martedì 20 dicembre 2016

IDEE PER UN NATALE IN GIALLO.

Ciao a tutti cari amici,

siamo ormai in prossimità della festa più amata/odiata dell'anno, e come sempre cercherò di rubare più tempo possibile ad auguri e pranzi coi parenti dedicandomi alla mia attività preferita; letture e film a carattere poliziesco nel tepore di una casa calda e con la pancia piena di biasimevoli leccornie. Quello che segue è un vademecum su come passare una vigilia e un natale in compagnia dei grandi autori del giallo classico, e chi vuole (e puole) mi segua, altrimenti amici come sempre.


Iniziamo dal pomeriggio della vigilia; che bello starsene tranquilli in un caldo buono di Ungarettiana memoria, pensando alla gente che sgomita in gomitoli di strade alla ricerca forsennata del regalo dell'ultima ora, vero? ma farlo in compagnia di un giallo a tema lo è ancora di più. Vi consiglio due racconti straordinari strettamente legati alla vigilia di Natale, ossia "La bambola del delfino" di Ellery Queen, che narra di un furto compiuto in un grande magazzino brulicante di clienti in strenua ricerca dei regali di natale nell'America di fine anni quaranta, per poi seguire passo passo per le vie della Londra popolana di fine ottocento Sherlock Holmes e il fido Watson che, la sera della vigilia, quando già la città si sta acquietando e preparando alla festività, vanno alla difficile ricerca di un'oca farcita addirittura...di un diamante. Questa storia assolutamente perfetta per atmosfera e vivacità è "L'avventura del carbonchio azzurro" e la trovate nella raccolta "Le avventure di Sherlock Holmes", la prima e la più bella.
Dopo, quando finalmente giungerà la sera, molti di voi si dedicheranno al cenone e alla messa di Natale, e non ci sarà spazio per qualche altro bel crimine sotto il vischio, per cui passiamo alla mattina di Natale.
Se, in questa, alcuni di voi lettori avranno l'ardire di alzarsi di buon'ora e la fortuna di non avere già dalla mattinata la casa invasa dai parenti, potrebbero mettere su (o cercarlo su qualche canale Rai, che ultimamente  lo trasmettono sempre) il film "Il natale di Maigret", nel quale uno splendido Gino Cervi presta volto e corpulenza al celebre commissario che, proprio nelle prime ore della mattina di Natale viene interpellato per una questione assai spinosa che riguarda una strana visita di un misterioso Babbo natale nella stanza di una bambina inferma; Maigret risolverà il caso e, assieme alla moglie, troverà anche il modo di accudire la sfortunata piccola. Una storia tipicamente Simenoniana fatta di miserie umane frammiste a buoni sentimenti, una delle più belle e commoventi storie natalizie mai scritte.
 Dopo la proiezione del film, con l'ora del pranzo che si avvicina, potreste calarvi nelle perfette atmosfere di un natale ultra-british descritto con dovizia di particolari e un velo di dolce rimpianto da Agatha Christie in  uno dei suoi racconti più suggestivi, ovvero "L'avventura del dolce di natale" (o, in alcune edizioni, "Il rubino") nel quale Poirot viene invitato in una splendida magione apparentemente come ospite (ma in realtà la padrona di casa l'ha assunto in qualità di detective) dove tra una portata di pudding e una di ostriche consegnerà un ladro alla giustizia, passando al tempo stesso una meravigliosa festività natalizia.
Spero che, ultimata la lettura del racconto, possiate cullarvi dolcemente nel sogno di un antico natale Inglese, prima che il vociare dei vostri parenti vi riporti alla realtà; ma alla fin fine anche il nostro odierno natale italiano, se lo si continua a festeggiare con più o meno autentica allegria, poi tanto male non sarà.

Per cui, cari amici e followers di Assassini e gentiluomini, TANTI CARISSIMI AUGURI DI BUON NATALE E BUONE FESTE A VOI E ALLE VOSTRE FAMIGLIE!! 

martedì 29 novembre 2016

"MAIGRET E GLI ARISTOCRATICI" (O MAIGRET E I VECCHI SIGNORI) DI GEORGES SIMENON.

Tutte le volte che dichiaro che la serie del commissario Maigret è la vera “Comedie Humaine” del ventesimo secolo, sembra sempre che parta la sparata dell’appassionato di letteratura popolare che si vuole cimentare in paragoni importanti, ma ad ogni nuova lettura o rilettura di un romanzo del ciclo, la mia convinzione non solo rimane tale, ma si rafforza.
In fin dei conti la saga di Maigret, prima itinerante per tutta la provincia Francese (e ben oltre;Belgio, Olanda, perfino New York) e poi raramente ambientata fuori da Parigi e dintorni, ci ha regalato un affresco pressoché totale di una capitale Francese ormai talmente stravolta nel tessuto sociale e nell’urbanistica che quella Simenoniana risulta al lettore odierno (specialmente per chi conosce la città com’è adesso..io purtroppo ancora non ci ho messo piede) quasi un mondo fiabesco, una pura astrazione idealizzata come l’Ovest selvaggio di John Wayne o l’Inghilterra degli Squire e dei villaggetti.
Ma comunque la Parigi di Simenon, al contrario di altri mondi mitici, esisteva eccome, e l’autore ce l’ha presentata veramente in tutti i suoi aspetti; dai quartieri più popolari densi di commoventi perdenti Brassensiani(Maigret e il ladro pigro, Maigret e l’uomo della panchina, Maigret e il cliente del sabato) ai clochard lungo la Senna (Maigret e il vagabondo) ai nuovi quartieri-dormitorio proliferati dal dopoguerra in poi (La ragazza di Maigret) ai delicati ritratti di donna (Cecile, Maigret e la giovane morta) e soprattutto ci ha presentato via via i nuovi Parigini; gli immigrati Polacchi di “Un’ombra su Maigret” o il Libanese dell’omonimo romanzo, i giovani beatnik di Maigret e il ladro, niente e nessuno è sfuggito all’occhio critico benevolo e spietato al tempo stesso quando incredibilmente acuto dell’autore.

Ma prima del 1960, in un periodo della serie che molti ritengono già di decadenza ma che per il sottoscritto, come ho dichiarato altre volte, è quello con molti dei romanzi più belli, Simenon azzardò molto ambientando un suo romanzo (Dopo il celeberrimo Caso Saint-Fiacre) nel mondo dell’aristocrazia; nella Parigi postbellica in pieno fermento politico e sociale i tipi più in evidenza erano ben altri, tanto che la minoranza di sangue blu, privata di molto del suo blasone, in piena decadenza e con molti dei suoi rappresentanti ormai anziani, era considerata alla stregua di un fastidioso anacronismo, dei relitti avulsi dal nuovo contesto sociale.
Ma Simenon, che oltre che un genio era un uomo sensibilissimo, riuscì a rendere giustizia a queste persone in fondo sfuggenti e misteriose, spesso vittime del loro stesso augusto nome; Maigret, infatti, viene chiamato in seguito al ritrovamento del cadavere del conte di Saint-Hilaire, noto ex ambasciatore in persona, ucciso da ben quattro colpi di revolver nel suo studio da qualcuno che lui stesso aveva fatto accomodare. Maigret, che si sente in preda a una soggezione che sfiora il disagio in quell’ambiente di nobili a causa della sua infantile adorazione per la sfuggente e altera contessa di Saint-Fiacre (geniale il rimando al capolavoro scritto quasi trent’anni prima) considerata dal Maigret bambino come una sorta di dea benigna, inizia a indagare sulla vita del morto, e viene a conoscenza di una storia assurda che sembra tratta da un romanzo d’appendice di tanti decenni prima in stile Feval o Bourget, ovvero quella di un amore durato una vita e rimasto platonico per motivi di etichetta tra il morto e la contessa Isabelle, un amore nato in gioventù vissuto intensamente, con appassionate missive quotidiane, un continuo spiare in silenzio l’uno la vita dell’altro (sarà casuale il rimando al meraviglioso racconto “Wakefield” di Nathaniel Hawthorne? Chissà se Simenon lo conosceva…) vedersi appassire, invecchiare, sempre da lontano; a questa emozionante vicenda rievocata durante tutto il racconto si alterna la mediocrità degli eredi e dei parenti più giovani dei due nobili, persone meschine incapaci anche solo di capire tutto quel sentimento. Ma sarà uno di loro, giovanissimo e più sensibile degli altri, a incanalare il caso sui giusti binari, e un simpatico abate a fornire a un Maigret provato e commosso la (per niente scontata) soluzione.

Insomma, questo “Maigret et les vieillards” (Maigret e i vecchi signori nell'edizione Adelphi) ha tutti i pregi dei migliori romanzi Simenoniani senza averne i difetti, assolutamente uno dei migliori del ciclo, da recuperare senza esitazioni. E preparate qualche fazzoletto vicino al comodino.

domenica 13 novembre 2016

"I MISTERI DI CHALK HILL" DI SUSANNE GOGA.

Quando si acquista un romanzo avendo buone aspettative su di esso e queste non vengono deluse è una gran bella sensazione per un lettore, ma ve ne è una ancora migliore; acquistare un libro senza aspettarsi molto e trovarsi invece tra le mani un prodotto di gran lunga migliore di quel che si crede.
E’ stato questo, per me, il caso de “I misteri di Chalk Hill”, della giovane Tedesca Susanne Goga, al suo primo romanzo tradotto in Italia dalla fiorentina Giunti Editore.

