giovedì 30 gennaio 2014

IN DIFESA DI “POIROT E I QUATTRO”, BISTRATTATO MA IMPORTANTE TASSELLO DELL’OPERA DI AGATHA CHRISTIE.


In questi giorni, chissà perché, ho la tendenza di ergermi a paladino di opere generalmente giudicate minori o poco riuscite dei grandi autori del poliziesco. Dopo la rivalutazione de “L’ultima avventura di Philo Vance” di Van Dine, passo a un’appassionata difesa di quello che è uno dei libri più calpestati e maltrattati di Zia Agatha, ovvero “Poirot e i quattro”, che ho riletto nella versione ritradotta da Ombretta Giumelli uscita nei classici del giallo numero 530 (dalla prossima edizione al vedremo finalmente anche negli oscar?) , libro giudicato “Orribile” da Barnard nel suo opinabilissimo saggio “L’arte dell’inganno” e comunque giudicato men che mediocre da molti specialisti dell’opera della Christie. Io, che non sono un critico e non ho pretese di esserlo, ammetto che “The big four” possa forse essere l’opera più scombiccherata, puerile e squilibrata dell’autrice, ma di gran lunga anche la sua più divertente e spensierata; e oltretutto contiene elementi importantissimi per la pur tenue continuity della Saga di Poirot e il fido Hastings, visto che si situa idealmente tra “Aiuto Poirot” e “L’assassinio di Roger Ackroyd; all’inizio infatti troviamo Hastings che torna in Inghilterra dall’Argentina, dove si è sposato e ha messo su famiglia con la sua “cenerentola”, conosciuta proprio nel secondo romanzo con protagonista il detective Belga e la sua spalla ideale, e si conclude con Poirot che, stremato dopo la lunga battaglia coi terribili Quattro, esterna il desiderio di mettersi a coltivare zucche in qualche paesino sperduto, e proprio così lo ritroviamo all’inizio del Roger Ackroyd.
 
una bella cover americana
 
 
Infatti il romanzo, uscito nel 1927 dopo il fondamentale “L’assassinio di Roger Ackroyd” ma in realtà scritto prima di esso ricucendo alla meglio quattro racconti a se stanti in un momento di stanca creativa (che coincise con la famosissima vicenda della sparizione della Christie), è come detto un’opera poco organica e sbilanciata, con continui cambi di scenari e personaggi e votata all’azione pura; infatti qui, nonostante qualche enigma tipicamente giallo non manchi (essi forse erano il nucleo dei 4 racconti originari) siamo in piena Spy story, con un Poirot  James Bond ante litteram che si batte contro una specie di Spectre fondata da quattro elementi pericolosissimi che assieme aspirano  nientemeno che al dominio del mondo; un cinese che trama nell’ombra (erano gli anni di Fu-Manchu), un miliardario americano che rappresenta il potere dei soldi (erano gli anni ruggenti degli States), una scienziata Francese tra Madame Curie e Satanik e infine un personaggio misterioso, dotato di grande ferocia e illimitate capacità di trasformista, chiamato “Il distruttore”, ossia l’esecutore materiale dei crimini dei quattro, il nemico che Poirot e Hastings si troveranno più spesso a fronteggiare direttamente, in una continua sfida sul filo del rasoio.
 

 cover di Jacono per il CDG 530
 

Ma il romanzo, che spazia dall’Inghilterra alla Francia per concludersi sulle Dolomiti (!), è soprattutto il romanzo dell’amicizia tra Poirot e Hastings, novelli moschettieri pronti a dare la vita l’uno per l’altro; e in molte occasioni tale reciproca fedeltà sarà messa alla prova, visto che la battaglia coi quattro si protrae per quasi un anno, tra continui botta e risposta fatti soprattutto di sconfitte, visto che Poirot, prima di trionfare, subirà molte e cocenti disfatte, soprattutto dal diabolico e geniale distruttore. Ma questa amicizia forte e sincera ha un che di ottocentesco che scalda il cuore proprio per la sua ingenuità; dopo questo episodio l’autrice si guarderà bene dall’essere più così zuccherosa, e a parer mio è un peccato.
 
cover di Karel Thole
 

E una cosa che fa dell’opera un capitolo a se stante è il ritmo assolutamente frenetico e senza pause della narrazione, roba da far impallidire il Wallace più scatenato. Incredibile come un libro come questo sia coevo al geniale ma staticissimo Roger Ackroyd, a conferma del poliedrico talento della regina assoluta del giallo. Certo, ci sono altri romanzi dell’autrice che hanno un ritmo spigliato (Avversario segreto, L’uomo vestito di marrone, Perché non l’hanno chiesto a Evans?, Il mondo è in pericolo) ma niente di lontanamente paragonabile a questo adorabile action, che tra l’altro dispone di un arsenale praticamente illimitato di colpi di teatro, agnizioni, travestimenti, identità segrete e altri ammennicoli divertenti che poi la Golden Age col suo rigore, rappresentata proprio dalla stessa Agatha, spazzerà via; quindi proprio per questo quasi tutti i lettori sono portati a considerare “Poirot e i quattro” come un peccato di gioventù inspiegabile e perdonabile a fatica, non riuscendo a scorgerne le grandi qualità di intrattenimento, del puro godimento che esso regala, di come leggendo possiamo tornare ragazzi, credere nei buoni che sconfiggono i cattivi e nell’amicizia vera e sincera; e se una persona leggendo si indigna  e considera il tutto una stupidaggine enorme beh, questo è un problema suo, non certo di Agatha Christie.

mercoledì 29 gennaio 2014

“L’ULTIMA AVVENTURA DI PHILO VANCE” DI S.S. VAN DINE; UN CANTO DEL CIGNO SOMMESSO MA MELODIOSO.


