giovedì 27 novembre 2014

"IN UNA SERA DI PIOGGIA" DI MARY FITT.


 
Riguardo all'Americana Mary Fitt, caso non raro di autrice apparsa poco e male nei vecchi GM e poi dimenticata per decenni  fino all'intervento di san Polillo, una persona con molta più esperienza e competenza del sottoscritto ha asserito che è un'autrice di talento ma "eccentrica e quasi folle". Ora che anch'io la conosco, non posso che concordare appieno. L'anno scorso avevo letto "I tre corni da caccia" e lo avevo trovato piacevolissimo nella prima parte e poi completamente sgangherato e bizzarro, roba da far impallidire Farjeon, nella seconda. Nel complesso non mi era dispiaciuto ma mi aveva lasciato perplesso, e senza una grande voglia di proseguire nella scoperta dell'autrice. Ma quando, lo scorso mese, ho visto tra gli scaffali questo "Death and the pleasant voice" romanzo del 1946 già apparso in italia, sforbiciatissimo, col titolo "Il diavolo in campagna", una vocina mi ha detto di prenderlo, e ho eseguito. E bene ho fatto, perchè me lo sono letto la sera stessa tutto d'un fiato, e stavolta l'impressione è stata assai più positiva.


una sorridente autrice


Dunque, partiamo dal presupposto che la Fitt tiene alta la sua fama di eccentrica e imbastisce una vicenda che sembra uscita dalla penna di Paul Halter; se il paragone col grande, funambolico autore contemporaneo transalpino può sembrare abbastanza azzardato, a parer mio è invece calzante per due motivi; si narra una storia totalmente assurda e inverosimile e quasi sfrontata nei confronti di chi legge, ma che ti prende alla gola già dalla prima pagina e non ti molla più fino alla fine.
 
 

La  trama è talmente contorta e bizzarra che posso narrarvi solo l'inizio; il giovane studente in medicina Jake Seaborne sta percorrendo la campagna Inglese e ha un guasto all'auto nei pressi di una magione imponente e sinistra. Piove a dirotto e lo studente ovviamente chiede ospitalità nella villa, e si trova di fronte un eterogeneo gruppo di persone, la famiglia Ullstone, che lo accoglie come se fosse un ospite a lungo atteso. Ovviamente c'è uno scambio di persona, aspettano un altro, un ragazzo di nome Hugo del quale nessuno sapeva niente e che ora è erede della magione e dei quattrini della famiglia. Questo Hugo è ovviamente odiato da tutti loro, c'è perfino chi lo vorrebbe morto pur non avendolo ancora mai visto. A questo punto il giovane Seaborne viene pregato di restare, da esterno forse potrà essere "arbitro" di una contesa imminente e che si preannuncia senza esclusione di colpi...

Stop. Inutile raccontare oltre, inutile dare nomi, perchè siamo alla fiera di ciò che sembra e non è, delle persone che non sono coloro che dicono di essere, degli angeli che sembrano diavoli e dei diavoli che paiono angeli; questo è un libro che va gustato senza alcun pregiudizio, solo per purissimo divertimento. Non cercate di capirci qualcosa, è impossibile prevedere i colpi di scena, talvolta superbi, sempre dietro l'angolo. Queste sono due ore (o tre se siete più lenti) di lettura al fulmicotone possibilmente  in una sera piovosa come quella del titolo (sotto al plaid i deliziosi  brividi derivati da una lettura gradevole si assaporano meglio), e se qualche giorno dopo non si ricorda quasi niente dell'intreccio o dei personaggi è perchè lo si è letto tanto velocemente da non avere il tempo di fissare niente nella memoria.

Quindi, in definitiva, questa Mary Fitt era una grande autrice oppure no? averla riscoperta è stato un qualcosa di doveroso o una pura perdita di tempo? mah, alla fine non lo so, forse la letteratura poliziesca poteva fare benissimo a meno di questo libro e anche dei "Tre corni da caccia", ma non il lettore che grazie a essi si è divertito. Per cui, ancora una volta, grazie Polillo editore. E speriamo in un terzo libro dell'autrice...

giovedì 13 novembre 2014

“ARSENICO” , DI RICHARD AUSTIN FREEMAN.


Di Austin Freeman ho già parlato in precedenza, ma amo ripetermi. E’ stato un grande giallista e anche fortunato, visto che  nei primi anni dieci in cui esordì non c’era una grande concorrenza come nei decenni successivi, cosa che gli permise di dominare la scena per molto tempo. Visse due stagioni creative distinte, la prima, la più celebrata, tra il 1907 e il 1914, poi riprese  a scrivere nel 1922 e pubblicò in maniera abbastanza feconda fino al 1942.

