperto e colto letterato che ormai 53enne volle cimentarsi nell’impresa non da poco di divenire l’Edgar Wallace Italiano. Dico questo non per caso, ma perché Wallace era di gran lunga l’autore più stampato e amato nella collana dei libri gialli fino a quel momento, e “il sette bello” risente appieno delle atmosfere e dei plot Wallaciani.
A parer mio Varaldo riuscì nell’impresa, non tanto per la qualità intrinseca dell’opera che è piuttosto altalenante, ma perché seppe creare ciò che in quel momento il regime si auspicava; un giallo all’Italiana, unico e inimitabile a sua volta, che pur tenendo conto degli elementi del poliziesco classico  sapesse mescolarli poi a una sensibilità tutta Italiana, che comprendesse macchiette di paese, uso (simpatico e moderato, altro che Camilleri) del dialetto e soprattutto una certa melodrammaticità di fondo dalla quale la narrativa d’evasione Italiana non ha mai, ma proprio mai, saputo affrancarsi.
In ogni caso la fortuna del romanzo dura tuttora, visto che dopo l’introvabile Palmina del 1931 è stato ristampato come il numero 1 dell’interessantissima collana dei GIM, ossia  “Gialli italiani Mondadori”, 15 uscite dove, in parallelo ai classici del giallo, vennero ristampati i romanzi nostrani più importanti degli anni trenta, (Varaldo ma anche Mariotti, Scerbanenco, D’errico, De stefani, Lanocita, Vailati..) e nel 2006 è stato ristampato dalla casa editrice De Ferrari nella deliziosa collana “piccoli classici Italiani”. Il romanzo è tuttora comodamente disponibile, e costa 16 euro.