Parlare di William Huntington Wright alias S.S. Van Dine è un qualcosa che va fatto con molta cautela. Siamo infatti davanti a colui che forse era il più colto ed erudito autore di polizieschi di sempre, di uno degli autori più rigorosi e impeccabili (solo Austin Freeman in questo gli era pari) di un vero e proprio teorico del romanzo giallo.
 

l'autore
 
 
Non scrisse molti romanzi polizieschi Van Dine, solo 12. Ma di questi, due ( La fine dei Greene e La canarina assassinata)nsono dei grandi capolavori della letteratura americana del ventesimo secolo, indispensabili per capire e conoscere una certa New York degli anni venti almeno quanto gli scritti di Fitzgerald. Altri tre (La strana morte del signor Benson, L’enigma dell’alfiere e La tragedia in casa Coe) sono romanzi polizieschi magnifici ed paradigmatici di un genere. Il resto va dall’ottimo al discreto, e certo gli ultimi romanzi non hanno un intreccio paragonabile ai primi lavori; ma ciononostante soffro nel sentirli definire mediocri, come scrive più di un addetto ai lavori. E’ come giudicare la Christie portando sempre come esempio Styles court o Dieci piccoli Indiani, sminuendo inevitabilmente ogni altra buona cosa l’autrice abbia scritto; no, gli ultimi romanzi con protagonista Philo Vance (come noto, il superomistico e altezzosissimo investigatore dandy creato dall’autore) sono comunque prodotti assolutamente godibili, da non trascurare ne soprattutto sottovalutare.

Siccome dei capolavori dell’autore si parla molto e bene in altri lidi, voglio parlare di Van Dine proprio partendo dalla fine, ossia dal suo ultimo romanzo rimasto incompiuto, non nell’intreccio o nella soluzione finale ma nella stesura, in quanto l’autore morì prima di “rimpolparlo” , di dare a trama, descrizioni e personaggi quello spessore che gli è tipico specialmente nelle opere migliori; ma quello che rimane è un romanzo breve che nell’edizione dei tascabili Newton che ho io (da evitare quella nell’omnibus Le ultime avventure di Philo Vance, sempre con traduzione vetusta e nomi Italianizzati) per occupare le canoniche 96 pagine ha bisogno di un Font grande il triplo che negli altri volumi.

Ma se si guarda il bicchiere mezzo pieno, questa incompiutezza è uno dei punti di forza della storia, che scorre velocissima e leggera, e che di fatto è quasi una commedia brillante con descrizioni d’ambiente un poco più lunghe del solito; questo ne fa un libro perfetto per una lettura di una sera, in quanto anche i lettori più rilassati possono terminare il volume in un’oretta; non tanto per la sua brevità, ma perché la storia diverte ed è accattivante.
 
 

Il vero, suggestivo titolo del romanzo ( da noi ribattezzato melodrammaticamente “L’ultima avventura” , che come nel caso di Addio Miss Marple non è affatto un congedo dai lettori da parte del personaggio, ma un libro che potrebbe essere collocato in qualunque momento dell’opera Vandiniana) è “The winter murder case”, e infatti l’ambientazione è tipicamente invernale. Siamo in una tenuta con castello 5 ore a nord di New York, nel bel mezzo di un gelido inverno. Philo Vance vi viene invitato per sorvegliare sugli inestimabili preziosi del signore del maniero, Carrington Rexon, un creso in perfetto stile americano. L’uomo è preoccupato perché la festa di fidanzamento del figlio Richard con la bella e sofisticata Carlotta Naesmith, sposa affascinante ma praticamente impostagli dal padre, si è arricchita di molti invitati giovani e di dubbia estrazione, e il tesoro custodito in una delle sale del castello potrebbe fare gola a qualche uccello da preda.

Un Vance molto più umano e simpatico del solito (forse perché l’autore non ha avuto il tempo di renderlo insopportabile come sempre)si reca alla tenuta con l’aria del vacanziero; in essa conosce la Bella ed eterea Ella Gunthar, una Mary Sue alla Wallace abbastanza atipica per l’autore, che vive nel castello come dama di compagnia e amica di Joan, la figlia invalida (dopo un incidente a cavallo) di Rexon, altro personaggio dolcissimo e patetico; si può dire infatti che le pagine più belle per il sentimentale sottoscritto (e magari più indigeste ai Vandiniani doc abituati al cinismo quasi senza speranza della Fine dei Greene) sono quelle con le due fanciulle, con Ella che si esercita di nascosto nel pattinaggio artistico (è una vera campionessa) di nascosto a Joan per non farle pesare la sua infermità, mentre invece la dolce invalida avrebbe voluto più di ogni altra cosa che l’amica continuasse a pattinare, e soprattutto che sposasse suo fratello Richard, visto che i due si amano dall’infanzia ma la loro unione è osteggiata dal signor Rexon a causa delle umili origini di Ella. Come si risolverà questo quadro idilliaco? Visto che in questo romanzo l’autore è di una delicatezza assoluta, direi proprio bene.

Tornando all’intreccio poliziesco, nonostante la sorveglianza i gioielli vengono rubati, e due persone vengono trovate morte. E’ chiaro che un investigatore del calibro di Vance, abituato a misteri ben più complessi e terribili,  risolva il caso in quattro e quattr’otto e contribuisca alla felicità dei cuori palpitanti del castello.

Insomma, come avrete capito questo “Winter murder case” è un divertissement, che anche compiuto avrebbe accresciuto di poco il suo spessore; quindi i detrattori dell’ultimo Van Dine hanno tutte le ragioni per massacrarlo. Ma il sottoscritto, che non è un purista dell’intreccio e non vuole meraviglie a tutti i costi, riesce comunque a entusiasmarsi per una storia discreta, delicata ed evocativa di una magnifica atmosfera anni trenta, che non merita affatto l’oblio.
 



Il volume si trova, oltre che nel giallo economico Newton (disponibile in ebook a 0,49) anche in edizione Cartacea nel catalogo Gremese, con il titolo “Philo vance e il delitto al castello”, al non proibitivo prezzo di 6,90 euro.
 
 

giovedì 23 gennaio 2014

LA GHOST STORY CLASSICA INGLESE, IL “GENERE GEMELLO” DEL POLIZIESCO.


 

Ho sempre ritenuto, forse a torto, una stranezza bella e buona che un appassionato di polizieschi classici non sia anche un cultore delle Ghost story anglosassoni, da non confondersi col genere horror prima e dopo di esse; le storie di fantasmi da narrare davanti al caminetto in una sera di pioggia sono un sottogenere ben distinto, lontano sia dai fluviali goticoni  stile Ann Radcliffe che dai tomi contemporanei di Stephen King.
 
