lunedì 28 settembre 2015

"SHERLOCK JR." (LA PALLA NUMERO 13) DI BUSTER KEATON.


C’erano i comici, e c’era Buster Keaton. Ormai forse irrimediabilmente “Pezzo da museo” per le nuove generazioni, gli fu negata la fama imperitura di un Chaplin a causa, forse, di non essere passato indenne dal muto al sonoro (anzi, la parola su pellicola fu la causa della sua repentina caduta, aggravata anche da crisi depressive e abuso di alcoolici, un destino peraltro comune a tante stelle del muto) ma i suoi film, se da un lato non hanno la poesia eterna di quelli Chapliniani, come costruzione e livello delle singole gag possono non solo competervi, ma talvolta sono da ritenersi superiori. Ma come tanti altri grandi Buster Keaton non si è purtroppo meritato l’immortalità, e per questo sempre più persone si perderanno degli autentici capolavori.

Keaton conobbe il suo periodo di gloria negli anni venti, dove davvero lui e Chaplin, rivali e amici al tempo stesso, erano impegnati in un continuo botta e risposta a suon di film memorabili. Di Keaton le opere eccellenti sono molte (One Week, Neighbors, Convict 13, The Playhouse, The electric house, Seven Chances, Our ospitality, The General, The Navigator, The Cameraman) ma nessuno si avvicina, per singolarità e perfezione, al suo terzo lungometraggio datato 1924, ovvero “Sherlock Jr.”  noto (ma lo sarà davvero?) in Italia con titolo un po naif di “La palla numero 13”.
 
Locandina originale.
 

Il suo essere infatti, almeno nelle sequenze iniziali, una gustosa parodia del detective creato da Conan Doyle giustifica la presenza su questo mio blog, anche se ovviamente il film non è da intendersi come un vero e proprio poliziesco, anzi è difficilissimo racchiuderlo in un genere, tante sono le trovate e i cambi di registro in soli 45 minuti di pellicola.

 
 
La sequenza di apertura vede l’imperturbabile e versatile Buster (Se il personaggio di Chaplin era un patetico gagà Londinese caduto in disgrazia, quello di Keaton simboleggiava invece il self-made-man Americano del tempo, intelligente e pieno di iniziative che falliranno quasi sempre per cause indipendenti dalla propria volontà)  che studia con interesse un volumetto dal titolo “come diventare detective” e lo vediamo, serio e diligente, con lente d’ingrandimento e un paio di baffoni posticci più alla Watson che non alla Holmes; il primo compito dell’aspirante segugio sarà quello di ritrovare un dollaro perduto da una signora; lui lo vede in mezzo a delle cartacce, ma giustamente non si fida e chiede alla donna di…descrivere il dollaro, e quando la signora, senza fare una piega, ne da una descrizione esatta non le resta che consegnarglielo.

Poi il giovane Buster si reca dalla sua innamorata, ma un altro infido pretendente della ragazza fa ricadere su Buster un’azione infamante compiuta ovviamente da lui stesso, ossia aver sottratto un oggetto al padre della ragazza per portarlo al banco dei pegni; il povero Buster, scacciato, decide di indagare sul rivale per riabilitare il suo onore (si anticipa di qualche anno il tema dell’innocente ingiustamente accusato che cerca di aiutarsi da solo tanto caro a Hitchcock) ma dopo un esilarante pedinamento  “ a francobollo” il povero ragazzo (e Keaton lo era davvero, visto che all’epoca non aveva nemmeno 30 anni!!) non conclude niente.

La celebre sequenza dello sdoppiamento, da "realtà" a finzione.
 
 
Avvilitissimo, Buster torna al cinema dove lavora come tuttofare, e mentre proietta il film del giorno si addormenta e…entra nel film che si sta mostrando, per una sequenza leggendaria che è il primo esempio di “film nel film”. Dopo un fantastico excursus onirico nei vari generi cinematografici che fece la gioia di Bunuel e dei Surrealisti ( illustri Keatoniani della prima ora) Buster capita in una storia che riecheggia quella da lui vissuta nella “realtà”. Ci sono una bella ragazza e suo padre (l’innamorata di Buster e il genitore), un infido pretendente (il rivale) che, in combutta col maggiordomo, ruba una preziosa collana. Il padre allora chiama il formidabile, infallibile detective Sherlock Jr. ovviamente lo stesso Keaton, terrore di tutti malfattori. Il grande investigatore entra in scena con la tracotanza e la sicurezza che tanto vorrebbe avere il vero Buster, invitando i presenti a non spiegare niente perché per lui quello è un caso semplice. Infatti, subito dopo, una didascalia avverte che dopo pochi minuti “Sherlock Jr.ha già capito tutto e risolto il caso… a parte ritrovare la collana e arrestare i colpevoli”. Questi ultimi, nel frattempo, escogitano vari modi per eliminare il pericoloso (almeno di fama) detective con trucchi sempre più ingegnosi, non ultimo una palla da biliardo (la palla numero 13 del titolo Italiano) imbottita di esplosivo. Scampato miracolosamente a tutti gli attentati, la situazione finalmente precipita e, dopo rocambolesche peripezie, il caso viene risolto e Buster/Sherlock Jr. trionfa…e anche nella realtà le cose vanno verso un lieto fine; la ragazza infatti ha scoperto la verità e si reca al cinema dove rassicura Buster; tutto andrà per il meglio, per una volta, anche nella vita e non solo al cinema.