                                           L'autrice (fonte immagini; sito Giunti editore)

Ammetto che avevo adocchiato questo romanzo in libreria un annetto fa, ma troppo era il timore che si rivelasse un ennesimo romance scontato, un epigono degli epigoni, e lo trascurai; ma una entusiastica recensione sul blog l’Oeil de Lucien, fonte inesauribile di consigli per il sottoscritto, mi ha fatto decidere per l’acquisto, anche per il prezzo irrisorio (soli 6,90 per un romanzo di 400 pagine) dell’edizione economica uscita da poco.
Lo presi a fine agosto, nel momento in cui l’estate, anziché declinare, decise di fare la voce grossa, e rimandai la lettura di questo mystery goticheggiante a un clima più adatto, che in questa prima parte di novembre non ha certo deluso in quanto a sere buie e tempestose.
Che dire; me lo sono letto in tre sere, con sconfinato diletto.


Inizio col dire che la trama è quella che ci si aspetta; una storia del mistero con venature gotiche e atmosfere Collinsiane, ma riproposte con verve e originalità, senza essere un rifacimento, come dichiarato da qualche recensore, del Jane Eyre di Charlotte Bronte; anzi, tra la trama delle due opere le similitudini sono davvero poche, casomai abbondano i riferimenti non solo a Collins ma anche alla Braddon, fino ad arrivare a John Dickson Carr, non per le trame mirabolanti quanto per un certo sottofondo magico-demoniaco che aleggia sullo sfondo, atmosfere nelle quali il romanziere Americano era maestro.
La storia, in fin dei conti, è abbastanza semplice; una giovane e sensibile (ma al tempo stesso volitiva e determinata) istitutrice Tedesca di nome Charlotte Pauly giunge nella splendida tenuta di Chalk Hill, appartenente al severo e tormentato Sir Andrew Clayworth, rimasto da poco vedovo, per prendersi cura di sua figlia Emily, una bambina di otto anni intelligente e molto sensibile, che manifesta evidenti disturbi legati alla recente tragica perdita della madre, morta suicida. E’ presto evidente che sulla magione aleggiano svariati misteri, di sospetta origine ultraterrena, in quanto la presenza della morta alleggia greve.
A questa storia si intreccia, per poi incontrarsi, la sottotrama riguardante Thomas Ashdown, brillante e curioso giornalista e critico teatrale che, dopo essere entrato a far parte di una società il cui obiettivo è studiare i fenomeni soprannaturali in modo scientifico smascherando al tempo stesso imbroglioni e ciarlatani (siamo alla fine del diciannovesimo secolo, epoca nella quale l’interesse per lo spiritismo era al massimo fulgore) giunge proprio a Chalk Hill per appurare quanto ci sia di vero nelle strane visioni della piccola Emily e di altri membri della servitù.
Sarebbe un delitto rivelare oltre, basta sapere che la suspense è gestita egregiamente, e i colpi di scena sono molteplici e per niente scontati; e poi, questo va sottolineato, la Goga ha una prosa di una leggerezza e nitidezza fuori dal comune, non ci sono pagine di troppo e tempi morti, e soprattutto l’autrice riesce a inchiodare il lettore alla poltrona senza premere sul pedale degli effettacci o del sesso sfrenato come ormai accade per molti romance contemporanei (anzi, se proprio si deve fare un appunto al romanzo, forse la storia d’amore, che comunque è presente, è troppo sacrificata rispetto ad altri aspetti, cosa che so già ad alcune mie lettrici non farà piacere…) ottenendo il risultato prefisso senza alcun bisogno di tinte troppo forti.


Certo, è ovviamente molto prematuro affermare che la letteratura ha trovato una nuova Shirley Jackson o Susan Hill o Sarah Waters, ma un altro banco di prova è ormai imminente; segnalo infatti che il prossimo mercoledì, 16 novembre, uscirà sempre per Giunti il secondo romanzo dell’autrice tradotto in Italiano, “Il segreto di Reverdiew college” che dalla trama promette faville; sarà il mio regalo di compleanno, ho molta fiducia in questa autrice, perché, comunque vada, questo “I misteri di Chalk Hill” è un romanzo che merita davvero di non finire nell’oblio, un piccolo capolavoro che spero col tempo diventi un classico del romanzo gotico contemporaneo.

giovedì 10 novembre 2016

RIPARTIAMO?....

Cari lettori e followers di "Assassini e gentiluomini",


Siccome, come canta Venditti "Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano", sono lieto di annunciarvi che il mio congedo, che forse era un arrivederci, alla fine era un arrivederci davvero. Diciamo che non ci speravo, ma ora che le cose per me vanno leggermente (e dico leggermente) con ritmi più lenti, posso tornare a dedicarmi al blog ma soprattutto, e qui stava l'impresa, a leggere libri dei quali poi scrivere.

La decisione di tornare a scrivere è dipesa anche, e ve lo dico di cuore, dai tanti messaggi che ho ricevuto, veramente carini e ai quali era davvero difficile rimanere indifferenti. Spero però che molti di voi che mi seguono decidano di commentare, di partecipare; sarà più divertente per voi e per me.

In ogni caso sarà difficile per me scrivere con la stessa frequenza di prima; dovrete accontentarvi, temo, di pochi post, ma si spera buoni.

Insomma, spero sarete con me in questa nuova vita di "Assassini e gentiluomini 2.0", vi aspetto numerosi!!

Omar.


sabato 24 settembre 2016

UN CONGEDO...FORSE UN ARRIVEDERCI.

Cari amici,

ormai vi sarete accorti del mio silenzio prolungato, dei post sempre più radi, della mancata segnalazione di novità e tanto altro. Senza dare tante giustificazioni, ammetto che una serie di fattori mi hanno tenuto e mi terranno lontano da questo blog. Si, senz'altro ho maggiori impegni familiari e lavorativi che tendono a riempire (nel bene e nel male) le giornate, ma sinceramente ammetto che dopo 5 anni di letture un filo monotematiche è venuto meno anche l'interesse, la passione per il genere; non seguendolo più, ho anche poco di cui parlare. Tre anni e mezzo di blog sono tanti, in fondo, la vita si evolve e così gli interessi, e se continuassi a postare lo farei solo per onor di firma, e non ho ore da perdere per questo, ahimè. Ho anche altri motivi per cui sono un poco deluso, ma non li esprimo perchè qualcuno potrebbe pensare che abbia aperto questo spazio per secondi fini, e ciò non è mai stato.

Quindi, senza tanti giri di parole, a 200 post esatti il blog "chiude", forse per sempre e forse no, lascio sempre una porta aperta.
Voglio ringraziare tutti i miei lettori e followers per questo cammino assieme, e invito eventuali nuovi utenti a esplorare ciò che lascio, perchè ovviamente il blog resta in rete a disposizione di tutti, e continuerò a rispondere (magari non celermente) a ogni domanda che vorrete pormi.

Un caro saluto,

Omar.

domenica 28 agosto 2016

POLILLO PUBBLICA "WHISTLE UP THE DEVIL" DI DEREK SMITH.


Ciamo amici, rieccomi qua, e con una bellissima nuova!

Come diceva Guccini in una vecchia canzone, "Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull'età, dopo l'estate porta il dono usato della perplessità"... ma a parte queste cosette non proprio piacevoli, quest'anno il primo mese autunnale porta anche una bella novità per i giallofili; il primo settembre, infatti, uscirà in libreria per i Bassotti Polillo nientemeno che il titolo forse in assoluto più richiesto dai giallofili nostrani, ovvero "Whistle up the devil" di Derek Smith, uscito da noi negli anni cinquanta  col titolo (tradotto letteralmente) di "Un fischio al diavolo" per la collana gialli Casini, in una traduzione forse incompleta ma comunque molto difficilmente reperibile sul mercato dell'usato; per troppi anni questo romanzo leggendario, che vorrebbe essere un omaggio a tutti i topoi della camera chiusa e un punto d'arrivo del genere, era rimasto un sogno per troppi, ma ora la benemerita Polillo, un anno dopo un altro capolavoro ( Morte in ascensore di Alan Thomas) ci regala l'emozione di averlo in tutte le librerie. Il titolo Polilliano del romanzo sarà "L'enigma della stanza impenetrabile" e forse lasciare "Un fischio al diavolo" sarebbe stato più carino, ma a noi interessa il contenuto.

Insomma, da giovedì tutti ai posti di blocco, per scattare in libreria!!


domenica 7 agosto 2016

BUONE VACANZE!!

Anche per quest'anno il blog (a dire il vero non molto operoso...) si ferma per le vacanze estive; auguro a tutti voi bellissime vacanze, e un bel libro sotto l'ombrellone o in baita, o anche nell'intimità della vostra casa; ci ritroviamo a Settembre, un abbraccio a tutti i miei lettori!

Omar.

mercoledì 13 luglio 2016

"IL PENSIONANTE" DI GEORGES SIMENON.

Una delle cose migliori della casa editrice Adelphi, nonostante i suoi prezzi davvero troppo alti per libri di nemmeno 200 pagine, sono senz'altro le riproposizioni dei romanzi del prolificissimo Georges Simenon, praticamente un pozzo senza fondo a cui attingere e che riscontra, una volta tanto, un giustificatissimo successo anche di pubblico, oltre che di critica.