 

Un sottogenere ovviamente molto amato dagli inglesi, quasi uno dei loro manifesti, una cosa della quale andare fieri, a cui si dedicavano anche insigni luminari, su tutti Montague Rhodes James, rettore di Cambridge e maestro supremo di questo filone narrativo.

Alle Ghost story si sono dedicati con estrema ispirazione  grandi autori vittoriani come Dickens, Stevenson, Kipling, George Eliot, Elizabeth Gaskell e Wilkie Collins; ma anche americani famosi per tutt’altra narrativa come Nathaniel Hawthone, Henry James  e Edith Wharton.

Ma questo sottogenere, proprio come il poliziesco, raggiunge la sua apoteosi nel ventesimo secolo, precisamente negli anni tra le due guerre, che coincidono con la golden-age del poliziesco; ma se il giallo continuerà a fiorire,  con la virata dell’horror verso lo splatter  e il realismo le vecchie storie del brivido dal sapore ottocentesco sono definitivamente tramontate, inadatte a un pubblico sempre più voglioso di emozioni forti.

In ogni caso, la stagione delle grandi Ghost stories è stata lunga e intensa, grazie anche all’ondata di interesse per lo spiritismo e i fenomeni paranormali a cui si dedicò anima e corpo Conan Doyle, e allo splendore di essa hanno contribuito anche noti giallisti; cominciò ovviamente Edgar Allan Poe, che è un precursore più o meno di tutto escluso i libri di ricette, ma il suo caso è inverso, lui era un grande autore di storie del brivido che si prestava anche al racconto poliziesco; il primo giallista a occuparsi anche di storie soprannaturali fu l’eclettico Arthur Conan Doyle, che ci ha lasciato una trentina di racconti fantastici assolutamente deliziosi, tra i quali alcune Ghost stories di cui una davvero di grande impatto, ovvero “Lo specchio d’argento”,  piccolo gioiello dove il protagonista vede, riflesso in un antico specchio, un fosco dramma del passato.

Un’altra grande autrice di esemplari e sottovalutatissime storie del brivido fu Agatha Christie, della quale in pochissimi purtroppo conoscono racconti di fantasmi assolutamente perfetti  come “La lanterna”, “L’ultima seduta” e “La bambola della sarta”. L’ho già detto tante volte, ma per chi non era attento ribadisco che la raccolta di racconti intitolata “Il segugio della morte” è uno dei grandi libri per assicurarsi piacevolissimi sussulti in notti buie e tempestose.

Poi ci furono scrittori che per una carriera intera giocarono a danzare sul labilissimo confine tra il poliziesco e la Ghost story vera e propria. Proprio qui volevo arrivare; in fin dei conti i due generi sono gemelli, si può infatti infarcire con estrema facilità una storia gialla di elementi horror, così come inserire enigmi razionali in una storia del brivido. John Dickson Carr e soprattutto il suo maestro Chesterton si sono divertiti a mescolare i generi per una carriera intera, pur rimanendo, talvolta con molta (troppa?) fatica entro la barricata del razionale; ma specialmente Carr qualche volta ha bellamente e volutamente oltrepassato questo limite, in qualche racconto e in uno dei suoi romanzi migliori, quale non posso dirlo senza incorrere in spoiler fastidiosi.

Ma lasciamo i giallisti nel loro brodo, qui si vuole parlare di Ghost story vere e proprie, che  nelle sere di questo inverno abbastanza mite ma comunque brumoso  e tempestoso  si gustano con estremo piacere.

 
 
Nel nostro paese abbiamo molto materiale al riguardo; sono disponibili a prezzi popolari tutti i racconti di Poe, di Rhodes James, di Le Fanu, di Dickens; di quest’ultimo vi consiglio la raccolta dal titolo “Da leggersi all’imbrunire”, che in appendice contiene anche storie gotiche del primo ottocento molto importanti.

Per brividi più eterei e raffinati raccomando le raccolte (sempre dal titolo Storie di fantasmi, non si scappa) di Edith Wharton e Henry James; bellissima è la raccolta “Nel buio” di Edith Nesbit edita da Sellerio, e graziosissimo è il racconto lungo “Il velo sollevato” di George Eliot, nel catalogo Marsilio.

Insomma, di materiale ce n’è quanto ne volete; e  oltre ai volumi dei singoli autori sono sempre reperibili anche antologie molto note e ampiamente esaustive, talvolta pure troppo; è il caso del mammut Newton “Storie di fantasmi”, un volumone di oltre mille pagine che racchiude molte delle storie più belle, ma ne contiene altrettante abbastanza mediocri o comunque datate e poco scorrevoli, specialmente di autori Italiani, Francesi e Tedeschi; come dicevano giustamente Fruttero e Lucentini, solo gli inglesi sapevano scrivere storie di fantasmi perfette, evitando le compiacenze letterarie dei Francesi o gli slanci liricheggianti dei Tedeschi ( slanci che rovinano anche molti dei racconti di Poe, che dai romantici Teutonici era parecchio influenzato; ma come ripeto lui era un precursore, che fu imitato a oltranza e, almeno per me, finì per essere superato) e soprattutto l’ingiustificato snobismo degli Italiani, che a parte qualche grazioso racconto di Tarchetti, Capuana o della Perodi non seppero mai prendere sul serio il genere soprannaturale, visto che nel nostro paese bisognava raccontare la vita vera, la sofferenza e la provvidenza. Per leggere un racconto del terrore nostrano davvero ottimo (anche se per certi versi è una parodia dell’antieroe Lovecraftiano, seppur di grande effetto) bisogna leggersi “Oleron” di Stefano Benni, incluso nel bizzarro e divertente “Il bar sotto il mare”, nel quale l’autore rende omaggio ai principali generi letterari con garbo, inventiva e leggerezza.

Insomma, il volume Newton è ottimo ma va preso con le molle, prima leggete gli autori col cognome Anglosassone e poi gli altri (a parte qualche godibile Francese come Gautier, Maupassant o Leroux) ma giusto per completismo.