 
Questa la trama, che però non rende assolutamente tutta l’originalità, l’inventiva e il ritmo trascinante di questo autentico gioiello, riconosciuto anche dalla critica come un vero capolavoro (tra l’altro è uno dei pochi “cinque stelle” del severissimo dizionario Morandini…) una vera opera d’arte a livello visivo e una profonda, quasi Pirandelliana riflessione su verità e finzione. E poi, a stretto rigore, un enigma poliziesco è presente, e i momenti di suspense ( i vari tentativi dei cattivi di eliminare Sherlock Jr.) ci sono e sono gestiti ottimamente, e quindi anche gli amanti del poliziesco troveranno di che andare in sollucchero.

Ricordo a chi volesse visionare il film che esso è di pubblico dominio come tutta l’opera di Keaton; eccovi il link ( e se vi piace, divertitevi a visionare gli altri titoli che vi ho consigliato..);
 
 

giovedì 10 settembre 2015

LE REGINE DEL SUSPENSE; VIAGGIO NELLA NARRATIVA DEL BRIVIDO AL FEMMINILE.


E' esistita un'epoca che oggi inizia ad essere meno ricordata di quanto meriti e che forse non sarà mai mitica come la Londra di Sherlock Holmes o le metropoli USA durante l'epoca del proibizionismo e dei gangsters, ma che per il sottoscritto esercita un fascino irresistibile; parlo dell'America degli anni cinquanta, quella dell'ultima epoca veramente felice prima del Vietnam, con i Drive-in e i Drugstore, con automobili chiassose lungo statali interminabili, con i grandi magazzini dove lavorano commesse graziose ed emancipate dalla vita sentimentale e sessuale libera: l'America che si può vedere in "Psycho" di Alfred Hitchcock, capolavoro anche come testimonianza di un'epoca, oppure in tanti episodi di "Ai confini della realtà" o "Alfred Hitchcock Presenta" ; piccole città linde e operose, gente appagata e felice (all'apparenza, ovviamente)  in quegli anni fatati di Boom economico, che qualche anno dopo raggiunse anche l'Italia.
 
 

Erano anni di grande fermento anche per la narrativa poliziesca; dopo gli esordi ultra-deduttivi fedelissimi alla scuola Inglese di Van Dine, Queen e Carr, il giallo Americano cominciò a prendere coscienza delle potenzialità offerte da un tale variopinto Background culturale, e a iniziare a volare con le proprie ali; prima Hammett, poi Chandler, senza dimenticare l'importantissimo apporto di Erle Stanley Gardner, resero il poliziesco made in U.S.A. mitico e inconfondibile quanto il Rock'n roll e gli Hot dog.

Ma in questa "rivoluzione culturale giallistica" Presero egregiamente parte anche le donne, contribuendo in maniera massiccia (anche se meno ricordate dei colleghi uomini...) a definire il genere; le autrici, in particolare, si specializzarono in quel sottogenere che sono le storie di Suspense psicologica, racconti sul filo del rasoio basati soprattutto sullo sgretolamento delle certezze della  donna del ceto medio-alto, che di solito, sposata o meno che sia, conduce una vita serena e protetta e di colpo si trova ad affrontare minacce sconosciute e terrorizzanti spesso originate da insospettabili, da coloro che dovrebbero proteggerle e garantire loro quella vita serena a cui anelano; in pratica una variante dell'eroina in pericolo di stampo Vittoriano, ma in un mondo rassicurante in modo quasi artificioso nel quale la destabilizzazione dell'ordine risulta ancora più amplificata.

Questo filone, chiamiamolo del "female suspense" prese piede negli anni sottilmente inquieti del secondo conflitto mondiale, durante i quali la vita della provincia Americana scorreva tranquilla e placida ma molti giovani erano a morire come mosche al fronte, pericoli lontani e parzialmente ignoti ideali per alimentare più o meno vaghe apprensioni, e terminò alla fine degli anni sessanta quando il giallo venne prepotentemente riportato a una dimensione più violenta e metropolitana e dove  tensioni e conflitti ben più palpabili sostituirono le sottili inquietudini degli anni precedenti.