Come sapete, a me Simenon piace molto, sia Maigret che extra Maigret; non ritengo tutti i suoi libri automaticamente capolavori come fanno tanti, anzi ce ne sono alcuni che proprio non mi hanno detto nulla (ma, vedi anche Maugham e Kipling, alcuni autori riscoperti da Adelphi, da bistrattati che erano, finiscono per essere addirittura sopravvalutati proprio grazie alla patina di snobismo letterario che distingue questa casa editrice) ma in ogni caso i suoi libri si fanno sempre leggere con piacere, aldilà del risultato finale.
SImenon, diciamocelo, oltre che talentuoso era un mestierante furbissimo, forse colui che capì più alla perfezione come dosare quegli ingredienti per cui il pubblico lo amò fin da subito; atmosfere e descrizioni di Parigi o della provincia Francese, personaggi ambigui e sessualmente disinibiti, escursioni in scenari esotici, e soprattutto una scrittura che arriva al sodo, che non si perde in dettagli inutili, che centra il bersaglio senza tergiversazioni.
 Ma nel 1934, ai tempi in cui scrisse "Il pensionante" il SImenon che esaminerò in questa occasione, il Belga non era ancora un autore completo come nei romanzi della maturità. Nato nel 1903, aveva esordito da giovanissimo scrivendo, con lo pseudonimo di George Sim un mucchio di romanzotti a sensazione oggi tenuti scientemente nell'oblio (ma ai quali non mi dispiacerebbe dare una lettura) e poi raggiunse un fulmineo successo coi primi libri di Maigret; ma l'autore, un poco stufo del personaggio, volle tornare a romanzi senza personaggi fissi senza però gli orpelli del Feuilleton ma con una formula simile ai Maigret, seppur con un intreccio poliziesco labile se non inesistente, più drammi umani che thriller,  raggiungendo subito risultati di tutto rispetto, tra cui "Colpo di Luna", "Il passeggero del Polarlys" , "I Pitard" , fino a questo "Le locataire" datato 1933.

Diciamolo subito per evitare malintesi; questo romanzo, seppur buono, non è a livello dei migliori Simenon. E' una storia interessante ma mal calibrata nel ritmo, e con troppi personaggi irrisolti.

La trama, tipicamente Simenoniana, parla di un uomo, Élie Nagéar, che si intuisce già perdente, già vittima del suo destino. Ebreo Turco ma di origini Portoghesi (!) Nagear, dopo un affare andato a monte, uccide un facoltoso Olandese per rubargli le motle banconote che sapeva che l'uomo aveva con se. SI rifugia a Bruxelles dalla sua amante, Sylvie, avventuriera ed entraineuse dalla morale equivoca che poco ha della femme fatale dei noir, in quanto persona pratica, che si vende senza il minimo scrupolo all'amante di turno che può farle dei regali, senza provare niente per essi.

La ragazza, più infastidita che coinvolta dalla situazione, dice a Nagear di andare a nascondersi nella pensione gestita da sua madre e sua sorella, nella vicina Charleroi, dopo avergli preso una parte del bottino. E qua Nagear, individuo inquieto ben prima di essere braccato dalla polizia per l'omicidio, magicamente, grazie alle cure della madre di Sylvie che lo adotta come un figlio, scopre, nel rigido inverno Belga, che il microcosmo della pensione è per lui il rifugio caldo e quieto che non ha mai avuto e che, forse, desiderava da una vita; non esce mai, passa le giornate nel calore della famiglia Baron, conversa con la scontrosa Antoinette, sorellina di Sylvie (personaggio di adolescente problematica e con istinti repressi che avrebbe potuto essere sfruttato molto meglio) e con i mal assortiti pensionanti, tra cui un giovane ebreo del ghetto di Vilnius e un polacco che odia gli ebrei (sinistra anticipazione dell'ondata antisemita che proprio in quei mesi avrebbe travolto l'Europa) e tra quelle modeste mura inizia a vivere quasi una nuova vita. Ma, nel mondo all'esterno della pensione Baron, la polizia si avvicina sempre più alla verità....

Insomma, se dalla mia sinossi avete ricavato l'impressione che Il pensionante sia un buon thriller venato di suspense (come l'omonimo film Hitchcockiano, che ovviamente non c'entra nulla con questo romanzo) avete ragione solo in parte. Perchè si, la storia è buona e sicuramente sulle prime coinvolge, ma poi l'autore si concentra troppo sulla vita di Nagear alla pensione, volendo raccontare la storia di un uomo che quasi torna bambino finisce per sacrificare la fluidità dell'intreccio e il pathos pian piano finisce per scemare, e la conclusione arriva un poco stanca, come nel calcio un attaccante che prende la palla a centrocampo, fa una gran volata verso la porta ma arriva confuso e poco lucido e fa un tiro telefonato e prevedibile. Ma, ricordiamo, il miglior Simenon aveva ancora da venire, forse vent'anni dopo avrebbe sfruttato al massimo le potenzialità elevatissime offerte della trama. In ogni caso un libro da leggere, che trova un suo riassunto nella frase bellissima tratta dal Mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, ossia "Tutti vorrebbero tornare bambini, anche i peggiori di noi. Anzi, forse i peggiori di noi lo sognano più di tutti".

venerdì 8 luglio 2016

"LA MORTE IN VACANZA" DI JANICE HAMRICK.

Purtroppo, con l'allarme terrorismo e specialmente dopo il doloroso caso Regeni, abbiamo smesso di guardare l'Egitto come lo abbiamo sempre guardato, ossia come un paese fiabesco con un grande passato e tante mete turistiche da sogno. Chi non ha mai desiderato di vedere la Sfinge e le Piramidi? forse solo Roma ha altrettanto appeal. Ma purtroppo, fino a data da destinarsi, questa magia anche solo immaginaria è evaporata, e chissà se tornerà.

In ogni caso, nel 2011 la giovane Janice Hamrick, scrittrice già al terzo romanzo e abbastanza sulla breccia in patria, scrisse un romanzo dove l'Egitto, a parte qualche magagna dovuta principalmente alla burocrazia locale, era ancora raccontabile come meta di una vacanza da sogno.

Oddio, da sogno, intendiamoci bene; nel romanzo "La morte in vacanza" uscito lo scorso maggio nel GM, si parla di un viaggio, ma organizzato; certo, credo sia di gran lunga il metodo più sicuro per visitare quelle aree del mondo, ma personalmente l'idea di aggregarmi a un gruppo di sconosciuti, comandato a bacchetta da una guida e costretto a rigidi e inflessibili orari e a ritmi massacranti mi sembra semplicemente orribile, preferisco non vedere che vedere a quelle condizioni; per me e la mia  Fidanzata è già un viaggio faticoso uscire da Firenze, figuriamoci avventurarsi in simili gineprai.





Ma, fortunatamente per le agenzie di viaggio, molti la pensano diversamente, e l'Egitto rimane una meta delle più gettonate, specialmente dagli Americani; ed ecco quindi arrivare nella terra dei Faraoni una comitiva di Texani, tra cui spicca, tra personaggi comunque tutti ben delineati, la protagonista Jocelyn Shore, che viaggia con la seducente e capricciosa cugina Kyla, che si è unita alla cugina più per rinsaldare il loro rapporto un poco traballante che per vera vocazione. Tutta la variopinta comitiva, composta da famiglie di varia estrazione ed educazione, tra i quali una coppia di Australiani con una figlia che nasconde un segreto,  due svampite e irritanti sorelle, una zitella impicciona e maligna, e soprattutto Alan Stratton, bellone seducente e misterioso che viaggia da solo, e che diventa ben presto l'oggetto del desiderio di Jocelyn e Kyla.

Ora, Jocelyn potrebbe considerarsi l'erede delle fanciulle per bene e ingenue e travolte dal fascino dell'avventura rese famose da Edgar Wallace, ma il carattere è decisamente rapportato ai nostri tempi; l'eroina è ormai oltre la trentina, con un divorzio alle spalle, con ben poche inibizioni sentimentali e sessuali e un senso pratico che deriva dal lavoro (è insegnante in una scuola elementare) e dalle traversie della vita affrontate in prima persona e senza cavalier serventi.
Piacente ma non bellissima, ha un complesso di inferiorità enorme verso Kyla, decisamente più sexy e sfrontata, e che lo fa pesare alla cugina (assicurandosi puntualmente tutti gli uomini piacevoli e single che incontrano), meno bella ma soprattutto meno adatta di lei a fare la gatta morta.

Il viaggio in Egitto, della durata di dieci giorni e che toccherà tutto quello che c'è di più interessante, è una vera guida pratica anche per il lettore; dell'Egitto si conoscono di fama quasi tutti i monumenti, ma in pochi saprebbero dire dove sono ubicati, quali si raggiungono per primi andando da Nord a Sud, e quanta distanza effettiva ci sia tra essi. Se uno accarezzasse l'idea di un viaggio nel paese dei Faraoni, questo romanzo potrebbe dare un'idea di tempi, costi e ostacoli; si, perchè l'autrice, che evidentemente ha sperimentato la cosa in prima persona, non ci risparmia nemmeno i lati meramente pratici o addirittura sgradevoli, dalle impressonanti escursioni termiche tra notte e giorno, alla penuria dei servizi che scontentano puntualente l'occidentale che pensa sempre e comunque di trovarsi a Londra o New York, la sporcizia dei cammelli, l'insistenza dei venditori di cianfrusaglie; insomma, c'è poca dell'epicità o della trasfigurazione poetica di tanti libri e film Hollywoodiani (o dell'indulgenza verso usi e costumi di una Agatha Christie) ma al tempo stesso l'autrice è chiara su una cosa; le meraviglie che offre il paese vale comunque la pena di vederle, i disagi sono resi poca cosa dalla effettiva grande bellezza del tutto.