Per chi scrive la raccolta di storie di fantasmi perfetta è quella dal titolo omonimo curata dai già citati Fruttero e Lucentini, un vero manuale del genere assolutamente irrinunciabile che a parte racconti stupendi ma non propriamente ascrivibili al genere come “Il richiamo di Chtlulu” di Lovecraft o “Il terrore” di Machen propone storie davvero esemplari; chi ruba la scena, con ben 4 racconti, è Rhodes James, del quale vengono proposti quelle che sono davvero le sue punte di diamante, ossia “Il tesoro dell’abate Thomas”, “Il numero 13”, “Fischia e verrò da te e soprattutto lo straordinario “La mezzatinta”. Ma oltre a James ci sono due dei capolavori di Lovecraft (Nella cripta e l’orrore di Dunwich), poi il famosissimo “La zampa di scimmia”, che Jorge Luis Borges riteneva la definitiva variante della leggenda dei tre desideri (e dalla quale Stephen King prenderà spunto per il suo bellissimo Pet Sematary) e l’ammaliante  “La bella adescatrice” di Oliver Onions (non il gruppo musicale, intendiamoci), da molti ritenuta la più raffinata storia di fantasmi di sempre. Altre ottimi racconti completano quella che è l’antologia capolavoro sui fantasmi disponibile in Italia, perché essere grandi antologisti è difficile come essere grandi scrittori ( e Fruttero e Lucentini erano entrambe le cose).

E quali sono le storie di fantasmi ( o comunque del brivido, perché oltre agli spiriti dei trapassati i racconti vertevano anche su presenze ancestrali, precognizioni inquietanti, demoni…non c’erano solo ghost nelle ghost stories) migliori per il sottoscritto, che ne ha lette tante? Faccio una top- ten? Ok, visto che insistete la faccio, precisando che ho preso in considerazione solo storie che considero esemplari e perfette nella maturità del genere, quindi epoca vittoriana- primo novecento; ho lasciato fuori con dispiacere storie molto belle ma un pochino datate come “La storia della vecchia nutrice” di Elizabeth Gaskell o  “LA stanza degli arazzi di Walter Scott, e anche racconti di gran livello come “Il campanello della cameriera” di Edith Wharton, per non parlare di un paio di racconti meravigliosi della Nesbit come “Corpi di marmo” e “L’automobile viola”, che compaiono stabilmente in varie antologie. Ma in una top ten ci stanno dieci elementi, e non di più, purtroppo.

 

 

1-     ESSI  ( o I bambini), di Rudyard Kipling; ecco, è questo per me il più bel racconto di fantasmi mai scritto, il più perfetto e compiuto, il capolavoro definitivo. Frutto della tarda fioritura Kiplinghiana, si narra di un automobilista senza nome che percorre in automobile la splendida e rigogliosa campagna Inglese, e nel suo vagare si imbatte in una bellissima casa abitata da una donna cieca e da tanti, tanti bambini curiosi e molto timidi. Più che una storia di grande ingegno, “They” è una poesia in prosa lunga venti pagine, partorita da un genio incompreso che scrisse grandi cose per tutta la sua carriera, ma negli ultimi anni di vita ci regalò alcune delle pagine più belle e potenti del ventesimo secolo, degne in tutto e per tutto degli autori più celebrati. Provare per credere le antologie edite da Adelphi.

 

2-     LA MEZZATINTA, di Montague Rhodes James ; ho deciso di scegliere un solo titolo per autore, altrimenti di James ne dovevo mettere almeno tre. Ho scelto questo perché per il sottoscritto è la storia più paurosa mai letta, di un orrore efficacissimo perché trasmesso non in un situazione di panico o di trauma, ma che emerge nell’oziosa conversazione di due compassatissimi e imperturbabili collezionisti d’arte Inglesi. A uno dei due capita una mezzatinta raffigurante una casa, niente di particolarmente interessante, non fosse che per una figura mostruosa che comincia a emergere dall’estremità del dipinto per portarsi verso una delle finestre della casa…in un crescendo di suspense viene svelata un’atroce verità, che assicura un brivido lungo la schiena ben oltre la parola fine. Come, non vi siete ancora fiondati in libreria a comprare l’antologia Newton che per soli 4,90 euro raccoglie tutte le storie dell’autore? Correte prima che chiuda!

 

3-     LA BAMBINA DI NEVE, di Nathaniel Hawthorne; racconto che riesce nel miracolo di essere al tempo stesso dolcissimo e inquietante, a scaldare il cuore e a far correre brividi lungo la schiena. In un gelido giorno di dicembre due bambini, fratello e sorella, costruiscono un pupazzo di neve che riproduce le sembianze di una bambina, per creare una compagna di giochi che faccia loro compagnia nella solitudine della campagna innevata. E questa bambina di neve si mostra felicissima di essere stata creata, e di mettersi a giocare con coloro che l’hanno plasmata... l’infinita poesia dell’infanzia, l’unica cosa che mi rammarico di avere perduto per sempre, qui rivive in tutta la sua bellezza, e sarà  proprio l’ottusità dei grandi a porre fine a questo splendido miracolo invernale.

 

 

4-     IL SEGNALATORE, di Charles Dickens; del sommo autore vittoriano, che si dedicò con estrema perizia anche alle storie del brivido, ho molto caro questo racconto di inquietanti precognizioni che presenta un’ambientazione assolutamente banale e quotidiana, eppure estremamente suggestiva; si svolge infatti tutto in una remota stazioncina nella campagna Inglese, dove un vecchio addetto ai binari ha delle strane e bizzarre visioni che lo terrorizzano. E poi, lo dico senza vergogna, a me i treni che sfrecciano nella notte sono sempre parsi un poco inquietanti, per cui il racconto ha un motivo in più per turbarmi.

 

5-     JANET LA STORTA, di Robert Louis Stevenson; grande, potentissimo racconto ambientato nella scozia più rurale, dove una misteriosa perpetua dall’aspetto mostruoso cela un segreto terribile,  che verrà svelato al reverendo Murdoch in una notte di tregenda. Meraviglioso, la summa del racconto del brivido Stevensoniano, da evitare nell’edizione Einaudi che vuole rendere il dialetto scozzese usato da Stevenson nell’originale con una maccheronica parlata Toscana che, ve lo dico da Toscano, è tutta sbagliata e finisce per essere non poco fastidiosa.