I primi romanzi dell’autore sono i più famosi e ristampati, anche perché in un qualche modo rivoluzionari; con la figura del dottor Thorndyke si inaugurò l’era del giallo scientifico, degli indizi vagliati con metodi scientifici, passati ai raggi X e trattati con soluzioni chimiche; negli ultimi romanzi dell’autore la figura dell’anatomopatologo intelligentissimo e bello come una divinità Greca risulta forse abbastanza datata, ma è un dato innegabile che per decenni essa rimase ineguagliata. E per uno volta lo slogan che si legge ogni volta che si ristampano le avventure di Thorndyke, ovvero “L’antenato di Kay Scarpetta” è abbastanza veritiero e pertinente, anche se in Freeman non troverete mai la morbosità e dettagli troppo raccapriccianti dei thriller contemporanei.

“Arsenico”, il romanzo di cui parlerò in questa occasione, fu pubblicato per la prima volta nel 1928 (titolo originale; As a thief in the night) e per qualche ragione inspiegabile non è famoso come “L’impronta scarlatta” o “L’occhio di Osiride” o ancora “Il testimone muto”; peccato mortale, perché Arsenico è un vero e proprio capolavoro, un romanzo di una bellezza che toglie il fiato e perfettamente compiuto in ogni sua componente.

La storia all’inizio è abbastanza ordinaria; muore un uomo di 57 anni, Arnold Monkhouse, dalla salute precaria e invecchiato prematuramente. Apparentemente sembra una morte come tante, ma il fratello del defunto, un reverendo, ordina un’autopsia del cadavere, e nello stomaco di esso viene trovato l’Arsenico citato nel titolo. Siccome il morto faceva una vita molto ritirata e non riceveva nessuno, i soli sospettati sono la moglie Barbara, ancora giovane e bellissima, Magdalene, una fanciulla da lui adottata seppur mai legalmente, il segretario- factotum cocainomane e innamorato pazzo di Barbara e infine il protagonista e narratore, l’avvocato Rupert Mayfield, un grande amico d’infanzia di Barbara, a cui lo legava e lo lega tuttora un rapporto di grande affetto, reso tale anche dalla comune perdita di Stella, un’orfana (come Magdalene…) adottata dal padre di Rupert e che formava con quest’ultima e Barbara un trio inseparabile, un grande affetto che si sgretolerà solo dopo la dipartita di Stella causa TBC.

E’ chiaro fin da subito che il colpevole è uno degli intimi del morto, e anche Mayfield stesso è tra i sospetti; e quest’ultimo, per ottenere chiarezza, consulterà il suo amico dottor Thorndyke, che porterà alla luce una verità agghiacciante e dolorosissima, che lascerà un segno indelebile nella vita dei protagonisti.

Nella prima parte del libro assistiamo all’esposizione in tribunale di tutto il  caso; si espongono con disinvoltura dettagli abbastanza inusuali per il periodo come le condizioni dei tessuti muscolari, il contenuto dell’interno dello stomaco e l’esame delle feci del morto; il tutto con estremo tecnicismo, sempre però interessante e rilevante ai fini della trama.

Ma Freeman era uno scrittore di troppo spiccata sensibilità per limitarsi a scrivere un thriller legal-procedural freddo e impersonale, e infatti alterna alle crude descrizioni passaggi idilliaci tra i vari protagonisti, confessioni amorose sussurrate a bassa voce, dolcissimi ricordi del passato perduto e soprattutto quelle meravigliose passeggiate nella Londra del tempo che sono una vera e propria cifra stilistica dell’autore. Si arriva ai capitoli finali senza il minimo sbadiglio e sempre più desiderosi di conoscere lo scioglimento  della vicenda, anche se, come detto, esso sarà pieno di amarezza e non conoscerà consolazioni di sorta, anche per colpa del granitico Thorndyke, amante della giustizia e della verità a ogni costo, ma in questa occasione  pecca di eccessiva fede in essa, palesando dettagli che forse era meglio tacere; luce completa sul caso, ma ombre nella vita futura di più di un protagonista.

Apparso per la prima volta nelle palmine col numero 107 (l’edizione in mio possesso) e ristampato in anni recenti nei classici, “Arsenico”  è un romanzo eccezionale che ogni giallofilo dovrebbe avere nella sua biblioteca, un’opera d'arte senza mezze misure.