Il meccanismo giallo, non temete, è ben presente e si innesca fin dall'inizio, quando la zitella impicciona viene trovata morta ai piedi di una piramide; sembrerebbe uno sciocco incidente, ma oviamente non è cosi, e toccherà all'intrepida Jocelyn, aiutata dal fin troppo piacione Stratton  (che ovviamente non si fila la fin troppo facile preda Kyla preferendo la più virginale Jocelyn...vabbè, spero succeda spesso anche nella vita reale), dipanare un mistero che per un lettore esperto è tutt'altro che inestricabile, però tutto sommato l'intreccio mistery è abbastanza ben svolto e coerente.

In ogni caso, questo romanzo va letto come una pura evasione, per sentirsi parte di un viaggio organizzato che uno non si può permettere, o che non ha voglia o tempo di fare. Adattissimo sotto l'ombrellone, magari potrete far finta che la sabbia del lido nostrano che vi circonda sia quella del grande deserto Egiziano attraversato dal Nilo, o magari, come me, tirerete un sospiro di sollievo per NON essere in mezzo a quel caos ma davanti al nostro splendido, "banalissimo" mar Mediterraneo.

martedì 28 giugno 2016

"GARDENIA BLU" DI FRITZ LANG.

Non si parlerà mai abbastanza del genio di Fritz Lang, il grande maestro dei film neri. Non noir, intendiamoci, neri, che è diverso.
Del Lang regista ne parlerò più approfonditamente in un articolo che sto preparando e spero uscirà a breve, in questo caso analizzerò un suo solo film divertendomi a paragonarlo a quelli di Hitchcock, in quanto "Blue gardenia" è il solo titolo di Lang che possa veramente essere definito Hitchcockiano, nonostante molti appassionati vedano molte più affinità tra i due maestri del cinema, affinità più presunte che reali, come vedremo.

Innanzitutto, una doverosa precisazione; anche se per gran parte della carriera entrambi lavorarono a Hollywood, i due registi erano profondamente europei, però Hitchcock era Inglese e Lang Austriaco, due modi assolutamente differenti di intendere lo spettacolo, l'intrattenimento e il cinema stesso.

Entrambi cominciarono nell'epoca del muto, ma se Hitchcock cominciò, come la maggior parte dei registi, con opere di budget modesto, Lang invece seppur molto giovane diventò uno dei registi di punta della grande stagione dell'UFA, ossia la casa di produzione Tedesca che ha regalato al cinema un bel mucchio di capolavori immortali. Hitchcock aveva come attori onesti mestieranti del teatro Inglese, Lang i migliori dell'epoca, i film di Hitchcock duravano poco e quelli di Lang erano dei Kolossal anche oltre le tre ore (e alcuni di essi, va detto francamente, sono oramai faticosamente vedibili) situazione che si ribalterà in pieno nella loro maturità, quando Hitch ebbe il meglio del meglio e Lang budget sempre più risicati, riuscendo però lo stesso, talvolta, a eguagliare se non superare il maestro Inglese. Ma quella tra Lang e Hitchcock è, come ribadito, una partita che non ha molto senso giocare, perchè le loro affinità si limitano al genere trattato, ma la poetica era del tutto diversa; il tema portante dei film di Hitchcock è quello dell'innocente ingiustmente accusato che si discolpa da solo o dell'eroe per caso che esce vittoriosamente da un ingranaggio nel quale si è trovato inaspettatamente; mentre la tematica Langhiana è quella che ognuno di noi possa essere un assassino potenziale,  sia ciò per deliberato calcolo o solo accidentalmente; nei film di Lang non ci sono eroi, semplicemente perchè il regista esclude la possibilità che essi esistano. Certo un punto di vista meno divertente, ma sicuramente più aderente alla realtà.

In ogni caso, tra tutto il mazzo dei film di Lang, ce ne è uno che tra i cinefili è famoso per essere un puro prodotto di routine girato dal regista tanto per ritornare dietro la macchina da presa dopo essere stato vittima dell'assurda caccia alle streghe, la pazzia del governo McCarty all'inizio degli anni cinquanta, strumento di delazione bassa e crudele che però compromise, se non rovinò del tutto, la carriera di molti attori, registi, scrittori e intellettuali.

Si diceva appunto di questo prodotto d'accademia, ossia "Gardenia blu" che però il sottoscritto non trova affatto tale, anzi è un film delizioso che del suo essere Hitchcockiano fa un punto di forza, una salutare vacanza di Lang dai tanti film-incubo precedenti, pregevoli fin che si vuole ma ogni tanto un regista deve, o comunque dovrebbe, cambiare tono e registro.





La storia, assolutamente classica e "già vista "ma splendidamente resa e sempre sul filo del rasoio, è un thriller venato di giallo nel quale una centralinista di nome Norah (una  Anne Baxter sexyssima e al massimo del suo fulgore) depressa per essere stata lasciata via lettera dal fidanzato in Corea, accetta l'invito al buio di un noto pittore cinico e donnaiolo (il futuro Perry Mason Raymond Burr) che, dopo una cena indimenticabile nel locale stile Hawaaiano "Blue Gardenia" con tanto di canzone eseguita dal grande Nat King Cole in persona, invita l'ingenua e decisamente alticcia giovane nel suo appartamento con intenzione abbastanza intuibili, e il tentativo di stupro, che poi di quello si tratta, finisce nel sangue (il riferimento a "Blackmail", film di Hitchcock del 1929, non credo sia casuale, anzi per certi versi questo ne è un remake) e da questo momento la donna, in preda all'angoscia una vota resasi conto di ciò che ha fatto, sola contro tutti (no può nemmeno confidarsi con le due simpatiche donne con cui condivide l'appartamento) , cerca in tutti i modi di discolparsi, anche se la polizia e un giornalista cinico solo in apparenza (che da cacciatore di scoop si trasformerà in detective...c'entreranno qualcosa i begli occhioni da cerbiatta della Baxter?) stringono una rete sempre più stretta attorno all'assassina; ma sarà davvero Norah la colpevole?


                                    Sopra, una intensa Anne Baxter - Anne Baxter e Nat King Cole

Insomma, avete due strade; se volete fare i cinefili snob e paragonare questo ai maggiori lavori di Lang, allora resterete delusi; ma se invece vi prendete il film come è e senza pregiudizi, vi divertirete moltissimo con una storia ottimamente orchestrata, con una suspense costante, con degli ottimi interpreti e una regia deliziosa seppur canonica. E poi, è un importante spaccato degli States dei primi anni cinquanta, con donne che lavorano e aspettano i loro uomini che sono la fronte, una Los Angeles quasi metropoli ma ancora con un suo stile, e poi gli abiti, le automobili, Nat King Cole...semplicemente imperdibile.

mercoledì 15 giugno 2016

"DIECI PICCOLI CAIMANI" DI TERESA RADICE E STEFANO TURCONI.




Tra tutti gli autori artisti del panorama Italiano, senza dubbio coloro che io e la mia fidanzata (che come me li apprezza molto)  inviteremmo più volentieri una sera a cena sono Teresa Radice e Stefano Turconi.

Chi sono? sono una coppia (nel lavoro e nella vita, visto che sono marito e moglie) di autori di fumetti, lei scrive i testi e lui disegna. Sono giovani e belli, e un mio amico che li ha incontrati a una fiera del fumetto m ha detto che sono anche molto simpatici. Hanno un loro blog by blogspot (un filino più frequentato del mio) che si chiama "La casa senza nord", dove parlano dei loro lavori ma non solo.

                                     I due autori in posa ottocentesca (fonte;cinquecosebelle.it)

La loro opera è ampia e variegata; si sono fatti conoscere sulle pagine di Topolino ma la loro consacrazione definitiva a livello critico è arrivata soprattutto con le Graphic novel (ossia romanzi autoconclusivi a fumetti), prima con il piacevolissimo "Viola giramondo" e poi con lo splendido "Il porto proibito" un vero gioiello risultato giustamente uno dei libri Italiani più venduti dell'ultimo anno; lo pubblica BAO publishing ed è una storia a metà tra il grande romanzo d'avventure ottocentesco (la prima parte specialmente  ha mandato in sollucchero il VernianoSalgariano che c'è in me come non mi succedeva da tempo) e il genere fantastico-metafisico. Se non lo conoscete vi invito caldamente all'acquisto, anche perchè, se i testi della Radice sono entusiasmanti e ti cullano in una dolce evasione, i disegni di Turconi sono veramente di altissimo livello e vi metteranno a vostro agio anche se di romanzi a fumetti non ne avete letto nemmeno uno fino ad adesso.




Ma siccome questo è un blog sui gialli classici(oddio, quantomeno lo sarebbe, visto che ormai parlo di tutto un po') mi interessa parlare soprattutto di una loro storia Disneyana, una delle quindici facenti parte del ciclo "Pippo reporter" una variazione sul tema del personaggio di Pippo in cui lo si trova nelle vesti appunto di giornalista nella mitica America degli anni venti, epoca resa con una ricchezza di dettagli davvero encomiabile.