Come in ogni sottogenere, ci furono alcuni capolavori, qualche decini di ottimi romanzi, molti altri discreti o pessimi. E ci furono le grandi specialiste, con alcuni calibri davvero importanti.

Ma andiamo a vederle con ordine, le autrici chiave. Per chi scrive, la prima grande esponente fu la misconosciuta Elizabeth Sanxay Holding, che scrisse non il primo romanzo di suspense  ma il primo capolavoro assoluto, ossia lo splendido "The Blank Wall"  tradotto come "Una barriera di vuoto" , romanzo del 1947 che costruisce l'archetipo perfetto della situazione ideale del genere; tipicissima moglie e madre Americana con marito al fronte che, sola e indifesa, per colpa di una leggerezza dell'irrequieta figlia si trova a fronteggiare personaggi loschi e pericolosi dei quali non avrebbe mai, fino a quel momento, nemmeno sospettato l'esistenza. Tensione  sempre mantenuta altissima in modo magistrale, situazioni al limite dell'assurdo, continui colpi di scena e voltafaccia e finale catartico  da manuale; questo romanzo, amato da Alfred Hitchcock che lo incluse nella raccolta nota in Italia come "I terrori che preferisco" e pubblicato anche da Sellerio, DEVE essere letto dagli appassionati.
 
 

Gli anni quaranta videro anche l'ascesa di colei che resta la più importante esponente del genere, ovvero  Margaret Millar, immensa e tormentata narratrice di storie del brivido che sta al pari di Cornell Woolrich per la capacità di trasformare in un pezzo di ghiaccio la spina dorsale del lettore, ma che per farlo non ha bisogno di creare situazioni completamente assurde e prive di ogni logica come l'illustre collega, limitandosi spesso a esplorare i mostri della mente malata, riuscendo a ottenere situazioni terrorizzanti col minimo degli artifici. Leggere per credere gli splendidi "Sapore di paura" (noto anche come "La cancellata" e con questo titolo incluso in un'altra delle raccolte Hitchcockiane edite a suo tempo da Feltrinelli, ossia "Racconti per le ore piccole") "Occhi nel buio", "La porta stretta", "Una torre per il profeta" e quello che forse è il suo capolavoro assoluto, "Uno sconosciuto nella mia tomba", romanzo del 1960 che è  la summa della sua poetica.
Margaret Millar
 

Altra grandissima scrittrice dalla vita problematica quanto quella della Millar è Patricia Highsmith, maestra del thriller cinico e fatalista e forse inclassificabile in un qualsiasi filone, della quale non ho ancora letto moltissimo ma ho nel cuore un suo romanzo, lo splendido "Carol" di cui è imminente la versione cinematografica con Cate Blanchett e Rooney Mara, storia forse non di pura suspense (anche se gli elementi del genere non latitano certo) ma indispensabile, magistrale ritratto dell'America dell'inizio degli anni cinquanta, con la giovane protagonista che lavora in un grande magazzino nel quale incontrerà una donna bellissima ed enigmatica della quale, pian piano, si innamorerà. Eh si, proprio un amore tra due donne negli USA perbenisti del tempo, libro scottante che fu pubblicato sotto pseudonimo nel 1952 dalla giovane autrice e che girò in modo "Clandestino" per molti anni; si spera che il film abbia successo e faccia finalmente conoscere questa meraviglia al grande pubblico.
 

Una giovane e bella Patricia Highsmith, e una cover di Carol
 

Negli anni Quaranta si impose anche il talento cristallino di Vera Caspary, autrice dell'immortale "Laura" reso immortale dalle versione cinematografica con Gene Tierney e Vincent Price (da noi nota come Vertigine)  e che scrisse pochi ma ottimi romanzi dello stesso genere fino al 1979, quando col superbo "Il segreto di Elizabeth" (devo decidermi a rileggerlo e recensirlo a parte, perchè merita) chiuse in modo sopraffino la sua carriera; davvero un peccato che in Italia non si siano tradotti più di  4 o 5 titoli di questa scrittrice davvero notevole.
 

Negli anni cinquanta, col sottogenere ormai definito, presero piede altre autrici di grande bravura, tra cui quella che forse, pur non avendo all'attivo grandi capolavori come quelli sopra citati, rappresentò al meglio questo filone con molti titoli di qualità medio-alta che non tradiscono mai; sto parlando di Ursula Curtiss, per la quale ho un vero debole. I suoi romanzi ad altissimo tasso di suspense, con un dramma che spesso nasce tra le rassicuranti mura domestiche (demolendo quindi il mito della "Home sweet home" Americana)  tendono a somigliarsi un poco tra di loro, ma riescono sempre ad essere eccitanti grazie a una scrittura collaudata in modo egregio. Per chi scrive, il libro del cuore dell'autrice è "Orrore" ma sono molto belli anche "Uno di noi deve morire", "I fantasmi della signora Marrable" e "Morte di un corvo" ma volete un consiglio? se avete in casa un qualunque romanzo della signora Curtiss provate a leggerlo, sarà comunque un titolo degno di nota.
 