 

PS la copertina di Abbey per l’edizione anni trenta è bella ma un poco “spoilerosa” e quindi ho deciso di non pubblicarla.

martedì 11 novembre 2014

"DELITTI DI SETA" DI ANTHONY BERKELEY.


Credo che tutti i giallofili concordino con me sul fatto che Anthony Berkeley Cox (assieme a John Rhode, Henry Wade e Richard Austin Freeman) meriterebbe una fama ben maggiore di quella che ha e un posto in quell’olimpo occupato da quelle 4 o 5 divinità la cui opera e la cui memoria è tramandata con più “spinta” alle nuove generazioni. Se Agatha Christie e Conan Doyle li conoscono anche i bambini, se Chandler e Hammett sono emblema di un’epoca, se Ellery Queen e Carr sono i beniamini di coloro che amano i virtuosismi del poliziesco, Berkeley e gli altri sopra citati si ricordano poco e male; sconosciuti ai non appassionati del genere, ignorati dalla grande comunicazione mediatica, in pratica bisogna andarseli a cercare con fatica e sudore. E anche se Berkeley , grazie a Mauro Boncompagni e la redazione del GM odierno, viene riproposto spesso anche con inediti, la sua fama resterà per sempre circoscritta agli amatori.

Peccato, è come avere un Platini o uno Zidane e farlo giocare in serie B, tanto per capirsi. Se fossi nello staff della Mondadori mi batterei per ristampare Berkeley negli oscar, memore della felicissima, recente riproposta dei romanzi di Josephine Tey.
 

Un esempio della grandezza di Berkeley è questo misconosciuto “Silk stocking murders” Pubblicato nel 1928 e quarto romanzo con protagonista l’originalissimo scrittore e investigatore dilettante Roger Sheringham, che nel corpus dei detective del poliziesco fa storia a se; uomo molto diretto, quasi rozzo, senza quegli orpelli e quei vezzi che facevano tendenza all’epoca; in pratica, nella sua normalità, Sheringham al tempo era quasi rivoluzionario, perché un uomo della strada ai tempi dei Poirot o Van Dine non era roba da poco.

Ma Berkeley con questo romanzo crea anche uno dei primi archetipi sul tema dei delitti seriali; ben prima de “La serie infernale” e  “Il gatto dalle molte code” l’autore ci presenta infatti un assassino che uccide alcune giovani donne con la stessa inquietante modalità (le impicca con una calza tolta alla vittima stessa; notare la componente erotico-fetish per l’epoca abbastanza forte), vittime che apparentemente non hanno alcun nesso tra loro, che appartengono a ceti e ambienti assai diversi (un’attricetta, una prostituta, una lady ricca e snob) e hanno in comune solo il fatto di essere cadute nella trappola di un diabolico assassino che si aggira nel formicaio Londinese.

La polizia, assai miope, pensa che i primi omicidi del maniaco siano solo banali suicidi. Ma Sheringham, che tramite il quotidiano di cui cura la pagina di cronaca nera ha ricevuto una pietosa lettera dal padre di una delle ragazze scomparse, inizia a indagare su tutta la faccenda e capisce subito che le coincidenze tra i delitti sono troppe, e intraprende quindi un’indagine molto complicata, coadiuvato da amiche e  parenti delle donne uccise (bellissima l’amicizia che nasce tra Sheringham e Anne Manners, una timida ma risoluta ragazza di campagna sorella della prima vittima) e dopo un certosino procedimento di eliminazione dei sospetti giunge all’individuazione del colpevole, che smaschererà in un finalone di grande suspense.

Il ritmo del libro, è giusto sottolinearlo, è abbastanza lento; somiglia in questo a un romanzo di Austin Freeman o di Crofts, ogni indizio viene vagliato, ogni coincidenza verificata con un’attenzione estrema; ma in questo caso lento non significa noioso, perché Berkeley sa sempre tenere desta l’attenzione, riuscendo a intrigare anche il lettore più superficiale, e col passare dei capitoli l’empatia verso i personaggi aumenta, ci sentiamo a disagio per come possa andare a finire; ed è proprio in quel senso di disagio che si avverte la grandezza di questo splendido ibrido di giallo classico e thriller puro, purtroppo disponibile nella sola edizione dei classici del giallo n. 846, e ottimamente tradotto da Mauro Boncompagni, grandissimo esperto dell’autore che ha curato anche le recentissime ultime uscite dei romanzi dell’autore nei GM.

Un libro bello quanto importante, assolutamente da avere e da leggere, come tutti gli altri Berkeley.