Teresa Radice recupera tutto il meglio del vecchio Goofy, riprendendo le sue peculiarità degli esordi da tipico character anni trenta (la sostanziale anarchia gentile da personaggio di Frank Capra, l'imperturbabilità Keatoniana, lo spirito da Hobo, la capacità di combinare pasticci degna di Laurel e Hardy) ma togliendolo finalmente dall'eterno e un poco castigante ruolo di spalla di Topolino per ergerlo a protagonista assoluto delle storie. Nelle avventure di Pippo reporter, sempre in una loro versione alternativa, compaiono anche Minni e Clarabella, mentre il direttore del giornale è nientemeno che un perfido quanto umanissimo simil-macchia nera, che ovviamente si serve del più "manovale" Gambadilegno per combinare qualche intrallazzo. Topolino invece (trovata geniale) è solo evocato, in quanto è il misterioso fidanzato di Minni del quale lei parla spesso ma che non si vede mai.

L'ottava storia del ciclo (conclusosi pochi mesi fa sulle pagine del topo) è particolarmente interessante perchè si tratta, udite udite, di una intelligente parodia di  "Dieci piccoli indiani" di sua maestà Agatha Christie.

Ora, io questo romanzo mi sentirei in difficoltà già ad analizzarlo per il blog, (e difatti me ne guardo bene) figuriamoci piegarlo allo stile Disneyano facendone non solo una parodia, ma una parodia necessariamente INCRUENTA; per fare ciò ci vuole veramente dell'intelligenza non comune, e Teresa Radice ce l'ha fatta e in sole trenta pagine.

Dunque, riassumiamo per sommi capi la vicenda; Minni è assunta per un lavoro temporaneo di cameriera nell'isola Caimano, così chiamata perchè, ovviamente, ha una forma che ricorda il corpo di questo rettile. Si ripete il meccanismo; tutti gli ospiti, di varia natura ed estrazione sociale (e non solo, visto che alcuni presentano fattezze simil-umane e altri sono sono ritratti come animali antropomorfi) sono stati invitati con diversi pretesti da un misterioso signor I.G. Noto, e ben presto iniziano a scomparire in modo misterioso ( e a ogni scomparsa sparisce anche una delle dieci piccole statue di caimani sul tavolo della sala da pranzo, caimani protagonisti di una filastrocca che ognuno ha trovato nella sua stanza). Pippo (tra gli invitati assieme a Clair la  belle-Clarabella e Mr. Blackspot-macchia nera) e Minni iniziano a indagare, aiutati da una dolce cameriera, la cui identità si intuirà solo nell'ultima emozionante vignetta.

                        Una vignetta della storia, notare l'acuratezza del dettaglio (fonte;
                         stefanoturconi.blogspot.com)




Vi sembra una cosetta puerile e "per bambini"? Beh, se lo pensate commettete il peccato di pregiudizio, perchè sinceramente accade molto di rado di trovare una storia così ben equilibrata (le trenta pagine d'ordinanza possono veramente andare strette per una storia di questo genere, ma l'autrice riesce a includere tutti i principali temi del romanzo della Christie; presentazione dei peronaggi, angosciante magione piena di segreti, filastrocca, sparizioni, sciogliemento dell'enigma) che proponga tutto il simpatico (come detto, nessuna violenza, siamo nel pianeta Disney Italia, ancora, e spero per tanto tempo,tutto sommato positivo e  rassicurante) ma comunque complesso e per nulla infantile mistero. E i disegni di Turconi sono una vera festa per gli occhi.





Se vi interessa, potete trovare la storia in tutte le fumetterie specializzate(o basta ordinarlo) nel secondo dei finora tre volumi che la Panini, attuale casa editrice del fumetto Disneyano, ha dedicato al ciclo di Pippo reporter; ma perchè comprare solo il secondo volume? conviene prenderli tutti e tre, sono carinissimi e costano il giusto, e sono un ottimo modo per entrare nell'universo Radice-Turconi, autori tra i più interessanti che il panorama artistico Italiano offra attualmente, e dalle grandi potenzialità future.

giovedì 26 maggio 2016

"UN 'OMBRA SU MAIGRET", IL ROMANZO DI SIMENON E LO SCENEGGIATO RAI CON GINO CERVI.




E’ esistita per la televisione Italiana, tra gli anni sessanta e settanta, un’epoca irripetibile, quella degli sceneggiati fatti bene, una televisione di qualità specchio di un paese che era più di qualità anch’esso, in quegli anni di boom economico e di passi in avanti notevoli dal punto di vista sociale e dei diritti umani e lavorativi, prima che tutto annegasse in recessioni e anni di piombo. Ancora non so spiegarmi perché un paese con molte persone alfabetizzate alla meno peggio si appassionasse a serie televisive recitate in un ottimo Italiano, con attori raffinati come Cervi, Gazzolo, Albertazzi, Buazzelli e Rascel a impersonare i vari Maigret, Holmes, Philo Vance, Nero Wolfe e padre Brown, e che queste serie le apprezzasse e le ricordi tuttora con immutato affetto; forse perché molti dei nostri padri/ madri e  nonni /nonne avevano si studiato poco ma erano intelligenti e curiosi/e, e amavano nobilitarsi con la televisione che era appunto un mezzo per accrescersi culturalmente; perché ora tanta gente anche laureata scelga regolarmente di abbrutirsi coi reality, quarti gradi, quinte colonne e altri prodotti di una televisione ormai nemica della cultura e della decenza è veramente un qualcosa di misterioso, evidentemente si apprezza il bello solo quando è irraggiungibile e una volta a portata di mano lo si schifa.


Beh, si diceva di questi sceneggiati RAI dei tempi d’oro; in Italia si capì prima che altrove che si poteva fondere con ottimi risultati letteratura (un classico o comunque un romanzo famoso come punto di partenza) teatro (gli attori protagonisti venivano quasi tutti dal teatro, e spesso le riprese erano in presa diretta e appunto di taglio molto teatrale) e cinema (perché comunque si girava anche in esterni) per creare prodotti mai visti prima, riuscitissimo connubio di tre arti che non ha avuto eguali altrove. Oggi, parte di questa tradizione sopravvive sicuramente nella riuscita serie del Commissario Montalbano con Zingaretti, anche se il macchiettismo ostentato di molti comprimari è veramente stucchevole.
Di sceneggiati memorabili anche solo di genere poliziesco ce ne sono moltissimi, anche creati ex novo; dal mitico “Segno del comando” ambientato in una Roma sghemba e notturna del tutto inedita, al bellissimo e inquietante “Ritratto di donna velata” ambientato nella mia Toscana, all’altrettanto suggestiva Sicilia de  “L’amaro caso della Baronessa di Carini” i superlativi si sprecano.
Ma il grosso della produzione, nella tradizione degli sceneggiati,era tratto da opere già esistenti, alcuni veri e propri masterpiece, e la serie a cui sono più affezionato (anche se forse come qualità effettiva i migliori in assoluto sono i tre Philo Vance con Giorgio Albertazzi) è senz’altro il Maigret di Gino Cervi, e non solo perché quest’ultimo sarà sempre il mio amatissimo Sindaco Giuseppe Bottazzi detto Peppone, ma perché questo grande attore ERA Maigret, e lo stesso Simenon ammise che, tra i tanti, Gino Cervi era senz’altro colui che si avvicinava di più al personaggio.
Ma non era il solo Cervi a funzionare; la grande Andreina Pagnani era una signora Maigret altrettanto esemplare, e i comprimari di ogni episodio, tutti attori di gran classe ed esperienza, contribuirono a creare uno prodotto giustamente rimasto negli annali della tv e, cosa ancora più importante, nel cuore della gente.


Per il primo episodio della fortunata serie durata dal 1964 al 1972, oggi diremo il “Pilot” , fu scelto uno dei più bei romanzi di Simenon, ovvero “Cecile est mort” da noi noto con il comunque azzeccato “Un’ombra su Maigret”.
Questo romanzo ha in se tutte le migliori qualità dello scrittore; la rappresentazione della Parigi del tempo talmente vera da essere in parte idealizzata (Simenon, dal dopoguerra in poi, visse perlopiù negli Stati Uniti e scriveva di Parigi mentre si trovava in Texas o in Arizona…) i delicati ritratti di persone ai margini della società e la grande umanità del commissario, gli ingredienti dei Maigret migliori; ma a tutto questo in Cecile est mort si associa anche una trama poliziesca robusta (cosa molto rara in Simenon, che non era certo giallista funambolico) e una soluzione finale degna di un’Agatha Christie, che aggiunge valore a un testo già preziosissimo.
La storia, in fondo, è la tragedia di una perdente, la dolce Cecile, ancora giovane ma già sfiorita, tiranneggiata senza pietà da una zia paralitica gretta e meschina; di donne così, che per chissà quali motivi reconditi rinunciano a vivere e si votano al sacrificio per gente che nemmeno le apprezza o le ringrazia ce ne sono molte ancora oggi, ma ai tempi di Simenon era ancora più semplice tenere una donna, specie se zitella e di pochi mezzi, sotto il tacco; e come l’autore, dalla forte personalità e assiduo frequentatore di ben altri tipi di donne sia riuscito a rendere tanto bene una personalità così agli antipodi della sua è semplicemente l’ennesima dimostrazione del suo genio letterario.
Cecile, sulle prime, per il povero commissario già oberato di lavoro è solo un grosso grattacapo; la ragazza infatti si presenta tutti i giorni al commissariato, aspetta per ore e ore che Maigret e solo Maigret la riceva (che la giovane ne sia un poco innamorata?)e quando finalmente, per sfinimento, riesce a parlarci, gli racconta una strana storia di oggetti che cambiano di posto e mobili spostati durante la notte. Il commissario cerca di aiutarla, manda qualcuno a indagare, ma poi perde la pazienza e la scaccia dicendole di importunare qualcun altro con le proprie fisime.
Ma un brutto giorno la vecchia zia di Cecile viene brutalmente strangolata nel suo letto e poche ore dopo la stessa ragazza viene trovata anch’essa morta proprio in uno sgabuzzino del palazzo di giustizia. Maigret è fuori di se per la rabbia e il senso di colpa, e inizia un’indagine che avrà dei risvolti decisamente inattesi.