 

6-     IL GIRO DI VITE, di Henry James; a dire il vero sarebbe un romanzo breve, ma non me ne sono mai accorto, visto che ogni volta che lo rileggo non ci metto più di un’ora a terminarlo; storia molto nota e oggetto di infinite discussioni tra i fans (c’è chi dice che non esiste nessun fantasma e tutta la vicenda sia il frutto di una mente malata…io non mi pronuncio, mi suggestionano entrambe le soluzioni e va bene così…) . Mentre scrivo, mi sto accorgendo che in molti dei racconti di questa mia top-ten troviamo fra i protagonisti dei bambini, le figure più innocenti, sensibili e quindi più percettive, dotati della “lanterna” del sesto senso che permette di captare le presenze soprannaturali molto più facilmente di un adulto. Di cosa parla “Il giro di vite”? No, non posso assolutamente dire nulla, lascio il piacere di scoprirlo ai fortunati che non hanno ancora letto questo capolavoro.

 

 

7-     NELLA CRIPTA, di Howard Phillips Lovecraft; del grande autore del New England ho letto quasi tutto, e anche se non è tra i miei scrittori preferiti molti dei suoi racconti mi hanno folgorato, e li ricordo a memoria dopo anni. Evocatore di un orrore più cosmico e fantascientifico, questa è una delle sue rare ghost- story più canoniche, ed è davvero terrificante; la storia di un becchino che rimane chiuso in una cripta coi morti da seppellire è già di per se terribile, ma se ci si aggiunge un finale sconcertante che aggiunge orrore all’orrore, la notte insonne per gli impressionabili è garantita.

 

8-     LA LANTERNA, di Agatha Christie ; racconto del quale ho già parlato nel post dello scorso maggio dedicato ai racconti dell’autrice, ma del quale ribadisco l’estremo valore; una bella storia di amicizia tra due bambini, uno vivo e l’altro no, trattata con una sensibilità che solo una grande donna poteva avere.

 

 

9-     COMPAGNE DI GIOCO, di Alfred MacLelland Burrage; dopo tanti autori notissimo, mi permetto di inserire un outsider, del quale ho letto solo due racconti, che  ho amato moltissimo; l’ottimo “La statua di cera” fantasia macabra contenuta nell’antologia Newton, e questo rarissimo “Playmates”, datato 1927, che ho fortunosamente reperito in una raccolta di storie del brivido.. per le scuole medie, ovvero “Blackout-nel buio del terrore”, miracolosa antologia curata di Donatella Ziliotto che comprende molti bellissimi e rari racconti. Qui la trama è molto classica, con la grande casa nel quale si trasferiscono un anziano misantropo e la bambina che ha adottato, la quale trova alcune amiche in un’ala della casa che un tempo era una scuola; le bambine sono molto simpatiche e affettuose, ma sono molto timide e vestono e parlano in modo antiquato…ok, il tutto è prevedibile, ma trattato con una delicatezza straordinaria, che fa del racconto un gioiellino assoluto, peccato sia un’impresa reperirlo.

 

10-  LA ZAMPA DI SCIMMIA, di William Wimark Jacobs; già citato archetipo della Ghost- story americana, negli USA molto famoso e citato, oltre che da Stephen King anche dal cinema e perfino dai Simpson. In ogni caso la storia della zampa di scimmia alla quale si può chiedere tre desideri che verranno subito soddisfatti (ma a carissimo prezzo, purtroppo) è un capolavoro assoluto, che nello splendido finale raggiunge un pathos ineguagliabile. Peccato solo che questo sia in pratica stato l’unico exploit dell’autore.

 

 

Insomma, spero abbiate apprezzato il mio sforzo di popolare di incubi di prima scelta il vostro sonno.

 

 

 

lunedì 20 gennaio 2014

E GRANDI STORIE DISNEY DI ROMANO SCARPA COL CORRIERE DELLA SERA; UN PRIMO VOLUME DA PRENDERE AL VOLO, ANCHE PER I GIALLOFILI.

Salve a tutti cari amici. Scusate la latitanza di diversi giorni (lo so, vivete lo stesso…) ma vari impegni mi impediscono di concludere i numerosi articoli che ho in mente. In attesa di tempi più tranquilli, vi segnalo una bella iniziativa del Corriere della sera che edita in una collezione assolutamente imperdibile (perlomeno per chi non ha già le storie n altre edizioni come il sottoscritto da sempre appassionato di storie Disney) l’opera omnia di Romano Scarpa, il maestro veneziano autore di veri capolavori del fumetto, su soggetto suo o altrui.




Il primo volume, che esce proprio oggi a solo 1,90 euro (quindi sbrigatevi) contiene molte belle avventure (da segnalare anche le due storie con Biancaneve, nelle quali il giovane Scarpa mette tutta la sua arte pittorica), ma due storie in particolare sono di chiara matrice poliziesca; non metto virgolette o minimizzo sono veramente storie gialle di prima categoria, perfettamente congegnate e talvolta inquietanti come i libri migliori del genere.
La prima di queste, un capolavoro assoluto su testi di Guido Martina, è “Topolino e il doppio segreto di macchia nera” che è ispirato alla lontana nientemeno che al “Cappellaio matto” di John Dickson Carr; solo che qui il cappellaio matto di Carrolliana memoria vi compare di persona, aiutando a modo suo Topolino e Basettoni a risolvere il mistero di furti apparentemente inspiegabili.
L’altra storia poliziesca, complicata ma più avventurosa, è opera del solo Scarpa e si intitola “Paperino e i gamberi in salmì”  guardate un pò nella prima vignetta l’autore che sta leggendo un impaurito Paperino; vi ricorda qualcuno ?





Insomma, un volume che, se lo occhieggiate in una edicola che lo ha ancora io fossi in voi prenderei; il divertimento intelligente è assicurato, e le tavole del primo Scarpa sono una gioia per gli occhi.

venerdì 10 gennaio 2014

“L’ULTIMA CARTA” UNA PERLA PICCOLA MA PERFETTA NELLO SCRIGNO DI JOHN DICKSON CARR.