Merita una menzione anche Edna Sherry, scrittrice "arrabbiata" e cinica che negli anni cinquanta e sessanta scrisse alcuni ottimi romanzi, dei quali il più famoso è senz'altro "So che mi ucciderai" (Sudden fear) da cui venne tratto il film omonimo con Joan Crawford e Jack Palance.

 
 
Autrice poco prolifica ma molto dotata era anche Lucille Fletcher, che più che scrivere romanzi collaborò con il cinema (il celebre "Il terrore corre sul filo" con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster, fu tratto da un suo radiodramma) e la nascente televisione del tempo, regalandoci vere perle come lo splendido episodio di Ai confini della realtà dal titolo "L'autostoppista" assolutamente imperdibile.

In Italia sono noti solo quattro suoi romanzi, di cui il migliore è senz'altro "Ossessione senza fine" angosciante storia in cui durante una crociera un medico si trova a dover avere a che fare con un'inquietante fanciulla che avrebbe il dono di ricostruire il passato delle persone solo guardandole; situazioni assurde e deliziosamente minacciose, tensione altissima e un finale agghiacciante e perturbante; un must. Anche "Morte presunta" e "La morte aveva i suoi occhi" sono buoni, ma non raggiungono il fascino di "The girl in cabin B-54".
Lucille Fletcher
 

Quelli della Fletcher sono, purtroppo, gli ultimi romanzi degni di nota del filone, che giustamente avrà una sua fine. Ma attenzione che il prossimo mese, nella collana dei classici del giallo Mondadori, uscirà quella che promette di essere una vera chicca di questo sottogenere, ossia "Incubo" di Anne Blaisdell, pubblicata a suo tempo nella collana delle tre scimmiette Garzanti e finalmente riproposta; si tratta di un romanzo del 1962, finalista del premio Edgar, dove a quanto pare c'è una dolce e innocente fanciulla che finisce nelle grinfie di una diabolica aguzzina...
 
...Più "female suspense" di così, che volete?

martedì 8 settembre 2015

"INTRIGO IN COSTA AZZURRA" DI RHYS BOWEN.


Parliamo, per una volta, non di uscite antidiluviane  ma di un giallo ancora fresco di stampa nelle edicole, che ho subito comprato (e letto in appena due sere) per l’enorme affezione che ormai mi lega a questa autrice Gallese classe 1946, per combinazione l’anno di nascita ( o meglio, della rinascita) della collana poliziesca più prolifica e importante di sempre.

Nei giorni scorsi la stessa redazione del GM ha dichiarato che la Bowen è l’autrice in assoluto più venduta attualmente nella collana. In molti si sono chiesti perché, ma non è molto difficile da spiegare; è una scrittrice molto piacevole e molto furba, che ha dalla sua uno stile veramente fresco e  frizzante (mai trovata una sua pagina tediosa, fino ad adesso) un vero talento nel creare personaggi accattivanti che appaiono, scompaiono e riappaiono in un ormai collaudato carosello, e soprattutto un’ottima abilità nel ricreare un’epoca ormai leggendaria, l’Inghilterra e l’Europa degli anni trenta del secolo scorso che ormai, assieme all’epoca Regency e Vittoriana, è entrata nell’immaginario collettivo come palcoscenico di un’epoca che fa sognare a occhi aperti, a patto ovviamente di dipingerne solo i lati positivi o usare quelli negativi tutt’al più per fare sensazione.

Sinceramente la serie di Lady Georgianna Rannoch, ormai giunta al quinto romanzo ( e una volta tanto pubblicata dall’inizio e con regolarità dal GM ) pur divertendomi non l’avevo mai recensita sul presente blog perché mi pareva un filo poco seria e approssimativa sul versante giallistico; delle ottime commedie brillanti con spruzzatine di elementi polizieschi possono fare un romanzo piacevole, ma certo non un buon giallo. Ma evidentemente l’autrice, dopo aver scherzato fin troppo con il nostro genere preferito nello scombiccherato “Sangue reale” quarto titolo della serie che presenta elementi giallo/horror che si riveleranno alla fine più parodistici che altro, imbastisce infine oltre a un romanzo impeccabile per stile e garbo anche una trama gialla non dico robusta ma che sta su senza troppi problemi.
 
