domenica 15 gennaio 2017

"LA FUGA" (Dark passage) DI DELMER DAVES, CON HUMPHREY BOGART.




Parlare di Humphrey Bogart mi costa sempre un certo imbarazzo; ho per lui una venerazione tale che mi parrebbe di ledere maestà a non parlarne solo per superlativi; dico solo che è un mio mito assoluto, sia l’attore che i personaggi da lui interpretati, quegli splendidi losers che o, appunto, perdono, oppure pagano a caro prezzo ogni loro effimera vittoria. Era un uomo non bello ma di un magnetismo assoluto, non grande e grosso ma che comunque incuteva timore e rispetto, un uomo che le donne amavano e gli uomini ammiravano profondamente.


Il mio primo incontro con Bogey fu quando ero tredicenne, in una di quelle estati perfette nelle quali ogni giorno è una possibile scoperta di cose nuove. Era un pomeriggio  talmente caldo che uscire di casa era una follia, e sulla Rai davano ogni giorno, alle 14 in punto, un grande film classico (bei tempi, ora solo talk-show spazzatura, anche in replica). La guida TV segnalava un certo “Il grande sonno” e diceva che era un grande giallo, genere che già al tempo cominciavo a seguire. Ora, sinceramente della storia ci capii poco o niente (e anche adesso non è che tutto mi sia chiaro) ma a lasciarmi a bocca aperta fu lo straordinario bianco e nero, Bogart/Marlowe che entra e si ritrova subito una bella ragazza che sviene, anche se per gioco, ai suoi piedi, poi l’incontro col vecchio nella serra caldissima, Lauren Bacall bellissima e misteriosa, le scazzottate con pittoreschi ceffi, le auto d’epoca, i bei vestiti, la libraia sexy  (Dorothy Malone) che flirta con Bogart…non pensavo che, abituato alle sciocchezzuole da ammeriga reaganiana di Stallone, Schwarzy e compagnia, che il cinema potesse essere tanto eccitante, e che si potesse essere fighi senza nessuno sforzo come faceva Bogey; da quel momento ho guardato ogni film da lui interpretato, li braccavo sulle guide tv, li registravo in vecchie VHS, e ora ho una collezione in DVD della quale sono gelosissimo; ma da quale film tra i tanti interpretati da Bogart potevo cominciare a parlare su questo blog? Il già citato “Grande sonno” e “Il mistero del falco” sono ormai talmente famosi da (almeno spero…)  non aver bisogno di approfondimenti, così come “Casablanca” o “Il tesoro della sierra madre” o “La regina d’africa”. No, ho optato per un film che fosse bello quanto i capolavori sopra citati ma che fosse poco noto, e soprattutto che ci fosse anche Lauren Bacall, compagna di vita di Bogey per 15 anni, fino alla prematura morte di lui, dovuta a quelle sigarette maledette quanto si vuole ma senza le quali non sarebbe però stato quell’icona indelebile che conosciamo.


“Dark passage”  bel titolo banalizzato in Italiano, è del 1947, quando la coppia Bogart-Bacall aveva appena girato The Big Sleep ed era al massimo del suo fulgore, e fu diretto da Delmer Daves, un regista discontinuo ma che quando gli davano una bella storia e dei grandi attori non era secondo a nessuno (basti pensare al bellissimo “L’amante indiana” con James Stewart). E di grande regia si deve parlare fin dai primi minuti, in quanto viene usata una tecnica allora quasi inedita, ovvero la soggettiva nella quale la macchina da presa diventa un personaggio vero e proprio con cui gli attori si rapportano; questo perché il protagonista NON si deve vedere prima di un certo momento, un elemento necessario per lo svolgimento della storia che venne reso in questo modo geniale.
La storia, inverosimile e ai limiti del fantastico come in certi neri di Woolrich, è questa; Vincent Parry, condannato all’ergastolo per un delitto non commesso riesce a evadere da San Quintino, il famigerato penitenziario di San Francisco. Nella sua fuga disperata viene aiutato da una giovane donna del mistero, Irene (naturalmente la Bacall), che lo soccorre senza chiedergli niente e lo ospita nella sua bella casa. L’evaso, col fin troppo generoso aiuto di un tassista, trova un dottore che gli cambi i connotati, facendolo diventare proprio..Bogart (eh, magari, ditemi dov’è che mi faccio Bogartizzare pure io). Ma, come nei migliori film Hitchcockiani, Parry/Bogart non userà la sua nuova faccia solo per fuggire, ma per muoversi più liberamente e cercare il vero colpevole, che nel frattempo ha ucciso anche il suo migliore amico; naturalmente, nella Pirandelliana situazione di uomo senza identità ne documenti, avrà delle difficoltà e sarà braccato a sua volta, e la ricerca si fa sempre più disperata, nonostante Irene sia sempre al suo fianco, sempre più innamorata del fuggitivo/giustiziere..


Insomma, una di quelle storie nere degli anni quaranta dove non c’è un attimo di respiro, tese come una corda di violino e nelle quali l’incredulità va sospesa senza riserve, ma quel che resta è un’esperienza visiva  e sensoriale eccitantissima; come per tanti altri grandi film del periodo, sono le pettinature, i vestiti, le auto, le riprese di una San Francisco ammaliante come in “Vertigo” che contribuiscono a creare il capolavoro. E poi gli attori, non solo i divi ma anche i caratteristi (C’è anche Agnes Moorehead, una delle attrici predilette di Orson Welles, in un ruolo secondario ma di grande spessore) il classico film dove tutto funziona alla perfezione e che si avrebbe voglia di riavviare un minuto dopo aver finito di vederlo, per rivederlo senza tensione addosso e apprezzarne le innumerevoli sfumature. Ok, magari qualcuno penserà che, da fan sfegatato dell’attore, sono un tantino di parte, ma per “La fuga” ogni superlativo è pienamente giustificato, Bogartiani o meno.