L'eidzione che ho io dei GIM, 1977

L'edizione disponibile in libreria


Dunque, si è detto di opera di qualità altalenante, ma è meglio dire che si tratta di un romanzo un po’ spaccato in due, con una bellissima ed evocativa prima parte e una seconda un poco zoppicante e confusa, dove l’autore sfocia in una maldestra quanto ridondante imitazione dei plot metropolitani di Edgar Wallace.
Ma la prima parte, a parer mio, è di rara bellezza e merita un posto d’onore nell’esigua schiera dei romanzi d’evasione Italiani del novecento.
Siamo nel pieno centro di Roma, una metropoli volutamente rappresentata come una piccola città, dove tutti più o meno si conoscono di vista e capita di incontrare più volte una stessa persona per puro caso. Una Roma ordinata, spensierata e ottimista come l’Italia dei coevi, deliziosi film di Mario Camerini; il regime fascista, cosa curiosa, non vi è evocato nemmeno per caso, quindi non abbiate timore, se vi capitasse di leggerlo, di trovarci tirate nazionalistiche  o elogi all’uomo nuovo; l’Italia  del Sette bello è tranquilla e sonnacchiosa, ancora memore della grande guerra e per questo smaniosa di serenità.
In questa credibile seppur finta Arcadia ci sono 4 amici di lunga data, uniti da una robusta e cameratesca amicizia di stampo decisamente latino, che si ritrovano tutti i giorni a pranzare all’osteria del gambero verde, in piazza Cola di Rienzo; questi sono Giovanni Revere, eterno studente ultratrentenne alla terza laurea, il maggiore dei bersaglieri Biondo Biondi “Ovviamente Toscano visto il nome” e il pittore senza troppe aspirazioni Giacomo Serra; il quarto amico è in realtà una donna, Maddalena Terzi detta Maud, studentessa di medicina di origine Umbra molto giovane e carina, della quale i tre sono un po’ tutti innamorati; notare come in questo primo giallo le maglie della censura che poi afflissero gli autori nostrani di gialli sono pressoché inesistenti, visto che abbiamo una giovane e bella ragazza tanto emancipata da frequentare uomini non sposati (anche se ovviamente essa è un modello di virtù) e i personaggi, buoni ma anche cattivi, sono tutti Italiani, cosa impensabile solo pochissimi anni dopo, quando un decreto del regime stabilì che gli Italiani sono un popolo che non ha in se il germe del delitto e quindi non potevano esistere Italiani cattivi (sic).
Un bel giorno i quattro, spinti dalla noia, decidono di rispondere a uno stranissimo annuncio nel quale “una donna bellissima e ricchissima richiede un giovane coraggioso” e quando si recano all’indirizzo fornito da una seconda lettera di risposta, non appena suonano il campanello odono una detonazione; quando riusciranno ad entrare trovano una vecchia morta e una giovane in stato di choc, giovane che somiglia in modo inquietante a Maud… da questo momento i quattro si ritrovano dentro un marasma a metà tra l’incubo e quell’avventura tanto sospirata, durante la quale verranno accoltellati, rapiti, fronteggeranno misteriosi nemici, piccoli delinquentelli di borgata ma anche equivoci nobili e nobildonne; ma tutto andrà ovviamente per il meglio, perché con loro c’è Ascanio Bonichi, formidabile ispettore con folti baffi e l’ingegno di un segugio, un qualcosa a metà tra Poirot e il Corsaro nero (visto che Varaldo era di Ventimiglia come quest’ultimo…).
Peccato che l’autore a metà della storia cali subito il “sette bello”, ossia scopra il suo gioco, e chiarisca gran parte dei misteri così abilmente disseminati fino a quel momento; il tutto diventa quindi un gioco prevedibile e noiosetto, e i fedeli lettori del giallo Mondadori già all’epoca dovettero ravvisare le somiglianze, ma in peggio, coi capolavori di Wallace, e purtroppo le scene d’azione mosce, con poca suspense e tirate per le lunghe rendono improponibile il confronto col sommo autore Inglese.
Il finale poi chiarisce gli ultimi misteri ancora irrisolti e fa convolare a nozze due coppie, e tutti saranno felici tranne uno, che si rassegnerà a fare “Il quinto”, oggi si direbbe lo sfigato, del gruppo.
 Ecco, sono consapevole che magari non vi ho invogliati moltissimo alla lettura di questo sette bello, ma nonostante tutto, se trovate i una bancarella l’edizione dei GIM  o includete in un ordine online l’edizione della De Ferrari, vi consiglio comunque di leggerlo, perché almeno nella prima parte è un libro di rara piacevolezza e simpatia, scritto con una prosa amabilmente ricercata ma per nulla pomposa, dove uomini che si conoscono da anni celiano con garbo e si danno a malapena del tu, dove ci si porta rispetto reciproco e si apprezzano le piccole cose della vita come un pranzo in un’osteria in mezzo ai vicoli di Trastevere a base di abbacchio e vino pastoso, o una passeggiata verso il Pantheon o piazza Navona deserta; per un romano la lettura è quasi d’obbligo, e per i non romani che sono stati a Roma è comunque una lettura salutare, per sognare del tempo in cui la metropoli era comunque vivibile e ordinata, non il regno del caos e della diffidenza che è diventata adesso.

mercoledì 6 novembre 2013

"TROPPE LETTERE PER GRACE", UNA DELLE GEMME DELLA PREMIATA DITTA PATRICK QUENTIN


Il team di autori noto con lo pseudonimo di patrick Quentin (4 autori, due uomini, Richard Webb e Hugh Wheeler, e la saltuaria collaborazione di due donne, Martha Mott Kelly e Mary louise Aswell; queste collaborarono con Webb nella stesura dei gialli degli anni trenta a fina Q. Patrick, ma quando la firma divenne quella di Patrick quentin gli autori furono quasi eslusivamente Webb e Wheeler, e poi il solo Wheeler dal 1953 in poi, anno in cui Webb smise di scrivere.

La grande maggioranza dei libri sono stati scritti dai due uomini, e il vero genio del gruppo era forse Webb, infatti, scomparso lui, gli ultimi libri firmati Patrick Quentin appaiono dei puri noir, talvolta splendidi (controcorrente) altre volte più convenzionali; ma Webb era l’artefice delle trame da giallo classico all’Inglese, degli intrecci impeccabili. Non per niente, anche se quasi tutti i libri firmati Quentin sono ambientati negli stati uniti, Webb e Wheeler erano due Inglesi purosangue, e forse è questo uno dei motivi del loro successo; gialli americani mutuati da una visione britannica del genere.