Copertina dell'edizione originale
 

In questa serie, dopo i tetri Carpazi del romanzo precedente, si continua a viaggiare, stavolta sull’affascinante, colorata e assolata costa Azzurra. In questa occasione la protagonista Lady Georgianna Rannoch, aristocratica di alto lignaggio (cugina del principe, trentaquattresima in linea di successione al trono) ma in disastrose condizioni economiche e costretta per questo a impiegarsi in incarichi indiscreti (che poi assumono puntualmente contorni di missioni di spionaggio )  per conto della Regina stessa. Bella ragazza bionda di 22 anni, intelligente e di spirito ma irrimediabilmente goffa e insicura, potrebbe sposare un qualsiasi pari o principe straniero danaroso  ma preferisce spasimare d’amore (e conservarsi intatta) per il bel Darcy O’Mara, come lei nobile e come lei squattrinato e costretto a campare di espedienti.  Georgianna, Georgie per gli amici (quindi anche per noi lettori) ha una madre bellissima di origine “plebea” che dopo la morte del marito, pari del regno e padre di Georgie, passa da un fidanzato facoltoso all’altro, sfruttando la sua avvenenza fino a che le rimane. Georgie ha anche un fratellastro, Binky, di buon cuore ma tenuto sotto il tacco dall’odiosa moglie Fig, che detesta Georgianna e le cerca in continuazione un buon marito per togliersela dalla vista e dall’esiguo bilancio familiare. Poi c’è Queenie, disastrosa cameriera personale della nostra eroina, una ragazza pesante e dall’aria bovina che non riesce a eseguire nemmeno l’ordine più semplice ma dimostra di volere un bene dell’anima alla sua padrona; Georgie la tiene con lei perché non può permettersi di meglio, ma anche perché ha finito per affezionarlesi. Personaggio importante è anche Belinda, amica d’infanzia bellissima ed estremamente disinibita, avventuriera senza scrupoli ma lealissima con Georgie, e spesso coinvolta nelle avventure dell’amica (è incredibile come ogni volta tutti i comprimari della serie si incontrino per caso nel luogo preposto per la vicenda…). Per finire, altro notevole comprimario è il vecchio nonno di Georgie, chiamato appunto, semplicemente, “Il nonno”, pacioso e saggio poliziotto in pensione che vive in una villetta nei sobborghi di Londra, dove spesso la nipote si reca ( in gran segreto, sia mai che una Lady frequenti un popolano, seppur suo diretto congiunto) in cerca di consigli e…un pasto caldo.

Questi personaggi del cast “fisso” della serie, ai quali ovviamente si aggiungono quelli che popoleranno l’avventura in corso, sono ottimamente caratterizzati, e bene o male il lettore si affeziona a tutti loro.
 
 

Come detto, in questa occasione saliamo sul famoso treno azzurro che in quegli anni leggendari trasportava i ricchi Inglesi dalle brume di Calais al sole della riviera di Nizza e dintorni, ideale per svernare tra feste in villa e casinò; ora, secondo me la Bowen però, ambientando il romanzo in pieno Gennaio,  pecca di eccessiva fiducia nelle temperature miti della Cote d’azur; certo non sarà gelida e tetra come l’Inghilterra, ma qui si narra di persone che vanno in giro con abiti leggeri o prendono il sole sulla spiaggia; io sono capitato nella vicina Bordighera in inverno e vi assicuro che non c’era nemmeno da pensare di togliersi il cappotto! Ma evidentemente i lettori Anglosassoni lo credono possibile, ed è giusto accontentarli.

La povera Georgie viene mandata in vacanza da quelle parti dalla Regina,con il compito di recuperare un’antica tabacchiera dlla collezione reale che a quanto pare è stata rubata da Sir Toby Groper, ricco parvenu esponente di una nobiltà divenuta tale non per lignaggio ma per meriti economici, categoria vista come fumo negli occhi dai nobili autentici. Georgie dovrebbe riuscire a farsi invitare nella villa del magnate e recuperare l’oggetto senza dare nell’occhio. La ragazza accetta se non altro per raggiungere il fratellastro e tutti gli amici che l’avevano lasciata tutta sola a Londra.

Ovviamente le cose non andranno lisce affatto, ma tra una disavventura e l’altra, omicidio compreso, Georgie conoscerà tante persone affascinanti, tra cui un bel Marchese Francese che sembra scalzare l’ambiguo Darcy dal suo cuore e la grande Coco Chanel in persona, che le chiederà di sfilare per lei….

