sabato 2 novembre 2013

MISS PYM, OVVERO IL "ROMAN ROMAN" DI JOSEPHINE TEY

Il francesismo del titolo del post, molti di voi già lo sapranno, viene dalla definizione data a quei romanzi di Georges Simenon di argomento non poliziesco (e non che i Maigret spesso non dirazzassero già di loro..), di quei romanzi in  cui magari c’è un dramma e un crimine ma non ci sono indagini, inchieste né tantomeno investigatori e ispettori di polizia.
Anche la Tey, sicuramente la giallista Inglese più accostabile a Simenon (per la profondità dei temi affrontati, la finezza psicologica nella caratterizzazione dei suoi personaggi e la grande umanità del suo personale Maigret, ossia Alan Grant) scrisse nel 1946 un libro che presenta un dramma umano ma che non è assolutamente ascrivibile al genere poliziesco, ossia questo “miss Pym”, miracolosamente edito in Italia dalla Nottetempo editore, che ha in catalogo anche un altro capolavoro dell’autrice, il già recensito in questo blog “Un’accusa imbarazzante”.

Ora, non che la Tey abbia mai scritto un mystery tradizionale in stile Agatha Christie; i suoi otto gialli sono tutti in qualche modo unici, magari spiazzanti ed eversivi come i libri dei veri fuoriclasse, ma certo non dei polizieschi canonici; ma in ogni caso, anche se in molte occasioni l’elemento giallo è un ricamino a margine di un libro molto più complesso e profondo, esso c’era comunque, mentre Miss Pym è esclusivamente una dolorosa e crudele tragedia dell’ambizione frustrata.
Opera praticamente sconosciuta nel nostro paese e presentata in modo abbastanza reticente e laconico in quarta di copertina, si affronta il libro senza saperne pressoché nulla.
 Inizia con la protagonista Lucy Pym, una grassoccia e scialba ex-insegnante quarantenne inaspettatamente diventata celebre per aver scritto un best-seller sulla psicologia spicciola allora di gran moda (mode sulle quali l’autrice ironizza non poco), che si reca a tenere una conferenza sul suo libro all’istituto di educazione fisica Leys, da qualche parte nella verde Inghilterra, uno strano (per noi Italiani) istituto nel quale ragazze in età liceale sgobbano per imparare sport, danza e scienze motorie; alla fine del corso dovrebbero diventare insegnanti di educazione fisica, di ballo o intraprendere una carriera in medicina ortopedica.
Miss Pym si reca ospite per un solo giorno nel collegio, retto dalla sua vecchia amica Henrietta, alla quale Lucy si sente legata da una antico affetto derivato dal fatto che quando erano studentesse Henrietta difendeva la debole e insignificante Miss Pym dalle angherie delle compagne;  per riconoscenza quindi la donna, ormai famosa e riverita, accoglie controvoglia la richiesta-supplica della vecchia amica.
Una volta nell’istituto, però, miss Pym viene irretita dall’energia e dal vigore di quelle little women, che la prendono in grande simpatia e la considerano una persona importante, che riesce a capirle; e quindi la donna si trova catapultata in una replica della sua vecchia esistenza, a rivivere i suoi lontani giorni da studentessa convivendo le gioie e i dolori quotidiani di quelle ragazze; ma a differenza del passato si sente amata, si sente un punto di riferimento, ed è smisuratamente orgogliosa di ciò; e quando tutte, la preside Henrietta compresa, la supplicano di rimanere fino all’imminente saggio di fine anno, miss Pym acconsente di buon grado.
Intanto scorrono i capitoli in un romanzo in cui non succede praticamente nulla ma che riesce lo stesso a rapire, presentando un microcosmo incantato, un gineceo dove donne giovani e adulte ( l’eterogeneo corpo delle insegnanti) vivono e si misurano costantemente l’una con l’altra, un luogo dove si pensa da donne, si vive da donne, si sogna da donne; non a caso i personaggi maschili sono solo tre o quattro, e tutti marginali; questo è un vero e autentico libro scritto da una donna per le donne.