Da questo romanzo, in fin dei conti abbastanza breve come tutti i Maigret, il regista Mario Landi trasse appunto l’omonimo sceneggiato in tre puntate dalla durata complessiva di 3 ore e 40 minuti, ben più del tempo che ci si mette a leggere il romanzo; questo perché il libro è reso in maniera non solo letterale ma anche teatrale, Gino Cervi è un Maigret calmo, placido,che almanacca con la stufa, che si crogiola con un bicchiere di vino, che fissa sorridendo la moglie che sferruzza; quello che per molti oggi sarebbe un ritmo pachidermico era invece ciò che nobilitava questi sceneggiati, che rilassavano lo spettatore, gli raccontavano un romanzo attraverso la parole e le immagini. Io ho già visto due volte questo splendido episodio scritto bene e recitato meglio, e invito veramente chi non lo conosce a scoprirlo, preferibilmente dopo aver letto il romanzo (Che comunque Adelphi pubblica col titolo tradotto letteralmente di Cecile è morta) e invito chi lo conosce già a rivederlo ancora, perché prodotti come questo meritano un’ammirazione persistente.

giovedì 12 maggio 2016

"INCUBI NOTTURNI", FILM DEL 1945 DI REGISTI VARI.

Se sulle novità del mercato librario non ballo certo per la felicità, da alcuni anni il mercato dell'Home video gode invece di ottima salute; da alcuni anni a questa parte, case come la Sinister, la Golem e la Flamingo ci regalano a cadenza regolare perle semisconosciute della cinematografia soprattutto Inglese, da sempre abbastanza snobbata dalla critica in quanto ha il "peccato" di essere troppo divertente e poco intellettualoide.
Una delle migliori perle by Sinister è senz'altro un meraviglioso film del 1945, "Dead of Night", reso in Italiano come "Incubi notturni", titolo nient'affatto male in quanto rievoca senz'altro lo spirito della pellicola, quella di raccontare incubi per farne venire qualcuno allo spettatore.



Fu uno dei primi esempi di film diretto da registi vari, in questo caso tutti grandi talenti che si sarebbero poi confermati negli anni a venire; l'unico veterano era il Franco-Brasiliano Alberto Cavalcanti, poi abbiamo il maestro delle commedie Charles Crichton, Basil Dearden e soprattutto Robert Hamer, regista di futuri ottimi film come "Il capro espiatorio", "Sangue blu" e "Vendicherò il mio passato". I quattro registi si alternano per raccontare le varie storie, che nascono da una cornice nel quale un uomo di nome Walter Craig che capita in una casa immersa nella campagna Inglese dove dovrebbe dirigere dei lavori, e si trova in un salone con alcuni sconosciuti...che però lui già conosce in quanto sono i protagonisti di un suo sogno ricorrente. L'uomo esterna il suo disagio e informa i presenti della cosa, ed essi, invece di prenderlo per pazzo, raccontano a loro volta, in una eccitante atmosfera da racconto pauroso attorno al fuoco, un episodio inquietante e "ai confini della realtà" che li ha visti protagonisti, mentre l'unico scettico, il noto psichiatra Van Stratten, cerca senza troppo successo di smontare i loro racconti con contorte spiegazioni riconducibili appunto alla psiche.





In una successione incalzante e senza un attimo di respiro, assistiamo alla strana premonizione che avverte un giovane pilota di corse automobilistiche, all'incontro di una simpatica ragazza con uno strano bambino, all'inquietante avventura di una giovane e sensuale sposa che regala al marito uno specchio che non sempre riflette la realtà. Poi un episodio comico di due golfisti che si battono per una ragazza anche dopo la morte di uno dei due, affindato al formidabile duo Basil Radford - Naunton Wayne, ovvero gli ultrabritish appassionati di cricket de "La signora scompare" di Hitchcock (lo avete visto tutti, vero?) che tra umorismo nero e citazione del "Fantasma inesperto" di H.G. Wells ci regalano dieci minuti di garbatissimo umorismo per farci riprendere dalla tensione degli episodi precedenti, tensione nella quale ripiombiamo subito dopo per quello che è l'episodio giustamente più celebrato , quello del ventriloquo e della sua marionetta con un filo  troppo arbitrio, interpretato dal sempre meraviglioso e affascinante Michael Redgrave, a suo agio in ruoli borderline.




Quando ormai tutti i presenti hanno raccontato la loro storia, è però Craig a informali di quella che potrebbero vivere; nel suo incubo, allo psichiatra cadono gli occhiali, tutto diventa buio e lui a quanto pare diviene preda di una furia omicida incontrollabile...ma gli incubi sono sempre destinati ad avverarsi? lo scopriremo in un finale da antologia, che ci lascia come lo spettatore di questi film vorrebbe rimanere, ossia turbato e deliziato in egual misura.

Ora, voi direste che ho appena recensito un film dell'orrore, seppur garbato e senza una sola scena truculenta. Forse si e forse no, perchè come ho detto siamo in un'atmosfera dove il reale e l'irreale sono abbastanza sfumati, dove non abbiamo la certezza che i fatti narrati siano reali o siano suggestioni di chi li ha vissuti; in effetti, le teorie di Van Stratten potrebbero essere anche attendibili, tutto sta alla discrezione dello spettatore, decida lui o meno se credere o meno ai racconti degli ospiti della casa; in fondo cosa si chiede a un racconto attorno al fuoco, quello di divertire o di essere credibile? anche i gialli classici seppur spieghino tutto con la logica(oddio, a volte lasciano comunque seri dubbi...), in fondo per me restano favole per adulti. Quindi un consiglio; prendetevi questo splendido film, aspettate una serata di pioggia, gettate il mondo fuori dalla vostra stanza e aggiungetevi agli ospiti della casa sperduta nella campagna.

martedì 26 aprile 2016

"I DODICI DELITTI DI NATALE" DI RHYS BOWEN.

E' inutile che provi a resistere; come ogni volta, appena vedo un libro di Rhys Bowen in edicola, non posso esimermi dal prenderlo, specialmente se è uno della serie con Lady Georgianna Rannoch, la simpatica giovane aristocratica spia/detective per caso che non può fare a meno di risultare simpatica.

Certo, come sempre (e' il mio ennesimo post sull'autrice) consiglio di astenersi a chi cerca un grande enigma giallo, ma una cosa di questa serie va detta; sempre eccellente sul lato della gradevolezza e del romance, dal punto di vista prettamente giallistico nei primi libri era tanto all'acqua di rose da sfiorare l'autoparodia, ma negli ultimi due romanzi essa è invece diventata più robusta e coinvolgente, non è solo più un ricamino a margine di un rosa-giallo; ed era quello che mancava a questa serie per farsi prendere sul serio su tutti i fronti, perchè diciamocelo; Rhys Bowen scrive bene, ma bene davvero, è un'autrice nata con la penna leggera, come Agatha Christie o Georgette Heyer; e se non si fa l'errore, molto comune, di scambiare questa scrittura in punta di penna per superficiale o sciatta rispetto alla prosa più barocca e ricercata di altre gialliste come la Sayers o la Marsh, il divertimento è assicurato.




                                                        La (brutta) copertina del libro.

Questa volta Lady Georgianna è ingaggiata da una famiglia del Devon, in una località  molto vicina al mitico Dartmoor col suo carcere e le sue paludi (abilmente sfruttate nella trama, com'era gistamente auspicabile) per fare da animatrice, lei aristocratica senza il becco di un quattrino che non può permettersi nemmeno un pranzo di natale decente, a una grande festa natalizia che riproduca esattamente quelle storiche Inglesi (evidentemente già demodè nel 1933, anno di ambientazione del romanzo), grandi festeggiamenti dal 20 dicembre al 2 gennaio, il tutto prosaicamente con ospiti paganti visto che anche la famiglia che organizza la cosa, lontanamente nobile, non se la passa bene.
Tutto sembra andare magnificamente; Georgianna viene a sapere che sua madre, attrice sempre sulla breccia, è in un cottage nelle vicinanze per scrivere una commedia nientemeno che col grande Noel Coward, e tra gli ospiti dei coniugi Hawse - Gorzley c'è anche il suo amato Darcy O'Mara, il suo pseudo-fidanzato nobile spiantato come lei sempre impegnato in misteriose missioni ai quattro angoli del globo.
Tutto, insomma, sembra mettersi al meglio; gli ospiti sono tutto sommato trattabili, il cibo abbondante e appetitoso, la neve copiosa assicura un bianco natale, e poi c'è Darcy; ma ovviamente dove c'è Georgianna c'è delitto, ed ecco che nell'immaginario villaggio di Tiddleton-under-Lovey  iniziano una serie di morti sospette apparentemente del tutto slegate tra loro. Pian piano si instaura un'atmosfera di sospetto e tensione (non tale da fermare però tutti i festeggiamenti tradizionali) e la povera Georgianna sarà sempre più coinvolta negli eventi, e in un finale molto teso e incalzante rischia veramente di lasciarci le penne e in modo anche poco simpatico.