Come tutte le vicende che concernono l’esistenza, quelle editoriali sono talvolta misteriose, illogiche, quasi incomprensibili.

Di John Dickson Carr, che potrà essere o meno amato alla follia ma che comunque è uno dei 4-5 scrittori che sono il manifesto universale del poliziesco classico, in Italia si è tradotto tutto o quasi (mancano dei racconti e un romanzo, The murder of Sir Edmund Godfrey, che a quanto ho capito è una ricostruzione storica di un delitto commesso nel seicento, sullo stile della Figlia del tempo di Josephine Tey) e anzi, nei tempi d’oro della collana dei classici del giallo (gli anni ottanta) si è anche Ri-tradotto; quasi tutti i romanzi più importanti con Fell e Merrivale sono stati accuratamente tradotti integralmente e rispettando lo stile dell’autore da Antonietta Maria Francavilla, una garanzia di qualità, che ha curato anche molti dei romanzi dell’autore, specialmente gli ultimi e quelli senza personaggi fissi, che erano ancora inediti. Oltre alla Francavilla anche Mauro Boncompagni ha tradotto alcuni titoli chiave, così come Maria Luisa Bocchino. Un’opera di enorme importanza, che fa del nostro paese uno di quelli in cui l’autore è stato meglio trattato.

Peccato però che, per chissà quale motivo, tale opera ciclopica si è fermata a un passo dal compimento, quando mancavano pochissimi titoli per avere tutto il canone Carriano ritradotto come meritava.

Curiosamente, i Carr trascurati sono quasi tutti i primi dell’autore, ossia quelli dell’incantevole ciclo di Bencolin. Inspiegabilmente maltrattati dall’autore che li considerava poco più che peccati di gioventù (forse per quello la redazione non perse tempo a ritradurli?), per chi scrive sono tra i migliori in assoluto della sua produzione; almeno tre titoli, il celebre “Il mostro del plenilunio”, “Sfida per Bencolin” e quello di cui mi occuperò più approfonditamente ovvero “L’ultima carta” sono tre capolavori, tre romanzi di assoluto fascino.
EDIT; avevo riportato, basandomi su dati non sicuri, un elenco di Carr non integrali; l'amico Stefano mi ha fornito nei commenti un elenco più preciso, che riporto in calce;


I Carr non tradotti integralmente sono:
- Il mostro del plenilunio (trad. anni 50 della De Michele piena di tagli ed errori)
- L'ultima carta (Scurto)
- Piazza pulita (Knowles, l'unico romanzo ripubblicato di recente, è il meno peggio dei 3 come confezione, perché molto breve già in originale)
- Delitto a bordo (non sono sicurissimo perché qui non ho l'edizione originale, ma essendo Caricchio colei che ha massacrato Death from a top hat di Rawson immagino abbia tagliato anche questo)
- La tabacchiera dell'imperatore (Tedeschi)
- È un reato Dottor Fell (De Michele)
- Gideon Fell: Panico a teatro (Caricchio)
- Tutto bene dottor Fell (Corvaja)



La breve epopea di Monsieur Bencolin, titanico e superomistico asso degli investigatori Parigini, conta solo 5 romanzi e 4 racconti, ma come ho detto non è assolutamente da trascurare; mai sottovalutare i romanzi giovanili, vale anche ad esempio per la Christie.

Carr non commise peccati di gioventù, anzi, iniziò col botto. I romanzi con Bencolin trasudano di atmosfera, di mistero, di suggestioni da Grand-guignol; in quel periodo l’autore soggiornò veramente nella capitale Francese, e quindi la conosceva molto bene, aveva i luoghi e le persone a portata di mano, non ricostruiva nulla.

In questo “L’ultima carta”, che ho riletto con sommo gaudio in questi giorni nella sua prima edizione del 1955 (fu ristampato solo nel 1973 nel classico del giallo 172, e da quarant’anni manca nelle edicole), proprio la location rende il romanzo un gioiello assoluto; non vi troverete però la tour Eiffel e i Bistrot di Montparnasse dove si radunavano i tanti intellettuali del tempo, queste cose al giovane Carr non interessavano minimamente; no, qui si hanno piccoli e sordidi musei delle cere, nobili orgogliosi, presunti spettri, passaggi segreti e sotterranei minacciosi; un’ atmosfera alla Louis Feuillade splendidamente resa.
 

copertina di G. Sarno per l'edizione 1955
 
 
 
La storia inizia quando una giovane donna viene trovata morta abbracciata in modo macabro alla statua di cera del Satiro della senna, creatura ricorrente nelle leggende locali. La statua, assieme a molte altre, fa parte del museo delle cere del signor Augustin, che presenta opere di alto artigianato ma è ormai decaduto, quasi fatiscente, che vivacchia grazie ai pochi visitatori accolti dalla figlia di Augustin, che rappresenta tutto il personale di cui ha bisogno il locale.

Ben presto ci si accorge che il conto in banca degli Augustin è stranamente florido, e appare ben chiaro che il piccolo museo è una porta d’accesso secondaria per un locale malfamato al quale è collegato, “Le chiavi d’argento” dove molte persone ricche e altolocate si recano mascherate per incontri chiaramente ( anche se l’autore o il traduttore sono troppo delicati per dirlo esplicitamente) a sfondo erotico, un qualcosa alla Eyes Wide Shut per intendersi.

Ovviamente la morta faceva parte del giro, e altrettanto naturalmente è di buona famiglia e dalla reputazione senza macchia; a quel punto il mefistofelico ispettore e il suo aiutante Jeff Marle (un Watson ci vuole sempre) iniziano a muoversi in questo mondo sordido ma, devo ammetterlo, anche affascinante, tra piccoli Apaches (come si chiamavano i piccoli malfattori della capitale al tempo), signori del crimine, ambasciatori, militari e nobiluomini; siamo ancora nei margini del territorio del Feuilleton, tra Fantomas , Leroux e le petit Theatre du Grand Guignol, intrattenimento che ai tempi era già quasi superato (il teatro chiuderà definitivamente nel 1963…purtroppo) e che l’imminente successo dei Maigret di Simenon (il romanzo di Carr è del 1931, anno di Pietr le Letton) finirà di spazzare via del tutto, relegando i vecchi brividi nel dimenticatoio per tematiche decisamente più terrene e umane. In ogni caso preciso che questo romanzo, oltre a essere fautore di  palpiti d’antan, è anche un ottimo poliziesco, con una soluzione impeccabile e credibilissima.