La trama, tutta tra bella gente in vacanza con segreti più o meno scottanti e inconfessabili, fila liscia come l’olio fino al finale, che di solito era il punto debole dei romanzi di questa serie e che invece stavolta convince, regalandoci anche un interessante risvolto perturbante, con una inquietante sosia di Georgie che appare di quando in quando…
Insomma, io l’ho trovato un ottimo romanzo, che può divertire molte categorie di lettori, giallofili compresi, e che spiega come la Bowen sia l’autrice più apprezzata dal grande pubblico, pubblico che come il sottoscritto arriva in gran parte alla sera stanco morto e cerca libriche certamente non resteranno nella storia del genere ma che intrattengano alla grande, e in questo la Bowen riesce da maestra.

mercoledì 2 settembre 2015

I GIALLI MONDADORI DI SETTEMBRE, E LA "QUERELLE" ANNESSA.

Il Giallo Mondadori, come si sa, è cambiato. Non più cinque uscite mensili ma tre (che poi, prima della collana Sherlock, storicamente erano quattro, quindi a ben vedere si è perso solo un titolo, non due), cosa dovuta non credo al masochismo della casa editrice o a chissà quale altra misteriosa ragione, solo a un drastico calo di vendite che ha fatto si che la collana ridimensionasse la sua portata. In ogni caso, anche se meno ricco, il piatto del GM continua a essere gustoso, e non poco, come quegli chef che, con pochi ingredienti a disposizione, riescono a tirare fuori un pasto sorprendentemente soddisfacente.
Il giallo inedito vede continuare decisamente il filone "in rosa"; dopo Anne Perry e Ruth Rendell, due autrici di grido i cui diritti di traduzione non credo vengano regalati (giusto per notare lo sforzo della collana di proporci titoli degni) abbiamo Rhys Bowen, invisa ai giallofili ma molto venduta in quanto i suoi romanzi sono assai godibili, e specialmente la serie di Lady Georgianna Rannoch, della quale si propone la quinta avventura in ordine cronologico, dal titolo "Intrigo in costa Azzurra"  è addirittura spassosa, quasi una parodia del genere, con un'eroina adorabile, pasticciona e perennemente squattrinata (pur essendo aristocratica e imparentata con la regina stessa) che si caccia in avventure a sfondo giallo-spionistico che risolve con più fortuna che acume. Come detto la serie non ha nessuna pretesa di "Buon poliziesco" sono romanzi  di puro cazzeggio che però una volta all'anno ci possono stare eccome.




Nella collana dei classici abbiamo un ennesimo Gardner con "Perry Mason e la rossa ambiziosa" e per finire, nella collana Sherlock, abbiamo un ennesimo SH contro Jack lo squartatore, in "I delitti di Mayfair" di David Britland.

Ora, siccome nel mese scorso sul blog del giallo c'è stata una discussione anche un po' animata sulla qualità di queste uscite, io ribadisco il mio punto di vista, ossia quello del sostenitore di questa linea editoriale e di queste uscite, dopo un legittimo primo momento di perplessità ma che adesso, visto che la redazione del GM ha finalmente spiegato le ragioni di tali scelte, mi trova d'accordo fosse altro che per un mero senso pratico.

Mi spiego meglio. Romanticamente, sarebbe simpatico trovare ogni mese uscite inedite di grandi autori della Golden-age magari non solo Anglosassoni, e vedere ristampate nei classici delle bellissime palmine dimenticate come "La dama di compagnia" della Belloc Lowndes" o "Una voce nelle tenebre" di Eden Phillpotts; peccato però che, così facendo, si masturberebbe si l'ego di quelle poche centinaia (ma forse sono troppo ottimista, diciamo poche decine) di giallofili Italiani, ma la collana andrebbe a picco nel giro di cinque o sei mesi; perché per ogni editore, dal più caciarone al più snob, contano prima di tutto le vendite, e come si dice a Firenze "senza lilleri 'un si lallera", e per questo motivo è perfettamente inutile protestare o indignarsi per le continue riproposte di Gardner nei classici; quest'ultimo è un autore molto famoso che praticamente non è stato mai proposto in libreria, rimanendo confinato nel circuito delle edicole, e siccome la gran parte del pubblico non ha tempo e voglia di dannarsi l'anima in bancarelle e mercatini per cercare le precedenti edizioni proposte nel GM,  è contento di prendersele in edicola, e non faccio fatica a credere che Gardner sia molto venduto, così come Stout quando una volta l'anno lo ripropongono. Il futuro della collana dei classici sarà questo, sempre più autori famosi e titoli arcinoti e sempre meno "obscure pearl" dimenticate negli archivi come ad esempio "Le pentole del diavolo" di Nicholas Blake, uscito lo scorso marzo quando ancora le uscite erano due al mese; con un solo titolo a disposizione, se la collana vuole sopravvivere, si deve andare sul sicuro.

Di chi è la colpa di tutto questo? del lettore medio troppo pigro e di palato poco fine? no, d'altra parte ognuno ha i suoi gusti, e seppur amante del giallo classico ammetto benissimo che la maggior parte della gente cerchi cose più emozionanti e adrenaliniche, in fondo l'intrattenimento di massa è votato ormai alle tinte forti e ai toni alti, il nostro tempo è questo e c'è poco da fare.