Ora, naturalmente ho parlato di buon giallo, non di grande giallo, perchè i difetti ci sono eccome; alcuni aspetti soprattutto legati ai travestimenti dell'omicida  sono un poco campati in aria, e l'idea di accostare il modus operandi dei delitti a una filastrocca piuttosto nota in Inghilterra è ottima ma non viene sfruttata a dovere, si poteva avere una replica in piccolo di Dieci piccoli indiani (O dell'altrettanto suggestivo Dolce, vecchia canzone di morte di Stagge) ma la cosa non si è concretizzata. E poi è totalmente sbagliata la caratterizzazione di Noel Coward; poteva essere un valore aggiunto, ma invece il grande commediografo è stato reso in maniera tanto stereotipata da risultare più una caricatura che altro, un vero peccato.

In ogni caso questo romanzo, seppur natalizio ma uscito ad aprile per meri motivi logistici, è da leggersi perchè veramente divertente e interessante anche come documento, seppur posticcio (se volete uno scritto di prima mano sui grandi natali Inglesi, il must rimane sempre "L' Avventura del dolce di natale" della Christie) su come si svolgevano le festività nella vecchia Inghilterra. Visto che per qualche giorno è ancora in edicola, il mio consiglio è; compratelo e sparatevelo tra il 26 e il 27 dicembre, in piene festività natalizie; impossibile non struggersi dal desiderio di volere essere li col camino acceso, le sciarade e il Christmas pudding, magari quello che sarà il solito natale con +15 gradi e i soliti parenti caciaroni potrebbe acquistare un senso. Io, lo ammetto, sulle prime volevo fare così, ma la Bowen come detto è il mio guilty (ma non troppo...) pleasure ed è impossibile per me posporla.

venerdì 22 aprile 2016

"UNA TORRE PER IL PROFETA" DI MARGARET MILLAR.

Non so se visiterò mai gli Stati uniti. Sono attualmente fuori portata per il sottoscritto, sia economicamente che geograficamente, e poi alla fine sto tanto bene in Italia e preferisco spostarmi con la fantasia. Ma se mai decidessi di varcare l'Atlantico, vorrei visitare per prima cosa la California, fare tappa a San Francisco (il sogno proibito di ogni cultore dell'Hitchcockiano Vertigo) e poi spostarmi per paesi e campagne, in quella terra suggestiva e arida che ricorda in qualche modo la meravigliosa Sicilia, non solo per i vasti agrumeti.

Ma in un certo senso, in questa California rurale e sognante lontanissima da Beverly Hills e Sunset Boulevard vari, ci sono stato grazie alla grande Margaret Millar, forse la scrittrice di neri più eccentrica e raffinata mai esistita, che come il marito Ross MacDonald fece grande il poliziesco Americano, ma lo portò a vette letterarie raggiunte forse solo dal miglior Cain. La Millar coniugò la tradizione del noir, il suspense psicologico e il melodramma vittoriano stile Rinehart creando opere che, come "Occhi nel buio", "La porta stretta" "Sapore di paura"  "Uno sconosciuto nella mia tomba" e altre ancora resteranno dei classici immortali e irraggiungibili.



                                                                     Margaret Millar

Ma, tra tutti, il libro dell'autrice che ho più caro, e che ho letto già tre volte, è "Una torre per il profeta" un romanzo noto tra gli appassionati soprattutto per ciò che ne scrisse Chandler, che dichiarò che fosse la storia poliziesca coi personaggi più scombinati e strani che avesse mai letto. Non ho mai concordato molto con il Chandler saggista, ma stavolta non ho niente da eccepire.

                                                        Prima edizione del romanzo


La storia inizia con un detective spiantato e disincantato, di nome Joe Quinn, che si è giocato tutti i soldi che aveva in tasca a Las Vegas, e ora cerca di raggiungere la sua Los Angeles con mezzi di fortuna. Durante il suo viaggio rimane a piedi da qualche parte nella campagna sperduta, e nel suo girovagare si imbatte in una stranissima comunità pseudoreligiosa  che vive in un edificio sormontato da un'alta torre.
Questa gente, fricchettoni da comune ante-litteram, vive rinunciando alle gioie terrene, vestendo sai di ruvida tela e dedicandosi al lavoro agricolo e alla preghiera, una sorta di microcosmo (realtà diffusissime nell'America del tempo) dove tutti vivono in comunione con la natura, e si chiamano con nomi stranissimi come madre purezza, sorella contrizione o fratello corona di spine. La comunità è retta da un sinistro gran maestro, che impone la sua legge all'apparenza gestendo il suo gregge in modo amorevole, ma in realtà lo tiene spietatamente sotto il suo tacco, come accade in tutte le sette. Quinn, affamato e stanco, fa buon viso a cattivo gioco, e nonostante sia un "Pagano" la comunità lo accoglie  e lo ospita per la notte; durante il breve soggiorno, viene avvicinato da una donna di mezza età, sorella benedizione, che gli consegna un fascio di dollari che aveva conservato di nascosto e lo incarica di ritrovare un certo Patrick O'Gorman, misteriosamente scomparso anni prima.  Il detective, uomo d'onore come tutti gli eroi del noir a cominciare da Marlowe e Spade,  invece di prendere i soldi e fregarsene inizia a indagare sulla faccenda, iniziando un pericoloso e tragico viaggio nel passato che coinvolge anche la (presunta) vedova di O'Gorman (che puntualmente scioglie il cuore di ghiaccio di Quinn) e una donna incarcerata per frode; la pista di O'Gorman finirà poi per intrecciarsi in modo sinistro proprio con la comunità della torre, i cui membri, più che mossi da autentico spirito Francescano, sono li per fuggire dal loro passato...

Insomma, una vicenda ingarbugliata ma che scorre liscia come l'olio, e soprattutto piena di personaggi si eccentrici (e non solo tra i fedeli della comunità...) ma memorabili e ai quali si finisce per affezionarsi; ho sempre adorato, ad esempio, la ragazzina con l'acne che anela a tornare alla vita di tutti i giorni per..potersi comprare una "terrena" crema contro i brufoli, oppure la signora O'Gorman; nell'universo della Millar la fanciulla in pericolo è in realtà una donna segnata dalla vita e con prole a carico, ma a suo modo romantica e dolce come una young lady Vittoriana. E poi, come preannunciato, è un vero tour nella California anni cinquanta più autentica e rurale, fatta di campagne e cittadine tranquille (ovviamente solo in apparenza) non certo l'immagine più tipica che si ha di questo stato meraviglioso ma troppo legato alle sue metropoli e a Hollywood, delle cui altre bellezze si sa poco o nulla.

Un vero e proprio capolavoro del noir, da procurarsi solo nell'edizione dei classici del giallo n. 656 con la traduzione integrale di Maria Luisa Visentini Ottolenghi; la versione del Giallo Mondadori n. 772 , anche se ha una cover da urlo di Jacono, risulta essere tagliuzzata.

lunedì 18 aprile 2016

TRE ANNI DI BLOG!!!





Eccoci arrivati al terzo compleanno del mio blog, compleanno molto felice in quanto, dopo così tanto tempo, questo mio "figlioccio telematico" ha ancora tante persone che lo seguono, sia i fedelissimi della prima ora a cui vanno i miei sentitissimi ringraziamenti, che i nuovi aficionados che sperino diventino a loro volta veterani.
Questo ultimo anno, a parte gli ultimi due mesi di latitanza forzata, è stato abbastanza soddisfacente, in quanto ho cominciato a dare al mio blog la connotazione che mi ero prefisso, ossia uno sguardo a tutto tondo sul mondo del poliziesco e del Mystery senza dimenticare però i cari vecchi gialli Golden age dei quali mi ero occupato, in modo fin troppo monotematico, nei primi due anni. Nei prossimi mesi cercherò di spaziare su novità editoriali, film, fumetti e quanto altro per uno sguardo a 360 su misteri e dintorni, cercando di mantenere invariata la qualità dei miei scritti.

Un caro saluto a tutti coloro che mi hanno seguito, mi seguono e mi seguiranno. A presto!!

mercoledì 13 aprile 2016

"LA COLLERA DI NAPOLI" DI DIEGO LAMA.

Cari amici,

Rieccomi più gagliardo e pimpante di prima, si spera di non doversi assentare più almeno per qualche tempo.

Riprendo più o meno come avevo lasciato, ovvero parlando di autori Italiani; questa volta parliamo di un giovane autore contemporaneo, Diego Lama, e del suo romanzo vincitore dell'ultimo premio Tedeschi, un romanzo storico ambientato nella Napoli che recentemente ho avuto la fortuna di visitare e amare moltissimo.

Ora, non è che io mastichi abitualmente autori odierni perlopiù nostrani, ma a volte variare un poco la solita "zuppa Inglese" (o Americana) Può essere un diversivo molto piacevole, come in questo caso.

Si, perchè "La collera di Napoli", ambientato nella città partenopea  durante un'epidemia di colera scoppiata in un torrido Settembre del 1884, è un romanzo avvincente e potente, che avvince il lettore con ingredienti abbastanza noti ma molto ben amalgamati.