Concludo con una ulteriore constatazione sulla traduzione; a volte nel blog del giallo Mondadori leggo di persone che si rifiutano di leggere i primi Carr fino a che essi non verranno ritradotti. Ebbene, non ci sperate; la Mondadori, dopo aver pubblicato lo scorso anno Piazza pulita in uno speciale sempre con la vecchia traduzione, non lo farà di certo; potrebbe farlo la Polillo, che però di Carr ha pubblicato romanzi già integrali e con la stessa traduzione della Francavilla, per cui sono scettico anche da quel versante.

Ma quello che dovete sapere è che queste traduzioni “vecchie” sono assolutamente BEN FATTE. La traduzione dell’ultima carta, di Bruno Scurto, è deliziosa; senza arcaismi, scattante, fluida e impeccabile, così come tutte le altre. E’ assolutamente sbagliato non leggere questi romanzi per diffidenza o aspettando un miracolo che difficilmente accadrà, il mio consiglio è di leggerseli lo stesso; e se poi li ritraducono, potrete sempre rileggerli, perché romanzi come “L’ultima carta”, un gioiello assoluto, sono destinati a essere amati per una vita intera.

giovedì 9 gennaio 2014

L'OTTIMO INIZIO D'ANNO PER IL GIALLO MONDADORI.

Nella vita, secondo me, è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare. Fino allo scorso settembre sono stato piuttosto critico riguardo alle scelte editoriali di chi oggi gestisce la collana di polizieschi più importante di ogni tempo, con tanto di esternazioni di queste delusioni sul Blog del giallo Mondadori (come molti avranno intuito, l'utente che  scrive col nome di Omar sono io); mi pareva ci fosse poco coraggio nel puntare sul giallo classico, e soprattutto ho deprecato i "doppioni" nei classici del giallo, ma come Mauro Boncompagni mi ha fatto giustamente notare ad oggi il Giallo Mondadori non ha questo grande bacino di lettori,e per fare cassa si preferisce riproporre un Carr o una Christie già apparsi 20 o 30 anni prima ad uso e consumo di neofiti e nuove generazioni di lettori a discapito del collezionista che, come il sottoscritto, ha reperito la collana quasi per intero.
Però da qualche mese la situazione sembra, e sottolineo sembra, essere cambiata in meglio per il giallofilo esigente, con una scelta di titoli più attenta e mirata; da ottobre ci sono stati nel Giallo inedito titoli importanti come "Prigioniera delle ombre" di Mignon Eberhart risalente al 1936 (il primo e migliore periodo creativo dell'autrice), "Sei delitti senza assassino" di Pierre Boileau, un importantissimo giallo della camera chiusa che ha mandato in sollucchero gli appassionati del sottogenere (io non amo i gialli troppo arzigogolati, ma nemmeno li disprezzo, anzi) e per il prossimo mese è previsto un inedito di Anthony Berkeley. Insomma, tre gialli d'epoca in cinque mesi non è poco.
Altro fattore importante la riproposizione ormai semestrale di Anne Perry, il ritorno in pianta stabile di Paul Halter e il Peter Lovesey di questo mese; per gli appassionati di gialli contemporanei non mancano tanti inediti di autori Italiani, libri che non leggo ma che è giusto che abbiano un loro mercato.
Anche nei classici del giallo sono recentemente apparsi buoni titoli; la coraggiosa riproposizione di un Austin Freeman (il testimone muto) un Ursula Curtiss irristampato dal 1962 (uno di noi deve morire), e il prossimo mese una bella accoppiata; un romanzo di Julyan Symons, "Il 31 febbraio" tratto non come di consueto dal giallo Mondadori ma dai gialli proibiti Longanesi (ottimo questo pescare da altre collane oltre a quella regina) e l'ottima Charlotte Armstrong  con "Omicidio per la sposa". Ma il vero "miracolo" editoriale è senz'altro la raccolta di racconti di Margery Allingham di questo mese, dal titolo  "Tredici volte Campion", un'antologia di storie brevi finora INEDITE; questo vuol dire che dopo anni si rivede materiale inedito nella collana dei classici, una cosa che non può far che ben sperare.
Insomma, è senz'altro un inverno importante per la collana, con ottimo materiale sia classico che contemporaneo scelto con estremo criterio, che soddisfa tutti gli appassionati del genere. Si spera solo che questo 2014 si mantenga su questi ottimi livelli, nel frattempo un plauso alla redazione.

mercoledì 8 gennaio 2014

LETTERA APERTA ALLA SIGNORA GIUSEPPINA DEL BLOG "L'OEIL DE LUCIEN", CON GRANDE STIMA E AMMIRAZIONE.

Cara signora Giuseppina,

Ho letto con rincrescimento misto ad ammirazione il suo garbato rimprovero per una mia malignità "indiretta" che lei subito ha intuito, mettendomi a posto con grande acume.
Pur precisando che so benissimo che "attempata" si scrive con due t e il mio è stato un errore di battitura involontario ammetto di averla definita tale, ma non per un mero fattore anagrafico, bensì  per il garbo d'altri tempi con cui parla di libri gialli e della vita di ieri e di oggi, un garbo che ormai si sta perdendo sempre più in questa società dove impera la maleducazione e ormai il rispetto reciproco è un puro optional; quindi le sue opinioni e le sue scelte letterarie sono da considerarsi "datate" per l'uomo medio di oggi, ma è proprio per questo che la ammiro così tanto, che reputo il suo blog "L' oeil de Lucien" il migliore tra quelli esistenti sulla rete e quello che, lo ammetto, è stato più di ispirazione per questo mio modesto epigone; per me e l'altro amico a cui mi rivolgevo il suo lavoro è diventato un punto di riferimento unico, tanto che quando nelle nostre frequenti spedizioni per le librerie dell'usato di Firenze troviamo qualche giallo interessante ci chiediamo "Ma questo la signora Giuseppina lo avrà recensito?".
La seguo ormai da anni, e solo il fatto che ancora non ho ben capito come lasciare commenti sui blog di Tiscali (non sono precisamente un internauta) mi ha impedito di contattarla prima e per come merita; ma ora che ho scoperto che ho la fortuna di essere letto proprio da lei, voglio dirle ancora una volta che la ammiro tantissimo, e scusarmi ancora se l'aggettivo che ho usato l'abbia offesa o urtata, non c'era davvero l'intenzione, perdoni un giovanotto un po' scapestrato che ha mancato di tatto.