E anche il giallo inedito sinceramente ha presentato, in quest'ultimo anno, delle uscite eccellenti, e criticarlo è anche abbastanza crudele; oltre alla Perry e alla Rendell, non abbiamo forse avuto anche Thomas Cook, William Kent Krueger e Bill Pronzini, autori che sono il meglio del meglio nel panorama giallistico contemporaneo? e l'inedito di Freeman, una chicca vintage per appassionati, ce lo siamo già scordato? Insomma, a me sembra che l'attuale gestione sia ottima, che punti alle vendite ma senza rinunciare alla qualità, e se quando c'è stato da criticare ho criticato, stavolta invece plaudo senza riserve, almeno per adesso.
E per chi vuole riscoperti i grandi autori del passato, cosa che farebbe certamente anche la mia gioia, consiglio  di sperare in una nuova realtà come la fu Polillo, che certo era encomiabile e proponeva cose davvero importanti, ma era costretta a farle pagare un botto e col tempo ha chiuso perché di gente disposta a un esborso non indifferente ce n'era sempre meno, e quindi se una casa editrice specializzata piuttosto affermata ha dovuto chiudere i battenti per scarse vendite, ciò la dice fin troppo lunga sul reale interesse del lettore Italiano verso il giallo vintage, e sinceramente non credo che qualche altro editore sia così "avventuroso" da ripercorrere una strada così rischiosa; magari si può sperare in proposte isolate tipo quelle della Castelvecchi, ma una collana a tema ce la possiamo proprio scordare, credo, e quindi non ci rimane che  fare buon viso al gioco per nulla cattivo del buon vecchio GM, almeno fino a che rimane sulla breccia.


martedì 1 settembre 2015

"IL LADRO" (THE WRONG MAN,1956) DI ALFRED HITCHCOCK.


 

Cari amici, eccoci di nuovo qua, pronti per una nuova stagione.

Come promesso nella sezione “novità” dello scorso Aprile da ora in poi mi occuperò anche di film polizieschi e thrilling. Strano che non lo abbia fatto prima, con tutte le pellicole a tema che mi sono divorato, ma che volete, l’ispirazione è una dea capricciosa.

Esordisco in campo cinematografico con quello che, a parere di chi scrive, è forse il film più sottovalutato della storia del cinema thriller, per ironia della sorte diretto da colui che del genere è la garanzia, il marchio di fabbrica, l’icona, il maestro Alfred Hitchcock.
 
 

Ma io lo so, sapete, perché questo “The wrong man” (Ossia l’uomo sbagliato, titolo forse poco suggestivo ma comunque molto più pertinente del banalotto titolo Italiano) non se lo fila nessuno o quasi, sia esso il pubblico (e fin qui lo posso capire, non tutti possono essere degli esperti) ma soprattutto la critica, anche quella più golosamente cinefila, che non lo pone mai, ma proprio mai, tra le opere Hitchcockiane più significative; perché è un film dimesso, spoglio e a tratti forse noioso. Lasciamone per un momento da parte i pregi, guardiamone solo i difetti, intollerabili per l’Hitchcockiano medio; il ritmo lento e per nulla avvolgente, l’atmosfera realistica con glamour sottozero, personaggi comuni e senza nessun appeal, e soprattutto non si ride mai; il film giusto per essere epurato e nascosto, infatti non ne esiste, a che so, una versione in dvd (forse è esistita in passato, ma non adesso), io ho sempre la mia antica vhs della De Agostini; eppure, però, anche solo per essere un film del 1956, periodo di massimo fulgore creativo del maestro, qualche tentativo di rivalutazione lo meriterebbe.

Vi basti questo, in ogni caso; senza “The wrong man” quasi sicuramente non ci sarebbe stato Psycho per come lo conosciamo. L’inizio della svolta verso il realismo nell’opera Hitchcockiana viene proprio da qua. Come in Psycho, abbiamo protagonisti del ceto medio-basso, persone vinte dalla vita, senza nessuna peculiarità, lontani anni luce dagli eroi vincenti e dalle bionde ricche e affascinanti raccontati tante (troppe) volte dal regista Londinese.

inquietante immagine dell'angoscia in cui vive la coppia.

 

ATTENZIONE; SPOILER!