Intanto, come tutti i polizieschi Italiani, si introduce una ben delineata figura di Investigatore; il Commissario Veneruso è un detective panciuto e in la con gli anni abbastanza sui generis, incazzoso come Moltalbano e umano come Maigret, positivo ma senza essere molto simpatico; non un eroe romantico alla Marlowe, ancor meno macchina pensante alla Philo Vance, Veneruso è un uomo di acume che però non riesce a rimanere distaccato, a non farsi travolgere dal marciume che lo circonda.
I suoi agenti, questi molto "alla Montalbano" sono figure sulle prime abbastanza macchiettistiche, ma che acquistano uno spessore inaspettato via via che si procede con la lettura; insomma, nel commissariato della Napoli di fine ottocento ci sentiamo abbastanza a casa.
Ma come detto, il pregio del romanzo non è nelle novità, o in personaggi particolarmente indovinati; in questo caso, quello che conta è la storia, con un ritmo martellante che non conosce soste, e l'atmosfera splendidamente resa; sembra davvero di essere nella Napoli martoriata dal colera e dai funzionari Piemontesi del regno, una città che brama di vivere nel modo anarchico e indipendente da ogni potere che le compete, ma al tempo stesso non sa liberarsi dei suoi fantasmi passati e presenti.
Il caso poliziesco, alla fine, è abbastanza ben riassumibile; un gruppo di giovani ragazze, ospiti di un convento-ornanotrofio in pieno centro, vengono barbaramente uccise e i loro corpi ritrovati sul mare in condizioni pietose. Veneruso e i suoi capiscono ben presto che nel convento avvengono cose poco chiare, e anche se il canovaccio "Confessioni innominabili all'interno di un convento/istituto religioso" con relativi segreti e morbosità è stato sfruttato anche troppo, l'autore riesce comunque a imbastire una solida trama che disorienta con maestria il lettore, regalando un colpo di scena finale assai palpitante. Un giallo in piena regola, quindi, ma che non è  comunque il punto di forza principale del romanzo, che come detto risiede nell'atmosfera e in un'altra cosa; un miracoloso evitare i fin troppo facili stereotipi melodrammatici ai quali si presta ogni opera ambientata a Napoli; la città e i suoi abitanti sono credibilissimi, e anche l'ambientazione vagamente gotica e dark si adatta benissimo all'unica città Italiana che, insieme all'esoterica Torino, possa rivaleggiare con Londra come palcoscenico di vicende cupe e misteriose.

Insomma, questo "La collera di Napoli" non sarà certo un capolavoro, ma come opera prima di un autore ancora giovane è straordinaria; se il buongiorno si vede dal mattino, con Diego Lama abbiamo trovato un autore di prim'ordine. COnsigliato, a Napoletani e non.

giovedì 10 marzo 2016

ARRIVEDERCI A PRESTO...

Cari amici,

Per motivi sia personali che professionali devo temporaneamente sospendere l'attività su questo blog; purtroppo la vita talvolta è tiranna, e non ci consente di dedicarci alle nostre passioni. Conto, dopo metà Aprile, di tornare a pieni ritmi a pubblicare nuovi articoli. Nel frattempo, un caro saluto a tutti i miei lettori.

Omar.

venerdì 26 febbraio 2016

IN MEMORIA DI UMBERTO ECO; "IL NOME DELLA ROSA".


La recente scomparsa di Umberto Eco ha lasciato non solo un vuoto culturale enorme (l'autore era ancora attivo e aveva molto da dare, ed inoltre era l'unico autore nostrano che ancora poteva aggiudicarsi il premio Nobel per la letteratura, ormai una chimera in perpetum) ma ha lasciato soli anche due generazioni di lettori (ce ne sarà una terza?) che, per piacere o per pura sfida letteraria, hanno affrontato i suoi libri.
Ho molto caro Umberto Eco, perchè  rappresenta una tappa importante nella mia vita letteraria, ovvero la prima sfida vinta con i libri "Impegnativi"; all'abbastanza tenera età di tredici anni e mezzo, durante la terza media, folgorato dal film di Annaud (che rivisto ora non è questo gran che, ma all'epoca mi avvinse per le atmosfere gotiche innegabilmente ben rese) mi recai nella biblioteca di Casalguidi (il mio paesello natio, provincia di Pistoia) e ne reperii l'unica copia disponibile. Sulle prime, pensai di gettare la spugna; citazioni di un Latino che mi era del tutto estraneo (e anche ora non è che gli dia del tu...) la visione di Adso nel portale che mi confuse, nozioni storiche abbastanza pesanti; ma, proprio prima del ko, il libro finì per avvincermi, e lo terminai proprio uno o due giorni prima del mese a disposizione.


Negli anni l'ho riletto varie volte, e a ogni nuovo incontro con questo testo favoloso trovo nuove sfumature, cose che mi erano sfuggite oppure avevo dimenticato, e mentre leggo una parte di me rievoca ancora il preadolescente che muove i primi passi nel sentiero sfavillante della cultura letteraria. Poi, negli anni successivi, ho letto altri suoi romanzi, dal "Pendolo di Foucault" che si, come si sa è abbastanza ostico ma se si arriva fino in fondo ci si accorge che forse è addirittura superiore al Nome della rosa, o ancora l'incantevole "L'isola del giorno prima" romanzo che è piaciuto a pochi ma che ho adorato proprio per quella sua aria fintamente snob ma in realtà giocosissima, per quel suo rifarsi agli scatenati  testi narrativi avventuroso-illuministici alla Voltaire; così come è eccezionale la scanzonata epica medievale di "Baudolino", fino alla "Misteriosa fiamma della regina Loana", libro grazioso e senza troppe pretese dove un uomo affetto da amnesia cerca di ricostruire il suo passato attraverso le sue letture di fanciullo (potrei farlo anch'io un giorno, chissà), Poi ho perso interesse, e gli ultimi due romanzi non li ho ancora letti, ma forse è il momento di cominciare a recuperarli.

In ogni caso il romanzo più  famoso di Eco resta il primo, quello più letto, amato, citato anche dai giovani lettori; infatti, almeno negli anni novanta Il nome della rosa (assieme a L'insostenibile leggerezza dell'essere e Il giovane Holden)  era forse il romanzo prediletto dai liceali che volevano "darsi un tono", cosa più che capibile, visto che lo facevo anch'io.

La trama del libro è abbastanza nota; l'acutissimo e molto stimato frate Francescano Guglielmo da Baskerville (L'omaggio al capolavoro di Conan Doyle è ovvio e voluto) , un'autorità religiosa dall'oscuro passato, si reca col novizio a lui affidato, il Benedettino Adso da Melk, in una imponente abbazia "della quale è bene tacere anche il nome" da qualche parte nel nord  Italia; in essa si consumano una serie di morti misteriose legate a un'oscura profezia apocalittica, e Guglielmo sembra proprio la persona adatta a sbrogliare l'intricatissima matassa; chiave del tutto è un misterioso libro gelosamente custodito nell'inaccessibile biblioteca dell'abbazia, un libro che avrebbe un potere terribile...

Inutile raccontare di più, questo è il classico libro che chi lo ha letto ricorda benissimo, e chi non lo ha letto deve saperne il meno possibile per non rovinarsi il piacere di una lettura di rara bellezza sotto tutti i registri, ovviamente non classificabile come giallo puro ma più come romanzo storico- politico, pamphlet filosofico, commedia di costume dell'epoca e molto altro; tanti generi frammisti che ne rendono impossibile ogni classificazione, destino di tanti grandi libri.

In ogni caso, che Il nome della rosa sia anche un grande thriller, è fuori discussione; una serie di morti impossibili e grandguignolesche da far invidia a Fantomas o al primo Carr dei romanzi di Bencolin; spiegazioni dei delitti abbastanza improbabili come vale per quasi tutti i grandi gialli, ma in ogni caso plausibili e non di rado geniali; atmosfera gotica opprimente come raramente accade, tutti i topoi del medioevo tenebroso sono sfruttati con calcolata maestria, e il romanzo riesce davvero a dare quei piacevoli brividi quasi da horror che in fondo ogni vero lettore di gialli apprezza.

Certo, se si asciuga il romanzo dalle digressioni storico-filosofico-mistico-romantico- scientifiche per cercare il puro thriller, esso non sarebbe più lungo di un normale romanzo della Christie; ma, come scrisse lo stesso Eco a proposito del Conte di Montecristo di Dumas, è proprio a causa di ciò che la grande macchina romanzesca funziona, ci sono opere splendide proprio perchè sembrano eccessive, perchè paiono squilibrate e disorganiche e cambiano continuamente registro narrativo; lo stesso Eco rimane forse il romanziere contemporaneo d'intrattenimento (perchè, non dimentichiamolo, i libri di Eco sono di alta fattura e piuttosto impegnativi, ma restano opere d'evasione) più caotico e disorganico, ma mai (o quasi) un caos fine a se stesso, per dimostrare al pubblico quanto è colto, cosa che puntualmente fanno notare i moltissimi suoi detrattori; tutto, almeno nel nome della Rosa, funziona perfettamente al fine di realizzare non tanto un affresco quanto un imponente e splendido arazzo, con innumerevoli robusti fili che creano una struttura di grande robustezza e finezza al tempo stesso.

Insomma, un capolavoro della letteratura tout-court che è anche una delizia per noi giallofili, con innumerevoli tentativi d'imitazione (ha aperto un vero e proprio filone) che mai avranno la bellezza del grande capostipite: lo si ami o lo si odi, di Umberto Eco ce n'era  solo uno, unico e, ahimè, credo ineguagliabile. Ciao, Umberto, e grazie di tutto.