martedì 22 luglio 2014

"IL TERRORE NEL CASTELLO" DI RUDOLPH STRATZ.

Lo so, ancora una volta vi recensisco un titolo che a molti non dirà niente, Ne tantomeno vi dirà qualcosa il nome dell’autore. Perché anche in questa occasione, come altre due volte in questi ultimi mesi, viene recensita un testo irristampato dal 1932, precisamente il numero 33 della mitica collezione dei libri gialli Mondadori.


L'autore

 Questa uscita fu importante innanzitutto per un motivo; vi si presentava, per la prima e unica volta, un autore Tedesco, una vera e propria eccezione in una collana (giustamente) monopolizzata dagli scrittori Anglosassoni, dove trovavano spazio a fatica perfino gli autori nostrani (e molti perché imposti dal regime) e sporadicamente qualche Francofono. Ora, non so se nello sterminato catalogo del Giallo Mondadori del dopoguerra sia poi riapparso un autore Teutonico, ma dei grandi giorni delle palmine questo è l’unico titolo di un Tedesco seppur non l’unico titolo in lingua Tedesca, visto che il numero 30 della collana presentava “Il maestro del giudizio universale” dell’ Ebreo Austriaco Leo Perutz.


Copertina di Abbey (fonte; Uraniablog)

Credo che questo “Schloss Vogelode”, uscito nel 1921 e da cui il grande regista Murnau trasse un film omonimo (lo si può visionare gratuitamente e legalmente su Youtube con didascalie in Tedesco)  non abbia goduto di ristampe perché, come anche  “Una voce dalle tenebre”  e “La dama di compagnia” non è un vero giallo. Se gli ultimi due citati erano in fondo delle Inverted stories, Il terrore nel castello è invece un Sensational alla Wilkie Collins, autore che il tedesco Stratz (del quale non mi risulta essere apparso niente altro da noi) sicuramente conosceva per parecchi motivi, che vedremo più avanti; l’unica cosa certa è che, come gli altri titoli sopra citati, questo è un libro bellissimo ed estremamente appassionante, un gioiello che tenere nell’oblio è al tempo stesso crudele e insensato.



Nella Baviera di metà ottocento, in un ottobre umido e fosco, si ritrovano nel maestoso castello di Vogelode, proprietà del barone Leopoldo di Vogelschery, dove esso vive con l’amata moglie Cetta e i suoi bambini (scusate i nomi Italianizzati, ormai lo sapete) amici d’alto lignaggio del padrone di casa per cacciare nell’imponente riserva del castello, famosa in tutta la Baviera.
La compagnia è eterogenea, e tra  tutti spicca lo sconcertante  conte Giovanni Deodato Oetsch, uomo dissoluto, avventuriero impavido e mistico teorico che crede nei fantasmi e nella reincarnazione, generoso e liberale coi servi ma odioso e attaccabrighe coi suoi pari. Quest’uomo ha il merito di attirare su di se tutta l’attenzione, nel bene e nel male, e anche se nessuno lo stima tutti ne hanno paura, soprattutto perché su di lui pesa l’atroce sospetto di aver assassinato il fratello per usurparne soldi e proprietà. Il sospetto è pesante, ma nessuno ha mai potuto provare niente, e il conte Oetsch si gode beato il presente.
Ma una sera, al castello arriva con suo marito la baronessa Metta Safferstatt, ex cognata del conte Oetsch e sua principale antagonista; la baronessa apparentemente giunge a Vogelod col marito perché legata a un’affettuosa amicizia con Cetta, ma in realtà i suoi scopi sono ben altri, e inizia un serrato e tesissimo gioco delle parti dove nessuno può dirsi al sicuro…

Dunque, si è detto di romanzo Collinsiano, perché innanzitutto riprende in modo abbastanza palese la struttura della “Pietra di luna”, trasferendo l’azione dall’amena campagna inglese a un imponente castello nelle montagne della Baviera, retrodatando l’ambientazione al 1850, quindi più o meno l’epoca Collinsiana. E inoltre tutta la storia viene narrata al lettore attraverso più voci, con più personaggi che  raccontano lo svolgersi degli eventi ognuno a suo modo e dal suo punto di vista, mutuando i fatti attraverso il proprio essere e la propria cultura,e  a raccontare può essere uno scaltro giudice, o la pudica castellana, o un pittore assai romantico o ancora un ignorante guardiacaccia, proprio come Betteredge, Cuff, Rosanna Spearman e altri indimenticabili character del sommo testo Collinsiano.
Se la struttura riprende quindi modelli da romanzo Vittoriano, il contenuto è decisamente più latino, molto melodrammatico; questo mi ha spiazzato, da un autore Tedesco mi sarei aspettato tutto meno che dei toni quasi, e dico quasi, alla Carolina Invernizio. Non so se il traduttore Cesare Giardini ci abbia messo del suo, ma il testo risulta decisamente “caldo”, quasi violento nel suo liberare molti tipi di emozione; i personaggi fremono, gridano, minacciano di morte i loro antagonisti; le due donne, legate da un’amicizia morbosa che riflette quelle assai ambigue viste in coevi film Tedeschi come “Lulu” o “Madchen in uniform” (specialmente leggendo passi come “Amavo Metta fin da quando eravamo al collegio, e i miei unici momenti di gioia erano quelli in cui potevo rifugiarmi tra le sue braccia, con lei che mi lasciava fare e mi chiamava la sua gattina”), sono sempre sopra le righe, pronte a esplodere in crisi isteriche, anche  se poi riescono sempre a dominarsi. In poche parole, in questo libro si ha un giusto mix di gusto Inglese e temperamento continentale, e la miscela funziona alla perfezione, visto che il fortunato lettore (io sicuramente, avendo trovato il libro in un mercatino di provincia e pagandolo un misero euro) resta avvinto dall’inizio alla fine senza sbadigli alcuni. E se l’intreccio più strettamente poliziesco alla fine è abbastanza prevedibile e il villain improbabile nel suo Fregolismo sfrenato, bisogna perdonare il povero Stratz, che non era un giallista e in fondo è finito abbastanza inaspettatamente nella leggendaria collana; ma cara Mondadori, visto che ormai il testo ce l’hai e basta una rinfrescatina a una traduzione ottima e scattante, invece di uno Stout o di un Christie in terza / quarta ristampa, quanto ti costerebbe mai riproporcelo sui classici del giallo? Se poi lo avete smarrito negli archivi ve lo presto io senza complimenti….

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