Quasi mai il nome di Patrick Quentin viene associato al gotha del poliziesco, ma secondo me non è giusto; questa firma, forse perché collettiva, è stata fortemente sottovalutata dalla critica, ma almeno qui da noi è una delle più longeve e ristampate; apparsi per la prima volta nelle mitiche palmine degli anni trenta, sono  stati una delle punte di diamante del giallo americanofilo del dopoguerra, ristampati costantemente nei classici fino ai giorni nostri, visto che ogni anno un Quentin o uno Stagge li rivedo sempre, con enorme soddisfazione, in edicola; io li ho tutti, ma ho piacere che li continuino a divulgare.

Questo costante proliferare non è per caso; gli autori veramente longevi sono ormai pochi, tutti quelli più famosi e conosciuti; ma anche tra i titani come Christie, Stout, Carr, Queen o Wallace il povero e sottovalutato Quentin, sgomitando, riesce sempre ad essere costantemente ripubblicato.

Come ripeto, nulla è per caso, e la redazione del giallo Mondadori potrà essere parziale o talvolta poco accorta, ma non è certo stupida; chi compra e legge un Quentin difficilmente rimane deluso, e desidera di provare altri titoli della collana, se quello è il target medio di essa. Sono quegli autori che fanno affezionare ai classici del giallo, che ne assicurano la periodicità costante; facile puntare sui titani, ma nessuno di loro ha scritto tanto da assicurare la bellezza di 2 uscite mensili; e perché una collana così impegnativa per quantità e qualità continui ancora ad assicurare buoni titoli, ci vogliono per forza i robusti artigiani, gli autori meno celebrati di altri che però affascinano il lettore e tengono sempre alta la bandiera (gialla…); Quentin, ma anche la sempreverde Mignon Eberhart della quale abbiamo avuto proprio il mese scorso un validissimo inedito,  Gardner coi suoi tanti ma sempre validi Perry Mason, Ed Mcbain e il suo distretto 87, il poeta delle ombre Cornell Woolrich, Donald Westlake e tanti altri che sono da sempre la spina dorsale di una collana che esce, ricordiamolo, dal 1929.

E Patrick Quentin credo sia l’autore (ormai ne parlerò come fosse una persona, ho detto e ripetuto che si tratta di uno pseudonimo) perfetto per dare lustro a un genere, a una tradizione; di invidiabile leggibilità, iniziò con gialli tra tè e pasticcini in puro stile british per poi passare, dopo gli anni trenta, al giallo americano commisto col noir e la violenza metropolitana fino ad arrivare al Thriller psicologico puro nell’ultima fase “Wheeleriana” della sua produzione; basta leggere il suo primo libro “Tè e veleno” del 1931 e “Controcorrente” del 1960 per capire di quanto questo team ha saputo non solo modificare il proprio stile, ma anche cavalcare la storia del genere e le sue mode, risultando così attuale al tempo e piacevolmente vintage adesso.

Ok, magari non avrà scritto nessun capolavoro assoluto, ma degli ormai parecchi Quentin che ho letto nemmeno uno tra questi mi ha fatto cascare le braccia, mai. Ovviamente, chi scrive preferisce i primi degli anni trenta, ma non disdegna nemmeno quelli “ammerigani”, perché sono prodotti impeccabili.

E poi, chi dice che Quentin non abbia mai scritto capolavori? I critici, ma non certo il sottoscritto, perché considero gialli di primissimo livello almeno “Presagio di morte”, “E i cani abbaiano” , “Il segreto della morte”, “Controcorrente” e il libro di cui parlerò in questo post, “Troppe lettere per Grace”, forse la migliore delle fioriture tardive della Golden-age del giallo, come giustamente dice Mauro Boncompagni in un suo articolo.

Perché questo gioiello assoluto , dapprima passato nei GM ridotto e poi ritradotto integralmente da Marilena Caselli nella versione apparsa nel classico del giallo 741 (sola e unica versione da reperire, mi raccomando)  sia così misconosciuto è un vero mistero, così come è strano che la Polillo snobbi questo autore, che meriterebbe più di un bassotto ( e visto che ha già usato traduzioni Mondadori, non credo sia nemmeno un problema di diritti).
 