Scorrono i capitoli, e ci ritroviamo a pagina duecento, a oltre metà della storia. E solo a questo punto, quando ormai sappiamo tutto del Leys e di chi vi risiede, che l’autrice da una svolta al libro; arriva la richiesta di una studentessa, la più dotata, da parte del miglior istituto femminile d’Inghilterra, l’Arlinghust, un luogo assolutamente mitico e irraggiungibile per tutte le studentesse, un qualcosa di leggendario e indefinito come Shangri-la; e tutte loro, come le insegnanti, sono convinte che la fortunata sarà la dotatissima Mary Innes, senza discussioni la migliore  di tutte loro, una creatura superiore che sembra si sia abbassata a vivere sulla terra pur senza avere nulla a che spartire coi suoi simili. Ammirata e stimata da tutte, l’unica sua vera amica è Beau Nash, una vera bellezza che ricorda la Venere di Botticelli; queste due ragazze sono  legate da un’amicizia quasi morbosa, una amicizia praticamente dettata dall’istinto che governa il mondo, visto che le due sono il rispettivo complemento dell’altra.
Insomma, mentre tutto il collegio da per scontato che ad Arlinghust ci andrà la Innes, avviene un fatto grottesco; la direttrice Henrietta, per un capriccio personale, sfidando tutto il corpo docenti, raccomanda una certa Rouse, studentessa piuttosto dotata ma del tutto inferiore alla Innes, ma al contrario di essa (che non fa nulla per ingraziarsi le insegnanti o la preside) abile ruffiana e leccapiedi. Questa decisione inconcepibile, osteggiata dalla stessa miss Pym( che la sa persona disonesta, in quanto ha sorpreso la Rouse nell’atto di consultare un taccuino per aiutarsi durante una prova) provoca un effetto-slavina che culmina in una cruenta e sconvolgente tragedia.
Dopo di esso ( assolutamente non si può dire di più sulla trama) l’atmosfera idilliaca si spezza, e il romanzo diventa veramente un  dramma in stile Simenon, dove le persone, difficilmente distinguibili tra vittime e carnefici, commettono cose orribili per motivazioni sordide e meschine, e le coscienze di coloro che ne sono coinvolti si macchiano indelebili per sempre. E lo splendido doppio finale, questo si giallissimo e degno della migliore Christie, getta una luce distorta e accecante su ogni cosa, lasciando nel lettore che chiude il libro un sentimento che è un misto di stupore e amarezza, che si tramuta presto in una grande, commossa e partecipe tristezza.
Insomma, un testo tanto notevole da essere forse il romanzo più bello e profondo della Tey, ma un libro comunque diverso dai canoni dell’autrice; non c’è la suspense spasmodica del Ritorno dell’erede, non c’è la brillantezza e l’arguzia in punta di penna della Strana scomparsa di Leslie, non c’è l’intento di affrescare l’Inghilterra del tempo come in Un’accusa imbarazzante, ne tantomeno il movimentato brio dell’ Uomo in coda. Ma c’è altro, altro ancora, altro genio, altre emozioni scaturite da quella fucina inesauribile che era il talento di Elizabeth MacKintosh, in arte Josephine Tey.

6 commenti:

  1. Come sempre, grazie per la 'dritta'.

    RispondiElimina
  2. L'avevo recuperato prima dell'estate, dopo i tuoi post sulla Tey. Che dire, mi e' piaciuto davvero molto, anche se - come dici - e' diverso dal resto della sua produzione. Non ti ringraziero' mai abbastanza per avermi fatto scoprire questa autrice!

    RispondiElimina
  3. Enrico, della Tey sono disponibili in libreria tutti gli 8 romanzi che ha scritto, e sono imperdibili. Gianluca, mi fa veramente molto piacere averti "convertito" alla Tey, e anche il fatto che tu abbia apprezzato anche un libro fuori dagli schemi tradizionali come questo.

    RispondiElimina
  4. Già mi avevi incuriosita riguardo a questa autrice, se poi la compari a Simenon... insomma, hai toccato il tasto giusto per spingermi definitivamente a leggerla :)

    RispondiElimina
  5. Il paragone con Simenon in realtà si limita alle poche similitudine espresse...ma in ogni caso sono felice di averti dato un incentivo in più...

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.