 

Il protagonista Emmanuel Ballestrero (un Henry Fonda letteralmente superlativo e credibilissimo)è infatti un musicista di un esclusivo Night di New York, un impiego non troppo remunerativo ma che gli permette di andare avanti assieme alla sensibile, dolce moglie Rose (Vera Miles, la mancata musa Hitchcockiana) e ai due figli. La loro vita scorre tranquilla e abbastanza serena, ma un brutto giorno al protagonista capita di essere identificato come l’autore di alcune rapine avvenute tempo prima, e questo da più di un testimone; lui ovviamente è innocente, ma il colpevole gli somiglia moltissimo. Cosa dovrebbe succedere adesso, visto che è una pellicola di Hitchcock? Certo, il protagonista, come nel “Pensionante”, o “Il club dei trentanove”, o “Giovane e innocente”, o ancora “Sabotatori” con uno stratagemma si darà alla fuga, seminerà i poliziotti, incontrerà una bella bionda dapprima scontrosa e poi innamorata che lo aiuterà a scagionarsi e così via; invece no, il mite e remissivo Ballestrero finirà in cella senza opporre resistenza alcuna, e ne uscirà solo perché parenti e amici racimolano i soldi per la cauzione. Ma non è finita; c’è il processo, la reputazione rovinata, gli avvocati da pagare con soldi presi in prestito, tutto sapendo di essere innocente. E a un certo punto Rose, l’adorata moglie, inizia a dare segni di squilibrio mentale, tendenza sempre più inquietante e sinistra che culmina in una scena che per me è la più agghiacciante di tutta la filmografia Hitchcockiana; a un certo punto Rose emette una risata isterica, sgradevole, nella quale emerge tutta la sua disperazione assieme ai prodromi della follia;  al confronto scene come quella  della doccia in Psycho, o gli uccelli che aggrediscono i bambini nell’omonima pellicola del 1963, sono robetta da asilo.
 
Vera Miles
 

E il film va avanti, lento, verboso, tra aule di tribunale, case proletarie e l’istituto di igiene mentale dove ormai vive Rose. Si cercano testimoni che possano scagionare l’imputato, ma senza fortuna. Al processo tutto sembra mettersi al peggio, fortuna che un giurato si rivela inadatto al suo compito, e tutto viene aggiornato a nuova data, con una giuria più affidabile. Quando tutto sembra compromesso, il vero colpevole entra di colpo in scena e quasi subito si fa beccare come un pollo mentre tenta una rapina a un drug store, quasi come se il regista  avesse deciso di aver giocato fin troppo con la pazienza dello spettatore; quindi ci si incanala rapidamente verso un apparente lieto fine, con il vero ladro che viene catturato e Ballestrero rilasciato  con tante scuse, ma tutto questo non ci da nessuna consolazione, anzi, nella scena in cui il protagonista incrocia in aula il vero colpevole e con voce tremante di rabbia e sdegno gli dice “Per colpa tua mia moglie è impazzita” notizia accolta con estrema indifferenza dall’arrogante criminale, ci sentiamo ancora più male, perchè il colpevole sarà giudicato per i suoi reati ufficiali ma non per avere rovinato forse irrimediabilmente la vita e l’armonia di una coppia ancora giovane e con del futuro davanti; alla fine della storia, quindi, l’innocente ingiustamente accusato non trova avventura e amore, trova solo le macerie di una vecchia vita felice, ed è qui che si capisce che il regista per le grandi platee, stufo del mondo da lui stesso creato, ha voluto narrarci una parabola Evangelica di stampo quasi Bressoniano, e soprattutto ha voluto dimostrarci il suo talento puro, visto che nessun altro suo film, tranne forse il successivo “Vertigo” raggiunge simili livelli di intollerabile pathos.
 
 

Nell’ultima scena Ballestrero, ormai libero, corre da Rose a comunicargli la bella notizia, ma la donna non muove un muscolo, è completamente atona. Poi compare una didascalia, che vorrebbe essere rassicurante, che ci dice che Rose si rimetterà entro due anni e che poi tutta la famigliola vivrà felice e contenta, ma noi non ci crediamo, questa cosa vogliamo vederla, non leggerla in una didascalia da film muto. Ma niente, non ci sarà data questa gioia, l’incubo non è destinato a dissolversi, Ballestrero non ricorderà le sue disavventure con fare ironico dopo una notte d’amore con la bionda di turno. Tutto è notte e nebbia, la metropoli tentacolare che avvolge, stritola e avvolge ancora, una visione desolata e senza speranza. Non ve lo aspettavate, vero, dal regista di Caccia al ladro, La finestra sul cortile, Rebecca e Intrigo Internazionale, vero? Eppure “The wrong man” è tutto questo, e molto di più. Un autentico capolavoro, che tutti, non solo i patiti di Hitchcock dovrebbero vedere. Io nel frattempo mi visiono di nuovo la mia vhs, sperando che prima o poi qualcuno si decida a rieditarlo in DVD; forse una versione c'è già stata, ma non risulta attualmente disponibile, e sarebbe tempo di rivederlo nei negozi.