 
 

Scritto da Webb e Wheeler, questo romanzo del 1939 è l’ultimo Quentin che segue uno schema da giallo classico all’Inglese (tralasciando gli Stagge) ed è forse il suo libro più perfetto e appassionante, certo quello dalla risoluzione più brillante.

L’ambientazione è quella, tanto cara alla Polillo ( e anche al sottoscritto, visto che dopo Miss Pym è il secondo giallo accademico consecutivo che recensisco; evidentemente, invecchiando si ha voglia di gioventù), di un college poco lontano da New York, location che ricorda il capolavoro “Come in uno specchio” di Helen McCloy; ma se in quel caso l’istituto era solo per donne, qui abbiamo il classico college Americano dove ragazzi e ragazze studiano e convivono giorno dopo giorno, con tanto di giardinetto riservato ai convegni amorosi.

In questo microcosmo  possono crearsi bellissimi rapporti di amicizia e amore, ma anche morbosi legami ossessivi; una di queste persone che sembra stare al college esclusivamente per seminare zizzania è Grace Houg, una studentessa carina, pallida e dotata ma fortemente complessata e resa instabile da recenti fatti gravi accaduti nella sua famiglia, su tutti la rovina finanziaria e il conseguente suicidio del padre; Grace, che studia nel college assieme all’aitante fratello Jerry, sportivo e studente modello desiderato dalle ragazze più belle (le stesse che ovviamente dileggiano Grace), somatizza tutto questo e da ragazza timida, goffa e invidiosa  ma sostanzialmente innocua si trasforma in una persona equivoca, che ricatta e scredita, e che finisce per innescare un perverso gioco di omicidi e violenze; oltre a questo la vita sociale della ragazza, circoscritta a pochissime persone, diviene intensa e misteriosa; molte lettere, a cadenza quasi quotidiana, le giungono, ma nessuna delle sue amiche, nemmeno la migliore di esse, riesce a sapere chi è il mittente misterioso; lo scoprire chi è il misterioso ammiratore di Grace è uno dei punti focali dell’intero romanzo.

La fosca vicenda è narrata in prima persona dalla protagonista  Lee Lovering, compagna di stanza e migliore amica di Grace, una bella ed equilibratissima giovane americana modello per la quale è già difficile immaginare un mondo meno che idilliaco, figuriamoci affrontarlo; per fortuna avrà al suo fianco due studenti entrambi bellissimi e innamorati di lei, il già citato Jerry Hough e Steve Carteris, che al contrario di Jerry che ha perso tutto è anche benestante, e soprattutto avrà vicino l’arguto  tenente Trant, che  fin dall’inizio della spirale di violenza che travolgerà Grace e tutte le persone che le ruotano attorno sarà al fianco della ragazza, usandola come esca per l’assassino ma al tempo stesso proteggendola dalle insidie  dello stesso; solo rischiando infatti questo diabolico omicida potrà essere smascherato, cosa che l’astuto tenente non mancherà di fare.

Come sapete sono contrario allo svisceramento delle trame, e in questo caso più che mai; quello che ho raccontato è solo lo scheletro, l’ossatura del romanzo, ma ci sono molti personaggi caratterizzati in modo eccellente, splendide descrizione della New York del tempo (specialmente dei teatri, che hanno grande importanza in questa storia) misteri che si accumulano e trovano una spiegazione con un’ottima alternanza e soprattutto un eccellente doppio colpo di scena finale (altra cosa in comune col Miss Pym della Tey) che rende il romanzo avvincente veramente fino all’ultima riga.

Ora, se lo trovate, provate a leggere questo “Troppe lettere per Grace” e ditemi se non è un giallo di primissimo livello, e chiedetevi stupiti come la firma Patrick Quentin non abbia la risonanza dei titani; ma non temete, un Quentin in edicola lo troverete sempre, almeno  finchè questo tipo di narrativa resterà in auge e la più longeva e gloriosa collana di libri Italiana continuerà ad uscire; si spera per sempre, dai.
 
 
 
 
-INTRECCIO E SOLUZIONE FINALE;  9/10
-LEGGIBILITA’  9/10
-ATMOSFERA  9/10
-HUMOUR   8/10
-SENTIMENTO   9/10
 
MEDIA VOTO; 8,8