Spero che continuerà a seguirmi, e se ne avesse voglia anche di commentare i miei post; la sua opinione, positiva o negativa che sia, sarebbe per me di grande aiuto, perché ancora non posso definirmi un esperto, ho solo 31 anni e di gialli devo ancora leggerne molti prima di definirmi tale.

Le mando un mazzo di rose "virtuale", con grande stima e simpatia.


Omar

lunedì 6 gennaio 2014

“MISTERI SOTTO LA NEVE” DI NICHOLAS BLAKE, UN GIALLO RAFFINATO E ADULTO, MA ANCHE ESTREMAMENTE CLASSICO.


Se dovessi dire di aver letto tutti i gialli che negli anni ho comprato in mercatini e bancarelle, sarei un bugiardo; ovviamente se si trova uno scatolone di gialli Mondadori a venti centesimi l’uno sarebbe follia non prenderli, anche se poi il tempo di leggerli si trova solo dopo anni non conta, l’importante è averli disponibili al momento.
E direi una bugia anche nell’affermare che conosco tutti i grandi autori; non ho avuto ancora il tempo di approfondirli tutti, e la mia pigrizia mi posta a leggere dieci titoli di un autore provato e apprezzato piuttosto che dare una chance a uno ancora tutto da scoprire.
Ma nei buoni propositi del nuovo anno c’è anche quello di “sperimentare” di più, e quindi ho iniziato a leggere un autore del quale ho sempre letto meraviglie e di cui ho diversi titoli, dei quali era francamente folle procrastinare ancora la lettura.
E meno male che mi sono deciso, perché questo mio primo Blake è stata decisamente una bella lettura, soddisfacente sotto tutti gli aspetti; non un capolavoro, ma comunque un gran bel libro, il che non è poco.

Un giovane Nicholas Blake

Nicholas Blake è lo pseudonimo con cui l’illustre poeta Inglese Cecil Day Lewis (tra l’altro padre del fascinoso attore Daniel, protagonista dell’Ultimo dei Mohicani e dell’Età dell’innocenza) firmò una ventina di romanzi polizieschi, forse per diletto personale o forse perché, come Berkeley, li riteneva semplicemente fonte di guadagno facile e sicuro.
Fatto sta che, qualunque sia il motivo per cui siano stati scritti, i suoi libri sono molto apprezzati dai giallofili più esigenti. Si dice che il suo libro migliore sia “La belva deve morire” pubblicato tra l’altro nei Bassotti Polillo; ma per principio non inizio mai a leggere un autore da quello ce è considerato il suo capolavoro, perché ho sempre il timore che una partenza col botto mi faccia sottostimare gli altri lavori di un autore.
Questo “Misteri sotto la neve” è ambientato nel drammatico inverno del 1940-1941, nel quale l’inizio della guerra e la paura del regime nazista iniziava a condizionare seriamente la vita degli Inglesi. In ogni caso nella campagna dove si svolge l’azione la guerra resta ancora un’eco lontana, una cosa di cui discutere annoiati in salotto; il vecchio mondo sta scricchiolando pericolosamente, ma tiene ancora.

La bellissima copertina di Sergio

La storia inizia quando Nigel Strangeways, il detective più importante creato da Blake, viene invitato da una parente della moglie a indagare nella grande villa dei Restorick, importante famiglia del luogo, sulle stranezze di.. un gatto, che durante una seduta spiritica collettiva (assai di moda in quegli anni) si è comportato in modo assolutamente inusuale, aggredendo con ferocia un qualcosa che non c’era. Strangeways viene introdotto nella magione dei Restorick come esperto di fenomeni psichici, ma ben presto è costretto a riprendere la sua vera identità di detective, in quanto viene trovata impiccata la bellissima e psicolabile Elizabeth Restorick, sorella minore del padrone di casa Heverard e notoriamente ninfomane e psicolabile. Ecco, in questa descrizione cruda e diretta delle pulsioni sessuali e del corpo voluttuoso della morta ( che viene trovata completamente nuda, cosa che turba Strangeways) Blake somiglia ben poco ai giallisti più noti dell’epoca, ancora abbastanza pudichi, la Christie su tutti; Blake ha invece il piglio sanguigno e il cinismo di un Frances Iles, ma al contrario di questo riusciva a imbastire anche una buona atmosfera goticheggiante alla Dickson Carr, che raggiunge il culmine nel ritrovamento di un altro cadavere celato..dentro un pupazzo di neve!. Una bella trovata, che dimostra quanto un romanzo “avanti” per tematiche e linguaggio non debba per forza rinunciare a qualche buon brivido classico. Anche la cerchia ristretta di sospettati e i rapporti sotterranei e inconfessabili tra molti di essi è tipicamente “Golden age”, e assai ben gestita. E, dulcis in fundo, abbiamo tra i personaggi anche due bambini veramente simpatici e spontanei, per nulla irritanti come spesso accade; veramente troppa grazia.
Insomma, questo primo libro di Nicholas Blake è stato veramente bello, e spero che, continuando a leggere i suoi libri, possa trovarne qualcuno ancora migliore.

-INTRECCIO E SOLUZIONE FINALE;  9/10
-LEGGIBILITA’  9/10
-ATMOSFERA  8/10
-HUMOUR   8/10
-SENTIMENTO   8/10

MEDIA VOTO;  8,5